Sergio Genovesi: Tracce dell’informe. L’indecostruibile e la filosofia dell’evento in Jacques Derrida

Tracce dell'informe. L'indecostruibile e la filosofia dell'evento in Jacques Derrida Book Cover Tracce dell'informe. L'indecostruibile e la filosofia dell'evento in Jacques Derrida
Eterotopie
Sergio Genovesi
Mimesis
2019
Paperback
160

Reviewed by: Marta Cassina (Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn)

Ogni grande pensatore – molte volte e da più parti è stato già detto e molte volte forse lo si ripeterà ancora – non fa che ritornare nel corso della sua vita sulle medesime questioni, come fosse preda di un’ossessione, quasi non potesse fare a meno di rispondere, esistendo ed insistendo, al richiamo di un solo e tenace appello. Quando capita poi che tale pensatore sia insieme un grande autore, allora tutta la sua opera diventa col tempo testimonianza sempre più inequivocabile e chiara di una vocazione, mostrando infine quella limpidezza rispetto a se stessa che è uno dei tratti sicuri della validità di una proposta speculativa. Questo è il caso di Derrida e dei suoi “movimenti di pensiero”. Sicuramente i testi del filosofo sono molti e difficili da attraversare, perché difficile da attraversare è il “deserto” caotico e abissale di ciò che resta della parola, se la scrittura diventa il luogo della sua assenza e della sua lontananza originarie. Ugualmente, sono molti gli autori e i temi con cui Derrida continua a intrattenersi. Tuttavia, al fondo di una così articolata “disseminazione”, non si può non cogliere l’andamento di una stessa tensione, o di una preoccupazione, il che non equivale certo a dire che è un oggetto a ripetersi, attraverso diversi accenti e modulazioni, tanto meno qualcosa di semplice, tutt’al più il suo contrario, se di contrario si può ancora parlare, perché si tratta qui propriamente di una «legge della complicazione iniziale del semplice», di rimanere fedeli a ciò che fa segno all’assolutamente Altro che viene e che preserva lo spazio vuoto di questo evento, che a sua volta è un esercizio etico e irriducibile.

Tracce dell’informe. L’indecostruibile e la filosofia dell’evento in Jacques Derrida, opera prima di Sergio Genovesi pubblicata recentemente da “Mimesis Edizioni” per la collana Eterotopie, si propone di restituire al lettore una fine ricostruzione del tema dell’indecostruibile e della sua comparsa nella filosofia di Derrida. Genovesi ben argomenta come tale comparsa non corrisponda esattamente a un’appendice tematica rispetto a un corpus di riflessioni preesistenti, e nemmeno a qualcosa come una loro torsione verso una direzione inattesa, come invece hanno avuto modo di sostenere quei critici di Derrida che nella sua opera matura hanno intravisto quasi un ripensamento, se non una contraddizione, dei motivi giovanili della decostruzione. Dire che «c’è l’indecostruibile», secondo Genovesi, non aggiunge né toglie nulla, ma esplicita semplicemente qualcosa che, in forma “spettrale”, riecheggia nel pensiero derridiano fin dall’inizio, e che, se rimane celato tra le sue pieghe, è perché resta da pensare come la sua stessa condizione di possibilità (o di impossibilità) e il suo orizzonte di senso: è «la spaziatura stessa della decostruzione» (113), ovvero quell’esperienza pre-originaria di “differimento” dell’essere e del senso rispetto a se stessi di cui tutta la decostruzione non fa che parlare – mancandola costitutivamente –, perché vi riconosce la condizione paradossale in cui siamo e di cui dobbiamo parlare, perché in fondo non c’è proprio nient’altro di cui parlare.

