Edmund Husserl: Meditazioni cartesiane

Meditazioni cartesiane Book Cover Meditazioni cartesiane
Germanica
Edmund Husserl. Andrea Altobrando (Ed.)
Orthotes Editrice
2017
Paperback € 18,00
202

Reviewed by: Daniele Valli (Università degli Studi di Milano)

Le due Meditazioni

Il ruolo di René Descartes (1596 – 1650) nella storia della filosofia occidentale è sempre stato controverso. Da un lato le enormi innovazioni portate in ambito geometrico-analitico e dall’altro le dirompenti teorie metafisiche hanno reso il dibattito sul filosofo francese da sempre acceso, nel costituirsi di schieramenti di tenaci sostenitori e irremovibili oppositori. Del resto, le idee che egli ha introdotto nel panorama intellettuale del suo tempo erano così audaci da non lasciar spazio all’indifferenza. Anche Edmund Husserl (1859 – 1938), padre della fenomenologia trascendentale, anch’egli propositore di un sistema filosofico in contrasto con gli schemi tradizionali, non poté fare a meno che confrontarsi con l’illustre autore delle Meditazioni Metafisiche (1641). Proprio questo testo, infatti, è divenuto nella filosofia occidentale un riferimento imprescindibile per ogni programma di fondazione prima della conoscenza. Entrambi gli autori, infatti, si propongono come fautori di una filosofia radicale. Essi intendono trovare quel terreno certissimo al di sopra del quale sia legittimo costituire ogni conoscenza. Non si può certo dire, tuttavia, che i due percorsi filosofici conducano alle medesime conclusioni. La fenomenologia husserliana nasce nei primissimi anni del ‘900, quando il filosofo tedesco elabora un pensiero originale sulla base delle lezioni del suo “geniale maestro”, psicologo e filosofo, Franz Brentano (1838 – 1917). Husserl propone una conversione antipsicologistica delle grandi scoperte dal suo professore, costituendo una dottrina teoretica completa. Le Meditazioni Cartesiane (1931) ne rappresentano un manifesto esemplare e vengono oggi riproposte al pubblico italiano in un’ottima traduzione di Andrea Altobrando, che non risparmia l’asprezza della prosa del filosofo tedesco pur di restituirci fedelmente il suo pensiero. Esse vennero in prima istanza pubblicate in lingua francese nel 1931 con il titolo ditations Cartésiennes, sebbene risalgano ad una conferenza tenuta da Husserl alla Sorbona il 23 e 25 febbraio del 1929. Per la prima edizione tedesca bisognerà attendere il dopoguerra, quando nel 1950 vengono pubblicate con il titolo Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge a cura di Stephan Strasser. Le Meditazioni Cartesiane appaiono dunque quando il pensiero husserliano si è già affermato in ambito internazionale da oltre un decennio e il filosofo tedesco si è già ritirato dall’insegnamento. Tuttavia Husserl sembra qui avere la necessità di riproporre il suo sistema in una nuova veste. Esse, infatti, non seguono il tipico procedere della prosa husserliana, meticolosamente analitica e sistematica. Qui l’approccio è diverso: egli sviluppa la sua argomentazione seguendo una trama narrativa che riprende l’impostazione delle Meditazioni Metafisiche. L’opera, infatti, è organizzata non sulla base di una suddivisione tematica dei contenuti trattati, bensì in una successione di passaggi deduttivi. Muovendosi dalle stesse premesse del filosofo francese, egli intraprende un percorso espositivo originale che procede verticalmente per livelli. Husserl, infatti, riprende il problema fondamentale posto da Descartes nelle Meditazioni Metafisiche e ne offre una proposta risolutiva fondata su una progressiva introduzione alla fenomenologia trascendentale. Egli è infatti rimasto molto colpito dalla brillantezza del filosofo francese nel rappresentare il dramma epistemologico della cultura occidentale: “Esse [le Meditazioni Metafisiche] costituiscono piuttosto il modello delle meditazioni necessarie a qualunque filosofo principiante, meditazioni dalle quali soltanto una filosofia può originariamente svilupparsi.”