F. Buongiorno, V. Costa, R. Lanfredini: La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni

La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni Book Cover La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni
Gulliver
F. Buongiorno, V. Costa, R. Lanfredini
Inschibboleth
2018
Paperback
318

Reviewed by: Vittoria Sisca (Independent Scholar)

Raccogliendo undici contributi degli allievi più vicini ai personaggi che hanno dato avvio alla tradizione fenomenologica italiana, il volume a cura di Federica Buongiorno, Vincenzo Costa e Roberta Lanfredini intitolato La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni mostra la possibilità di raccontare la fenomenologia attraverso un’operazione che non si esaurisce in una sterile ricostruzione storica ma si configura come il tentativo di convertire un tema “a portata di fanciullo” in una Rückfrage: un esercizio intimo, che consiste nel ricercare le parole adatte per descrivere il proprio maestro, in una domanda che scava all’indietro cercando di scorgere anche la propria storia nel movimento di quella stessa vicenda di pensiero. Il risultato di questo esercizio è il quadro di un percorso che attraversa almeno tre generazioni di filosofi: un itinerario decentrato, dislocato in varie “scuole”, eppure tutt’altro che scolastico se col termine “scuola” intendiamo «la ripetizione, malgrado allargata, di temi di origine» (109). Leggendo il testo, in effetti, risulta difficile tracciare delle parole-guida che lo caratterizzano, nella misura in cui ciò che sopravviene è la netta impossibilità di ridurre il variegato panorama fenomenologico italiano a una «preconcetta visione d’insieme» (11) o altrimenti l’inadeguatezza di coprire, a beneficio di una definizione, l’intreccio di autori, scuole e tradizioni che gli dà forma.

Partendo dal principio, si potrebbe dire che il pensiero di Edmund Husserl abbia fatto capolino, in Italia, sull’onda di una reazione storica alle ipoteche metafisiche che ostacolavano l’emergere di una ragione differente. In particolare, come si legge nei contributi di Luca Maria Scarantino e Angela Ales Bello, Antonio Banfi riconobbe alla trattazione husserliana dell’intenzionalità il merito di aver trasformato la necessità ontologica della «correlazione metafisica fra percezione e rappresentazione» (17) in una necessità di ordine storico; mentre Vanni Rovighi, pur attribuendo al pensiero di Husserl una cifra idealistica di fondo, si avvalse di quella teoria o, come direbbe lei, di quel «guardare come stanno le cose» (44), per contrastare il neoidealismo imperante ai suoi tempi. I saggi successivi di Roberto Gronda e Elio Franzini esemplificano perfettamente come, coerentemente rispetto al proposito di porre le «condizioni di una teoria del sapere relazionale, antidogmatica e aperta a una pluralità di forme culturali» (16), l’insegnamento di Banfi ebbe un’influenza molto diversa all’interno delle opere dei suoi allievi. Comparando i due scritti, infatti, è possibile notare che, se Preti continuò e approfondì il razionalismo critico banfiano, Formaggio ereditò dal maestro quella capacità di «“tentare la sordità dell’esperienza”» (117) che gli consentì di comprendere, a partire dall’arte, «come un corpo in azione» riesca ad «essere protagonista di una trasformazione del mondo»: una trasformazione che, per un verso, ne rivela le qualità e, per l’altro, «scopre se stesso come dimensione percettiva, memorativa e immaginativa» (127).

Leggendo il contributo di Amedeo Vigorelli è possibile constatare, invece, che fu Enzo Paci a proseguire la missione pedagogica del maestro Banfi. Egli vi riuscì perché, analogamente a Banfi, non si limitò mai a guardare a Husserl solo come a un interlocutore privilegiato per il proprio pensiero, bensì fece della fenomenologia husserliana il punto di partenza per la costruzione di una vera e propria Gemeinschaft: una dimensione culturale «aperta, che “senza essere ostile al pensiero scientifico” evitasse di “farsene colonizzare e di sviluppare complessi di inferiorità”» al fine di reagire a un «diffuso scetticismo anti-filosofico» (88). Una tappa fondamentale di questa costruzione, nel percorso di Paci, è la rivista “aut aut”, che egli fondò nel 1951. Attorno ad essa, infatti, si svilupparono dei legami particolarmente significativi per lo sviluppo della fenomenologia italiana, al punto che si potrebbe paragonare questo progetto all’ossatura di quella Husserl Renaissance che, soprattutto in seguito alla pubblicazione nella Husserliana del secondo volume di Ideen e della Krisis, interessò il panorama culturale italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. Fra questi, il legame fra Paci e Semerari di cui si parla nel contributo del Ferruccio De Natale ha il merito di mostrare come, oltre alla volontà di «superare i pregiudizi legati ad una lettura pigra, stereotipata della fenomenologia» (90), alla base della rilettura italiana dei testi di Husserl vi fosse anche quella «avvalersi delle analisi husserliane per configurare un “atteggiamento”» suscettibile di essere trasformato «in prassi, in lotta per l’emancipazione del soggetto da ogni forma di reificazione della sua attività intenzionale» (141) attraverso il confronto col materialismo storico di Marx.