Rispetto a quanto detto sopra, il saggio di Genovesi può essere considerato allora del tutto esemplare, e la sua ricognizione nel territorio dell’indecostruibile deve essere letta alla maniera di una sintesi perfetta di come la riflessione derridiana sia rimasta sempre leale a se stessa rispetto a questo fine – e anche a una fine –: l’apertura di uno spazio vuoto in margine all’ontologia della presenza, dell’identità, del logos e del fondamento, che permetta l’accadere dell’evento, ovvero di comprendere, per quanto si stia parlando di una comprensione iperbolica, spinta al limite della follia e quindi in realtà incomprensibile, cosa significhi che qualcosa possa accadere in generale. Questa spaziatura, che ha il carattere atopico del non-luogo, e quello raddoppiato del «supplemento d’origine» è, nelle parole del giovane filosofo italiano, indecostruibile, «perché come si può decostruire uno spazio vuoto, un luogo puro?» (130), è «allo stesso tempo presupposto e risultato della decostruzione» (146), ha molti nomi, che tuttavia si sovrappongono tra loro in un gioco di rimandi e scarti infiniti, perché «dare ai vari nomi che sono associati all’indecostruibile […] dei valori a sé stanti e ontologicamente distinti l’uno dall’altro vorrebbe dire farne dei feticci» (141), e coincide nella sua massima espressione con una sorta di «messianismo privato di qualsiasi contenuto positivo» (135), ovvero una forma di “giustizia” che consiste in null’altro se non nel rispondere esponendovisi alla chiamata dell’Altro, senza alcuna pretesa di afferrarlo, di ridurre la sua inesauribile trascendenza. Su questo punto, sui tratti distintivi dell’indecostruibile e sul perché finisca per caratterizzare tutta l’epopea della decostruzione come un’avventura fondamentalmente etica, torneremo in conclusione, dopo aver analizzato nel dettaglio il resto dell’impianto argomentativo attorno al quale Tracce dell’informe è costruito.

A questa analisi è bene premettere che, sebbene le tesi di Genovesi incalzino un’interpretazione sicuramente unitaria dell’opera di Derrida, l’importanza di una simile identità qui non cancella, anzi valorizza le diverse declinazioni attraverso le quali essa si è affermata. A questo riguardo, Genovesi non rinuncia a parlare infatti di due momenti o lavori distinti: il primo temporalmente, cui si dà il nome di «decostruzione letteraria», coincide con la pars destruens dell’impresa e si rifà soprattutto all’esercizio di scomposizione del significato dei “vecchi segni”, in altre parole, di tutti gli schemi positivi che reggono la «dogmatica della metafisica della presenza, dell’economia ristretta e del ritorno al medesimo» (88). In questa prima fase, per decostruzione si deve intendere eminentemente una pratica testuale negativa, che mira a destrutturare qualsiasi totalità pensata per ridurre l’evento dell’Altro alla forma di una presenza e di un “appropriabile” all’interno di un sistema ristretto di “scambi” logici tra medesimi. La lezione heideggeriana della «differenza ontologica» e della critica alla «metafisica della presenza» è qui insomma intesa come un’autorizzata celebrazione dell’assenza, del non-fondamento, e della fine del soggetto. Il secondo momento, che Genovesi, per evitare fraintendimenti o sovrapposizioni al pensiero ermeneutico, chiama «decostruzione evenemenziale» (49), corrisponde invece a una pars costruens e a un graduale avvicinamento della decostruzione alla filosofia dell’evento, fino al punto in cui esse sostanzialmente si indeterminano l’una con l’altra nell’espressione di un medesimo richiamo: quello all’idea di una “soggettività” inedita che sappia farsi carico dell’ospitalità e della testimonianza della venuta del nuovo, dell’Altro che arriva, dell’impossibile che ha luogo nell’accadere. Soggettività come puro luogo abitato da un “dono” e da un “segreto” che nessun sapere sarebbe in grado di dominare.

Rispetto a quest’ultima esortazione, ossia in quanto gesto di apertura a una venuta, sarebbe insensato pensare di poter ridurre la decostruzione, come molti dei suoi detrattori o cattivi lettori hanno tentato di fare, a una prestazione nichilistica «di puro rifiuto e sovvertimento» (90). E, tuttavia, questa “venuta” non sarebbe possibile se non perché già preparata dall’operazione negativa e decostruttiva, in senso sia letterale, sia “letterario”, che l’ha preceduta; donde l’invito di Genovesi a immaginare «due facce della stessa medaglia, che non solo coesistono sotto lo stesso nome, ma si complementano anche a vicenda» (50). Quali siano poi i termini di questa vicendevole complementarietà, Genovesi lo esplicita nell’ultima parte della trattazione. Nella sua accezione “positiva” – questo voler dire «Sì!» all’evento, che non è una parola specifica, ma un’«archi-parola», è un «ripetere il proprio assenso alla possibilità di questa venuta» (90) prima ancora che si possa dire alcunché – la decostruzione, «non trattandosi di un atto esercitato su qualcosa» (129), non ha più propriamente un oggetto. Soffermiamoci un secondo su questa affermazione, la cui portata diventa tanto più pregnante, quanto più la ricolleghiamo a quella “genesi dell’indecostruibile” di cui Tracce dell’informe percorre la storia. Che la decostruzione, nella sua formulazione più matura, rappresenti una sorta di invito positivo ad accogliere l’evento, senza però una positività vera e propria cui applicarsi, deriva dal fatto che essa diventa, incarnandolo, quello stesso evento e «un puro accadere» (129), vale a dire qualcosa che per sua stessa natura eccede e precede la dinamica esclusiva in cui la contrapposizione soggetto/oggetto risulta sensata. A questo proposito, allora, se è sempre vero che dove c’è oggetto (costrutto) c’è sempre la possibilità che questo oggetto possa subire una decostruzione stricto sensu, nei termini del lavoro negativo della decostruzione, è anche vero che dove l’oggetto sparisce, o meglio, si complica con l’ingiunzione originaria della sua oggettificazione, del suo “venire alla luce”, non c’è più nulla da decostruire in quanto tale, non c’è mai stato, così come non c’è più nulla di costruito. Ciò che resta è un indecostruibile, che, rispetto al lavorio di svuotamento dell’oggetto è, a seconda di come lo si voglia guardare, sempre anteriore e sempre posteriore: esso presiede e si nutre dell’atto negativo della decostruzione, così come quest’ultimo postula e risulta sempre nel primo. Inseparabilmente e circolarmente, in una temporalità «scardinata, out of joint» (132).