. Descartes ha inquadrato con genialità la questione irrisolta della metafisica: in virtù di cosa può una conoscenza ritenersi legittima? Qual è il criterio fondante della scientificità? Egli propone una progressiva e sistematica messa in discussione di ogni aspetto dell’esperienza umana alla ricerca di ciò che è essenzialmente indubitabile, di ciò che è al di fuori di ogni possibilità di errore, del punto immobile su cui edificare il grande universo del sapere. Questa operazione di ricerca assoluta rimasta nota come “dubbio iperbolico” è resa attuale nella proposta cartesiana tramite l’ipotesi del genio maligno, ovvero l’ipotesi di per sé non confutabile dell’esistenza di un Dio malvagio che mi inganni in ogni istante, facendomi cadere in errore ogni volta che ho un percezione, che esprimo una valutazione o che calcoli un risultato matematico. Così, seguendo tale ragionamento, nessuna delle conoscenze per me valide nella quotidianità sembra potersi dire al riparo dalla possibilità di essere falsa. Com’è noto, tuttavia, Descartes ritiene di individuare una certezza apodittica e fuori da ogni potenziale dubbio nell’espressione “ego cogito, ego sum”: se mi persuado dell’esistenza di un genio ingannatore dovrò pur, almeno io stesso, oggetto dell’inganno, essere qualcosa. In altre parole, “se penso, sono”. L’argomentazione cartesiana si sviluppa poi, partendo da tale assunto, nel configurare una dottrina dualistica della realtà, divisa in res cogitans e res extensa, dottrina che sarà sottoposta a severe critiche lungo tutto il corso dell’età moderna e oltre. L’impostazione husserliana, come detto, intende riprendere le suggestioni delle Meditazioni Metafisiche. In particolare, il filosofo tedesco è stimolato dall’idea della dubitabilità strutturale delle certezze naturali. Cosa c’è di sicuro nell’esperienza del mondo? A partire da questo interrogativo, le strade dei due pensatori si dividono. Se infatti Descartes risponde “Ego cogito” e ciò gli è sufficiente, Husserl risponde “Ego cogito cogitata qua cogitata”. Il terreno della soggettività dischiusosi tramite l’esercizio del dubbio non può, secondo Husserl, essere considerato un ritaglio di apoditticità del mondo naturale. Il soggetto naturalmente inteso, psicologico, positivo, non è legittimamente escluso dalla dimensione dell’incertezza. La sola forma di soggettività realmente al di fuori di ogni possibile messa in discussione è la soggettività che emerge dall’operare le proprie cogitazioni, in quanto correlato di ogni cogitazione. Le cogitazioni si danno, si offrono nella loro manifestazione esperienziale: si può dubitare della valenza ontica del mondo naturale, ma non del suo puro darsi in atti cogitativi. L’offrirsi delle cose in quanto correlati d’esperienza (cogitata qua cogitata) è ciò di cui non si può ragionevolmente dubitare: esse si offrono in manifestazioni e, a prescindere dalla rispettiva valenza ontologica, stanno lì, presenziano. A partire da queste osservazioni il filosofo tedesco sviluppa progressivamente un percorso teoretico che condurrà all’esposizione della fenomenologia trascendentale. In questo modo egli vuole sottolineare come il suo sistema si ponga come formulazione teorica fondata su basi aprioristiche: le sue fondamenta sono estraibili da quel percorso radicalissimo con cui Descartes ha fondato la filosofia moderna ed esso ne si presenta pertanto come paradigma risolutivo. I passi, tuttavia, con cui si propone di arrivare al compimento del sistema fenomenologico partendo dal dubbio cartesiano sono diversi. Anche egli, infatti, divide i passaggi argomentativi in distinte meditazioni di cui ognuna costituisce la premessa della successiva, per un totale di cinque meditazioni (Descartes ne avanzò sei).