I richiami marxiani che innervano le opere di Enzo Paci si colgono perfettamente nell’entusiasmante Prefazione alla terza edizione de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale che egli scrisse nel ’68, all’interno della quale paragonò le idee di coloro i quali attaccavano «la fenomenologia come una fuga della realtà che mancava di praxis» a quelle degli «intellettuali della Russia zarista» che «consideravano puramente teorici e astratti i ragionamenti di Lenin e di Trockij». Tuttavia, l’audace paragone paciano dice qualcosa anche in merito alla tendenza del filosofo a ricomprendere il pensiero husserliano dalla fine all’inizio, mostrando l’insensatezza di distinguere fra un “primo” Husserl logico e slegato dalla prassi, e un “secondo” Husserl storico, impegnato a recuperare la problematica della Lebenswelt. Un’attitudine che dalla sua opera si riverserà sull’intero panorama fenomenologico italiano, dando avvio a un cammino che si proporrà riallacciare, dentro e fuori i testi husserliani, il piano della logica a quello dell’esperienza, la sfera del sapere a quella della vita.

Tutto questo però richiede una precisazione: dal momento che la fenomenologia italiana è lo specchio di una postura che non veicola tendenze dogmatiche, questa tendenza si realizzerà in maniera ogni volta diversa, rendendo difficile per molti versi rintracciarne i connotati. Come si legge nel contributo di Roberto Miraglia, ad esempio, Giovanni Piana, a differenza di Paci, criticò alcuni aspetti dell’opera testamentaria di Husserl riscontrando come gli scritti husserliani, nel corso del tempo, tendessero sempre di più a far spazio a «un Hussel ideologico che ripropone i temi etico-fondazionalisti, senza che questo incremento di drammaticità» potesse però «rendere più adeguata ad affrontarli una cassetta degli attrezzi pensata invece in vista della realizzazione di una analitica fenomenologica» (243).  Un discorso analogo, peraltro, si potrebbe fare in merito ai riferimenti che contribuiranno, insieme a Husserl, a determinare le linee della scena fenomenologica italiana, perché se lo Husserl di Paci e Semerari va a braccetto con Marx, mentre è humeano invece lo Husserl di Enzo Melandri di cui tratta il saggio di Stefano Besoli, quello di Sini, conformemente alla convinzione che tornare alle cose stesse (come scrive Federico Leoni) significhi tornare alle operazioni «attraverso cui le cose stesse si costituiscono», diventa un Husserl copernicano, e cioè «radicalmente kantiano» (222).

Ovviamente, si possono individuare anche dei punti comuni negli studi fenomenologici italiani, come l’antiriduzionismo che accomuna ad esempio due personalità per molti versi differenti come Paolo Parrini, di cui scrive Andrea Pace Giannota, e Paolo Bozzi, a cui è dedicato il contributo Roberta Lanfredini. Ma quello che bisognerebbe chiedersi è: posto che quelle che abbiamo individuato non siano affatto le uniche spaccature individuabili all’interno della Fenomenologia in Italia, ha davvero senso parlare di una fenomenologia italiana? Il contributo finale di Federica Buongiorno suggerisce che per affrontare questo problema occorra spostare la questione su un piano diverso rispetto a quello della mera teoria. Questo perché sul piano dell’esperienza, e cioè di un esercizio filosofico che si fa, lo scontro di prospettive differenti muta di senso. Al suo posto, come avviene quando si traduce un testo e ci si trova, da un lato, ad affrontare «la sfida di trovare, se non per certi versi “inventare” la “parola giusta” con cui rendere il termine originale» e, dall’altro, a doversi confrontare con le «scelte già consolidate e difficilmente aggirabili» (299) di una terminologia già presente, emerge l’idea di una comunità di studiosi grazie alla quale l’eco primitivo di un pensiero si è prodotto (o riprodotto) in un determinato contesto.

Quello che si tratta di capire, se è vero che non è affatto semplice individuare i caratteri della fenomenologia italiana, è che questa difficoltà però non è un elemento accidentale, e neanche la dimostrazione che si debba per questo parlare per forza di una pluralità di pensieri che apre le porte a una deriva scettica. Piuttosto, essa è la conseguenza dell’impossibilità di circoscrivere a priori qualcosa che somiglia più a uno stile, a una maniera «che esiste come movimento ancor prima di essere giunta a un’intera coscienza filosofica», come diceva Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione. Se consideriamo che non si può ripetere quello stile, quella maniera, come si ripeterebbe un proverbio, non possiamo che convenire con i curatori de La fenomenologia in Italia rispetto al fatto che l’unico modo per raccontare la fenomenologia è allora quello di procedere von unten, e cioè quello di ricollegare questo racconto all’esperienza degli autori che le hanno dato forma. Volendo, però, potremmo spingerci anche oltre: riprendendo le parole di John Keats, potremmo affermare che non solo una particolare vicenda di pensiero, ma «Niente può mai diventare reale, senza essere vagliato dall’esperienza. Persino un proverbio: che proverbio è, prima che la vita te l’abbia mostrato?».

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