Veniamo dunque all’illustrazione della struttura del lavoro di Genovesi. Il punto di partenza delle analisi del filosofo può essere individuato molto chiaramente nel fitto confronto che il giovane Derrida intrattiene con i motivi e i concetti cardine dello strutturalismo, dell’etica levinassiana, del «pensiero sovrano» in Bataille e, più dettagliatamente, della fenomenologia husserliana, dei quali testi-testamento come La scrittura e la differenza, La voce e il fenomeno e Della grammatologia – facendo lo sforzo di pensare all’ordine in cui li elenchiamo qui come un crescendo, per quanto i tre volumi siano stati pubblicati tutti nel 1967 –, rappresentano prima una rilettura nella forma della “nota a margine” e poi un superamento, nella direzione di quello che diventerà il manifesto tutto personale della decostruzione nel suo stadio embrionale. Il primo capitolo di Tracce dell’informe può essere insomma pensato come l’abbecedario essenziale di una terminologia nascente; e infatti Genovesi studia da vicino la filosofia di Derrida rispetto ai momenti, ai luoghi e soprattutto alle sue scelte lessicali inaugurali: il «supplemento d’origine», l’«economia generale dell’Altro», la «decostruzione», la «scrittura», la «traccia», l’«indecidibile» e la «différance», che Genovesi sceglie di mantenere sempre in francese, perché, come esplicita sin dall’Introduzione, «nessuna delle due traduzioni [in italiano “dif/ferenza” e “differanza”, n.d.r.] riesce però a sortire l’effetto voluto da Derrida, quello di un evento inaudito» (11), l’evento cioè di una sostituzione che tuttavia non può e non deve essere intesa in quanto tale. Di queste parole viene proposta quella che indubbiamente è una spiegazione, ma che Genovesi ci esorta a non scambiare mai per una definizione; piuttosto bisognerà accettarla come l’«approssimazione al limite» (10) di un’incognita che – come appena detto a proposito della différance –, non esprimendo più qualcosa come una “pienezza” o un “senso” metafisicamente intesi, non deve neppure essere compreso pienamente.

Lo scopo di questa prima parte del saggio è quello di descrivere il funzionamento di una macchina, quella della decostruzione, rispetto ai propri ingranaggi e ai propri oggetti. Se, da un lato, questa operazione va delineandosi negli scritti di Derrida come un’azione di svuotamento e di desedimentazione del linguaggio, delle tradizioni, della presenza e della voce, è anche vero che, dall’altro, essa «non ha di mira la distruzione dei sistemi su cui opera, altrimenti distruggerebbe anche se stessa» (48). Così dicendo, Genovesi chiarisce con grande immediatezza uno degli aspetti più difficili, ma costitutivi della decostruzione, qualcosa in cui è racchiusa la sua logica esorbitante, quella del doppio, del double bind: essa non può decostruire se non, da un certo punto di vista, conservando, perché l’Altro cui anela, l’alterità che la metafisica della presenza finisce sempre per ricondurre all’Uno, non è una negazione assoluta, non è l’Altro irrelato, ma la complicazione dell’Uno con se stesso, è uno sdoppiamento della totalità lungo la linea di faglia di un cedimento che preme contemporaneamente dall’interno e dall’esterno. Uno sdoppiamento e un differimento – la différance – che non distruggono la totalità, bensì dischiudono lo spazio negativo in cui la stessa struttura della totalità può essere concepita ed esistere in quanto totalità, dicono il suo darsi. Decostruzione non è sinonimo di negazione della presenza, di negazione tout court; anzi, se teniamo presente questo meccanismo fondamentale e lo applichiamo ai vari obiettivi polemici di Derrida di cui Genovesi dà conto nel capitolo, essa ci appare piuttosto come un modo di restituire la verità della presenza, nelle sue molteplici forme e declinazioni, relativamente a quella che è la sua «mancanza originaria a se stessa» (34). Come scompaiono le nozioni di “origine” e “centro” che definivano il canone di struttura, ma solo per lasciare posto a una loro versione paradossale, supplementare, che «si inaugura solo nel momento dell’accadimento di ciò di cui è origine e rimane celata dietro il suo originato» (20), perché il proprio accadimento è esattamente ciò che l’originato manca di afferrare di se stesso; così si infrange il circolo ristretto dell’economia, intesa come la legge della circolazione e della conservazione del Medesimo, ma l’Altro cui si accede attraverso la negazione “sovrana” del circolo non è l’assolutamente trascendente, piuttosto l’inarrivabile cui ci si avvicina attraverso «il fenomeno della sua non-fenomenicità» (24).