Prima meditazione

Il percorso neocartesiano intrapreso da Husserl esordisce tematizzando il problema della scienza. Le scienze di fatto, o positive, presentano un modello gnoseologico ben strutturato: esse si propongono di svelare i meccanismi della natura tramite il metodo osservativo e sperimentale che si è costituito nel corso della loro genesi. Si è inoltre radicata la credenza culturale per cui ogni forma di conoscenza certa dovesse seguire il medesimo approccio. Anche Descartes, secondo il filosofo tedesco, era in fondo persuaso di tale lettura, e coltivava l’idea di una scienza universale costituita sulla base del sistema deduttivo proprio della geometria, di cui egli fu un grande teorico. Questa proiezione del sistema analitico-deduttivo sul problema della fondazione assoluta della conoscenza fu, secondo Husserl, un primo equivoco. Non sarebbe lecito, infatti, costituire un nuovo ideale di scienza sulla base di un prodotto culturale già fornito. Nella prospettiva di una ricostituzione radicale della teoria della conoscenza è infatti necessario eliminare ogni presupposto, costruendo in maniera priva di preconcetti le regole di una conoscenza legittima. La validità delle scienze positive, in altre parole, pur fornendo esse delle ricette epistemologicamente e tecnologicamente valide, ha comunque l’esigenza di una fondazione. Queste fondazione, del resto, è proprio la fondazione di cui entrambi i pensatori sono alla ricerca: il disvelamento del terreno puro su cui ogni conoscenza, scientifica o teoretica, possa dirsi indubitabilmente costituita. Da cosa, quindi, partire per edificare un simile edificio in assenza, apparente, di alcun attrezzo da lavoro? Husserl propone a questo proposito di considerare il senso della scienza a partire da una analisi fenomenica e descrittiva. Cosa rende l’ideale della scienza così forte? In cosa si caratterizza la struttura manifestativa del processo scientifico? La struttura deduttiva del giudizio esibisce una catena di predicazioni in cui ogni asserzione funge da premessa e da legittimazione di quella successiva. Il meccanismo, dunque, si mostra come una stratificazione di conoscenze orientato ad una progressiva e sempre maggiore chiarificazione del sapere. Husserl ritiene che, procedendo a ritroso, si possa accedere in questo modo all’idea prima di “evidenza”. Cosa innesca, infatti, il ciclo auto-edificante della scienza? Egli ritiene sia proprio la proprietà fenomenologicamente pregnante del “darsi come evidente” della natura. Ogni giudizio scientifico, come detto, si origina su una precedente forma di sapere e il carattere dell’evidenza in questo ciclo esercita una funzione essenziale. Essa si pone come l’elemento eideticamente peculiare del conoscere, sia nella sua forma giudicativa che in quella originaria. Il filosofo tedesco distingue, infatti, l’evidenza predicativa da quella antepredicativa. La prima è quella forma di evidenza sillogistica per cui una concatenazione di asserzioni propone conclusioni giustificate sulla base delle rispettive premesse. Tuttavia, tali premesse devono fondarsi a loro volta su altre precedenti, e così via. In questa linea deduttiva l’origine della proprietà predicativa dell’evidenza non può che essere antepredicativa, ovvero non può che sorgere nel terreno primordiale del puro darsi, prima di ogni presa di posizione assertiva. Il punto di partenza intrascurabile deve essere, per queste ragioni, proprio quello dell’evidenza antepredicativa. Essa esercita un ruolo primario nello svilupparsi della funzione di credenza, fondamentale tanto nella dimensione epistemologica quanto in quella gnoseologica in generale. E’ l’esperienza stessa, infatti, ad offrire nella sua forma peculiare le ragioni della fondazione del sapere: in un certo senso, gli oggetti si offrono prescientificamente già come “tali da essere creduti certi”. Tuttavia, Husserl mette in guardia, è opportuno tematizzare un’ulteriore analisi critica dell’idea di evidenza. Da un lato, infatti, si dà il carattere evidente degli oggetti della natura, del loro semplice darsi precategoriale, dall’altro si dà il concetto di evidenza apodittica. Effettivamente il mondo naturale si offre nella nostra esperienza come evidente e noi sappiamo di essere, in fondo, tenuti a crederci. Tuttavia, questa forma di evidenza, che è la stessa che si costituisce nell’esperienza antepredicativa originando quella predicativa, è lungi dall’essere apodittica. Come mostrato nell’introduzione, infatti, è sempre per principio possibile avanzare dei dubbi sulla veridicità di taluni eventi d’esperienza, e, nell’ipotesi del genio maligno, persino dell’esperienza nella sua totalità. L’evidenza del mondo naturale pertanto, anche se si presenta come la ragione genetica della credibilità empirica delle scienze positive, non si offre come aggancio legittimo per una costituzione universalmente fondata del sapere. Ciò di cui sia Descartes che Husserl sono alla ricerca, infatti, è un’evidenza apodittica, ovvero assolutamente certa. L’ego cogito giunge qui in nostro soccorso: il soggetto nella sua operatività intenzionale offre un terreno del tutto al di fuori di ogni sospetto, il terreno della manifestatività. Sì può infatti dubitare di questo o di quell’accadimento esperienziale, ci si può spingere fino a dubitare interamente di ogni accadimento, ma non si potrà certo dubitare del “darsi” di tali accadimenti. Le cose del mondo ci si offrono a prescindere dal loro valore ontologico e a prescindere dal nostro atteggiamento speculativo nei loro confronti. Da qui, afferma Husserl, soltanto da questa dimensione certissima può originarsi un’autentica teoria della conoscenza. Descartes, pur avendo il merito storico di porre il problema del sapere in questi termini, secondo il filosofo tedesco era già a questo punto della ricerca sui binari sbagliati. Egli avrebbe infatti finito per confondere il soggetto trascendentale con una porzione indubitabile del mondo: esso, al contrario, non può essere affatto considerato come un indubitabile tra i dubitabili, come un’isola di certezza al centro dell’ oceano tempestoso del dubbio. Il soggetto trascendentale non è altro che il punto estremo di quella correlazione originaria che è l’intenzionalità, quella formazione a priori in cui l’esperienza si offre proprio e soltanto in quanto tale.

Seconda meditazione

Il grande risultato a cui la prima meditazione conduce è il disvelamento del soggetto trascendentale. Con il trascendentale si apre infatti un nuovo ordine di argomentazioni che non si riferisce più al mondo naturale, come inconsapevolmente Descartes fece, bensì si riferisce al modo del suo porsi nella pura esperienza. Il Cogito viene infatti da Husserl ripensato, escludendo la sua componente positiva e formulando l’inedito binomio “cogito – cogitationes”. Il Cogito non è più, di fatto, una parte indubitabile del mondo, ma è il polo soggettivo degli atti cogitativi in cui si dispongono gli eventi di esperienza, le “cogitationes”. Non si dà, in altre parole, una soggettività in assenza degli atti intenzionali in cui la natura si manifesta, e solo questa consapevolezza è aprioristicamente al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Così, nella seconda meditazione Husserl distingue una “riflessione naturale” da una “riflessione trascendentale”. Con tali espressioni egli si riferisce alla tipica distinzione tra atteggiamento naturale e atteggiamento fenomenologico, due distinti approcci nei confronti dell’esperienza che egli teorizza in ogni sua introduzione alla fenomenologia a partire da Idee I (1913). Da un lato, infatti, abbiamo l’atteggiamento della quotidianità, non speculativo e immerso nelle credenze proprie del nostro comune rapporto con il mondo, dall’altro l’atteggiamento fenomenologicamente ridotto, quello che tramite l’atto dell’epoché sospende le credenze abituali e conferisce uno sguardo descrittivo e trascendentale sugli eventi d’esperienza. Si tratta dunque proprio della fenomenologia trascendentale, la cui funzione viene in questo testo viene esibita tramite il percorso cartesiano. L’intenzionalità rappresenta l’universale a priori della correlazione, quella funzione originaria entro cui si stabilisce il rapporto tra soggetto trascendentale e oggetto d’esperienza. Ogni atto cogitativo, ogni cogitatio, ha sempre un riferimento esperienziale: ogni attività di coscienza è infatti coscienza-di-qualcosa. Questo legame inscindibile, caratterizzante ogni esperienza, consente di distinguere gli oggetti dell’esperienza dai rispettivi vissuti. Infatti ogni oggettualità ci si offre entro specifici decorsi percettivi, i quali, pur variando, rimangono orientati al medesimo correlato. In questa prima distinzione fenomenologica si inquadrano già quelle due componenti, noesi e noema[i], centrali nell’intero discorso husserliano. Tali nozioni divengono infatti fondamentali nello spiegare come dalla molteplicità del sensibile si costituiscano eideticamente delle singolarità proprie, che trascendono la propria manifestazione pur originandosi in essa. Secondo Husserl nell’attività intenzionale esiste una componente sintetica che è in grado di conferire unità formale ai suoi contenuti. Egli si riferisce alla sintesi temporale, quell’operazione che connette temporalmente atti distinti in medesimi vissuti e che viene da lui teorizzata a partire dagli anni ‘20. La vita intenzionale si caratterizza infatti per disporre di una temporalità la cui presenza è condizione fenomenologica imprescindibile per il costituirsi di oggetti singolari. Questi ultimi infatti accolgono la pluralità noetica delle manifestazioni, rendendosene correlati ultimi. Inoltre, pur costituendosi essi nell’immanenza dei relativi decorsi, il loro significato non si esaurisce mai al loro interno. Nell’esperire un certo oggetto la nostra funzione cognitiva va oltre il suo mero manifestarsi, cogliendone una struttura propria, piena, a