Alla luce del double bind devono anche essere letti, a maggior ragione, i passaggi critici in cui Derrida elabora la nozione di “différance” a partire da e contro Husserl: non tanto come demolizione di un impianto teoretico, ma come apertura delle sue maglie verso le forme di uno scarto originario che c’è già nella trattazione husserliana della presenza, ma che vi rimane inespresso, incompatibile com’è con il lessico del “dato”, del donné, attorno al quale si costruisce la fenomenologia. Tra i differimenti, Genovesi rimarca: la discronia rispetto a sé dell’“ora presente” nella ritenzione e la non-coincidenza istitutiva dell’idealità, in ordine al meccanismo della sua infinita ripetibilità. C’è infine una forma di differimento, di supplemento, che si espande fino a fare da cornice a quell’imperativo programmatico della decostruzione di sostituire la “scrittura” alla “voce”: si tratta del rinvio dell’ego alla propria mancanza nell’atto auto-affettivo, di cui la voce è immediatamente un correlato. Il nome di questa ritenzione d’assenza è quello in cui si sovrappongono «la possibilità per il soggetto trascendentale di avere un rapporto con sé differendo da sé» (33), e la possibilità per la parola di avere un “rapporto con sé”, ovvero di realizzarsi nel gioco dei segni con «il loro accadere arbitrario e il corrispondere a un significato differenziandosi l’uno rispetto l’altro» (39); è la «traccia», intesa come trascrizione grafica della parola e struttura vuota di rimando a una “morte”, a ciò che nella parola si trova e deve trovarsi come puro rimando e in stato di assenza: l’origine assoluta del senso.

Passiamo ora al secondo capitolo. Qui Genovesi si occupa di gettare luce sull’“altro” di Derrida, cioè sul tipo di risonanza che le sue opere giovanili hanno avuto negli ambienti filosofici e letterari a lui contemporanei, per arrivare a sostenere che lo spostamento di baricentro nel corpo della decostruzione dalla critica testuale e letteraria all’evento sia in parte motivata dalla reazione di Derrida a una certa mislettura del suo pensiero a opera dei critici del post-moderno e, in particolare, degli studiosi statunitensi meglio noti come “Yale Critics”. Se il primo capitolo di Tracce dell’informe deve essere letto come una sorta di abbecedario, dicevamo, il secondo ha allora invece il carattere definitorio di una “soglia”. Qui con soglia non vogliamo alludere soltanto allo spazio liminare che esiste, ovviamente, tra i testi di Derrida, pensati nella loro autonomia, e le interpretazioni cui essi hanno dato luogo – di cui l’autore discute esaustivamente nel testo. Quello che ci sembra interessante sottolineare – diversione dovuta, perché spezza una lancia in favore all’argomentazione di Genovesi –, è che questo confronto tra il “dentro” e il “fuori” ha posto effettivamente Derrida nella condizione di lasciarsi andare a un’enfasi definitoria e ri-definitoria (per quanto, chiaramente, la parola “definizione” sia sempre da collocare nel contesto di senso della decostruzione) senza precedenti, e che resterà un unicum nel corso della sua opera. Quasi tutte le pseudo-definizioni di “decostruzione» che possediamo appartengono a questa soglia, sia dal punto di vista concettuale, sia da quello temporale: la seconda metà degli anni ’80, rispetto ai testi Memorie per Paul de Man, Come non essere postmoderni e Psyché. Invenzioni dell’altro, che, non a caso, nella trattazione di Genovesi trovano ampio spazio d’analisi. Le vogliamo elencare qui e commentare; il riferimento è motivato dal fatto che, non solo rappresentano un valido supporto a spiegare l’andamento del capitolo, da un lato, ma, in questo specifico ordine, comunicano anche il senso dell’evoluzione del pensiero di Derrida, nella lettura di Genovesi, dall’altro: 1) La decostruzione è l’America; 2) La decostruzione è plus d’une langue; 3) La decostruzione è ciò che accade; 4) La decostruzione è l’impossibile.