tutto tondo. Esso ci si offre sempre prospetticamente, per adombramenti, e per quanto non appaia mai nella sua pienezza ciò che cogliamo non è una porzione di oggetto ma un oggetto intero ed autentico. In ogni decorso d’esperienza si dà, in altre parole, la possibilità di “intendere-di-più” [Mehrmeinung], offrendo strutturalmente la possibilità di andare oltre lo specifico supporto sensibile. Questa “potenzialità predelineata” è ciò che ci consente di parlare di una “trascendenza nell’immanenza” , di un’eccedenza costitutiva tra oggetto e atto della propria presentazione. La ricerca fenomenologica, e con questa osservazione Husserl conclude la seconda meditazione, si delinea dunque come il tentativo di percorrere queste potenzialità proprie dell’esperienza, nella volontà di esplicitare quei caratteri ancora non rivelati della pura manifestatività.

Terza meditazione

Con la terza meditazione Husserl introduce una problematica che accompagna la ricerca fenomenologica già dai suoi primi esordi. Come spiega nelle prime righe, nelle prime due meditazioni egli ha affrontato il problema dell’esperienza riferendosi agli oggetti in senso vasto, nella loro struttura generalissima. Avverte tuttavia l’esigenza di problematizzare ora le modalità delle manifestazione, introducendo dunque delle distinzioni qualitative tra atti e tra correlati. Come detto, la questione dei modi di datità è una componente fondamentale del programma husserliano. Egli riscontra, infatti, delle proprietà fenomenologiche diverse nelle diverse modalità di presentazione della natura, e considera essenziale operarne un’esplicitazione. L’evidenza del mondo naturale torna qui come oggetto di riflessione: essa è infatti una specifica modalità di manifestazione dell’esperienza. Precisamente, essa qualifica il carattere di realtà del mondo, attribuendogli quell’universo di credenze proprio dell’atteggiamento naturale. Nella quotidianità infatti noi percepiamo uno stato di cose a cui siamo spontaneamente portati a credere. In un certo senso, come dice Husserl, noi abbiamo a che fare con oggettualità il cui esserci è scontato, creduto, presupposto. Solo nell’atteggiamento speculativo e poi in quello fenomenologico siamo in grado di dubitarne e poi di sospenderne il giudizio. La natura ci si auto-offre instaurando un rapporto di fiducia a cui non possiamo rinunciare: ci si offre “originariamente”. Parallelamente al modo della realtà, si trova quello che Husserl definisce “quasi-realtà”, ovvero la fantasia. Fantasia, tuttavia, che è da intendere non come facoltà creatrice e creativa, ma come atto della presentificazione. Laddove esiste quella evidenza originaria, infatti, si ha a che fare con una realtà: al contrario, dove essa manca si offre una presentificazione, una presenza nel “come-se”, un’aleggiare in fronte a me di qualcosa il cui esistere è manifestamente non implicito. La natura, afferma infine Husserl, proprio per le distinte qualità del suo darsi si raggruppa in distinte “regioni ontologiche”. Oggetti con proprietà simili staranno così nei medesimi insiemi, determinando una classificazione generale delle oggettualità del mondo, formali e materiali. Anche in questo caso, tuttavia, il problema è soltanto accennato, senza essere debitamente sviluppato come invece accade in altre ricerche. Si evidenzia infatti come l’intenzione del filosofo tedesco in questo testo non sia quella di svolgere una compiuta indagine fenomenologica, quanto più di introdurla, inserendola all’interno di quella tradizione di pensiero che Descartes ha avuto il merito di inaugurare.

Quarta meditazione

Una questione su cui Husserl ne le Meditazioni Cartesiane si sofferma al punto da offrirne una approfondita analisi è quella dell’Io trascendentale. La quarta e la quinta meditazione, infatti, esaminano da più punti di vista la costituzione della soggettività, nel suo definirsi in una rete pluri-soggettiva. In particolare, nella quarta egli afferma che l’Io trascendentale è, innanzitutto, “polo identico dei vissuti”. La struttura dell’intenzionalità infatti presenta due estremità legate in un’unica correlazione. Da un lato la dimensione soggettiva, dall’altro la dimensione oggettuale. Quest’ultima, quando presente con carattere d’evidenza si auto-esplicita come “lì in sé stessa”: tuttavia questa autonomia originaria rimane inseparabile dalla relazione al soggetto, che mantiene per principio il suo carattere di apriorità. Allo stesso modo il soggetto, per quanto costituito in un’autocoscienza egologica, rimane inscindibile dal rapporto intenzionale. Ogni atto di coscienza è coscienza-di-qualcosa, ma reciprocamente ogni presenza oggettuale è presenza-a-qualcosa. In questa duplice inscindibilità originaria si cela l’essenza propria dell’intenzionalità, ovvero quella funzione correlativa universale e a priori di ogni evento d’esperienza. A questo punto dell’argomentazione, una riflessione critica su quali esiti stia offrendo la soluzione fenomenologica del problema cartesiano sembra essere legittima. Infatti, è proprio Husserl a chiamare in causa il dibattito contemporaneo intorno alla questione dell’idealismo per cercare di dare risposta a coloro interessati a collocare il pensiero husserliano entro le tradizionali categorie della metafisica moderna. La fenomenologia trascendentale così esposta rappresenta un nuovo esempio di idealismo trascendentale? Da un lato, lo spirito cartesiano che permea questo scritto sembra suggerirci una risposta positiva. In effetti, Husserl affronta senza indugi la tipica domanda sulla verità del mondo, abbandonandosi radicalmente al dubbio scettico e scoprendo dunque il fianco a critiche anti-metafisiche. D’altra parte, a chiunque muovesse obiezioni di tale impronta egli non potrebbe che replicare con severità. In fondo, il suo esplicito intento è sin dall’inizio quello di sgomberare il campo da ogni forma di dogmatismo, sia metafisico che positivista. A chi dunque ponesse un problema di “metafisicità” della fenomenologia trascendentale, la sola risposta possibile sarebbe quella di mostrare come in realtà l’intero programma fenomenologico (e lo stesso problema cartesiano, in fondo) voglia rappresentare la strada per superare certamente il realismo ingenuo, ma anche e non di meno superare ogni forma di metafisica spiritualista. Dall’altro lato, Husserl ammette la possibilità di riferirsi alla fenomenologia trascendentale come a una dottrina “idealista” a patto che si chiarisca efficacemente il termine. Non bisogna infatti dimenticare il netto scarto teorico che distingue la fenomenologia dalle tradizionali teorie della conoscenza, cioè quell’operazione di sospensione del giudizio che conduce ad un terreno d’indagine fenomenologicamente ridotto e privo di posizioni d’essere a priori. Solo per questa via, sostiene Husserl, è legittimo avanzare una dottrina del conoscere e inaugurare un idealismo che è “discoprimento sistematico della stessa intenzionalità costituente”. Non si tratta, infatti, di speculazioni arbitrarie e creative sull’origine del sapere, bensì un’indagine serrata delle strutture manifestative dell’esperienza nella loro vivida  concretezza. In questi termini, afferma il filosofo tedesco,  la fenomenologia è sicuramente da considerarsi la vera autentica espressione dell’idealismo trascendentale.

Quinta meditazione

Nella quinta meditazione Husserl affronta nuovamente il tema dell’Io trascendentale, esponendone qui una’ulteriore problematica che considera necessaria per seguire coerentemente l’impostazione metodologica di cui si è dotato. In che modo si rapporta la soggettività trascendentale con l’estraneità? Come si declinano fenomenologicamente le relazioni intersoggettive? Il filosofo tedesco sembra infatti impensierito dalla possibilità che le sue ricerche egologiche possano essere lette come solipsistiche. Al contrario egli ritiene che il suo sistema teoretico conduca naturalmente ad una dottrina dell’intersoggettività trascendentale, dottrina che costituirebbe quindi il passo conclusivo del percorso filosofico delle Meditazioni Cartesiane. Una volta chiarito cosa si debba intendere con soggettività trascendentale, infatti, Husserl introduce il concetto di “monade”. Egli riprende il linguaggio leibniziano per meglio qualificare il soggetto come una struttura singolare in permanente connessione con altre strutture singolari. Il concetto di monade infatti include implicitamente una dimensione di “proprietà” che è centrale nell’idea husserliana di soggettività. L’oggetto del mondo e l’ambiente in cui l’Io trascendentale è immerso si offre come elemento di interazione propria, privata, delimitando un campo di operatività intenzionale. Tuttavia all’interno di tale campo si presentano anche delle estraneità di cui viene riconosciuta sia la somiglianza che l’alterità. Nuove soggettività, infatti, prendono posizione, costituendo delle relazioni intersoggettive proprie della vita intenzionale. L’esperienza del’estraneo, dunque, non è affatto un elemento assente nella prospettiva della fenomenologia trascendentale, ma, al contrario, ne costituisce un passaggio chiave per una comprensione complessiva.

Le meditazioni di un’esistenza

Le Meditazioni Cartesiane rappresentano uno dei diversi testi di introduzione alla fenomenologia che Husserl ha prodotto. Le peculiarità stilistiche e metodologiche, tuttavia, rendono tale scritto una composizione decisamente originale all’interno della sua produzione. Pur inserendosi nell’ultimo decennio della sua riflessione, quando la sua esperienza filosofica era già giunta a maturità e notorietà, con esso si ha l’impressione di avere a che fare con un problema antico o, in altre parole, con il problema di sempre. Il dubbio scettico, la ricerca di radicalità, il desiderio di eliminare ogni pregiudizio, sono elementi che richiamano quell’atteggiamento che spesso caratterizza i primi interessi. Forse era proprio questa sensazione a dare al filosofo tedesco l’esigenza di produrre una riflessione così impostata: la volontà, dopo un pluri-decennale e costante esercizio di pensiero, di dare delle risposte definitive a quei problemi profondi che fin da giovane lo interrogavano. Nel percorso cartesiano che Husserl intraprende in queste meditazioni sta in fondo la metafora del cammino di un’esistenza filosofica che, dall’impaccio dei primi movimenti, procede verso la meta ignota della conoscenza, lasciando a noi il piacere di una lettura che pretende sia curiosità che spirito critico.

Riferimenti bibliografici

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[i] I termini “noesi” e “noema” vengono introdotti da Husserl nel 1913, con la pubblicazione di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica I. Con “noesi” egli si riferisce alle diverse esibizioni intenzionali in cui un oggetto si offre nell’esperienza; con “noema”, invece, intende il riferimento oggettuale singolo che viene offerto nella pluralità di atti noetici.

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