  1. Che il nome stesso della decostruzione sia l’America, ci ricorda Genovesi, è evidentemente un’affermazione provocatoria. A prima vista, essa si pone già come un détournement scherzoso del titolo del volume The Yale Critics: Decostruction in America, alla cui stesura Derrida non volle partecipare, e non solo a causa della «volontà da parte degli editori del libro di parlare degli Stati Uniti come se questi rappresentassero tutto il continente» (71), ma soprattutto perché, per quanto gli Stati Uniti – e, in particolare, il dipartimento di letteratura di Yale – si siano dimostrati lo spazio storicamente più ricettivo e sensibile al primo messaggio della decostruzione, è anche vero che questa sensibilità è sfociata in una sua lettura eccessivamente testualista e in una riappropriazione culturale indebita, che ne ha fatto prevalentemente, nelle parole dell’autore, «una metodologia critica post-strutturalista che dettava un insieme preciso di regole per affrontare un testo» (70)
  2. Se la prima definizione che riportiamo è, al contempo, scherzosa e sintomatica di un disagio, la seconda – che Genovesi nel saggio cita solo in nota (95), ma che, in un certo senso, sembra essere sempre presente in controluce – ha invece un peso filosofico enorme, andrebbe letta come una parola d’ordine, e ci piacerebbe allora pensarla come se avesse un punto esclamativo finale. Definizione ambigua, perché, a sua volta, significa tre imperativi distinti, tre risposte di Derrida al modo in cui, secondo Genovesi, gli Yale Critics avevano addomesticato i contenuti della decostruzione, così come sono tre i sensi in cui plus de ha da essere inteso in francese. Innanzitutto, che la decostruzione sia «plus d’une langue» significa che di essa si abusa quando la si prende alla maniera di un prontuario per la demolizione sistematica del testo, perché semplicemente non la si può forzare in un unico idioma o racconto, in altre parole, in un “-ismo”: «l’atto della totalizzazione può sempre essere visto come un gesto di violenza […], nel caso della decostruzione quest’operazione porta con sé un fraintendimento essenziale del termine» (72). In secondo luogo, «plus de» attesta una malcelata insofferenza a chi vorrebbe fare della decostruzione una mera faccenda linguistica, trascurando così la sua esortazione a rimanere attenti, invece, di fronte a tutto ciò che non può arrivare a farsi lingua: il silenzio, l’illeggibile, la vita. Questo “tutt’altro che lingua” compare infine compiutamente nel terzo senso, quello per cui «plus d’une langue» occhieggia a ciò che nel linguaggio c’è sempre d’eccessivo, al suo plus: l’eccedenza irriducibile del significante sul significato, l’intraducibile che resta tra linguaggi diversi, l’accadere della lingua.
  3. Da qui alla filosofia dell’evento il passo è breve, così come ci ricorda la terza definizione, che invece Genovesi analizza direttamente, e che getta un ponte tra la decostruzione e la stessa natura paradossale dell’accadere. Cosa l’autore intenda per “decostruzione evenemenziale” l’abbiamo già esplicitato, ci limitiamo quindi ad aggiungere che quest’identificazione della decostruzione, nel suo «carattere imprevedibile e sempre aperto» (72), con l’evento, nei suoi tratti di imprevedibilità, assoluta novità, gratuità e incoercibile differimento, conduce Derrida lontano dall’orizzonte della critica in cui la sua filosofia sembrava essere rimasta imprigionata, impone la necessità di una filosofia “nuova”, che si lasci «strutturare dall’alea». Qui la decostruzione può manifestarsi in quella che viene chiamata la sua «portata inaugurale e dirompente» (73).
  4. Il confronto con l’impossibile e le sue figure, tra le quali Genovesi mette in primo piano l’«invenzione», il «dono» e l’«invocazione», è poi presentato dal filosofo italiano come il luogo inabituale in cui lo spazio dell’elaborazione di Derrida si reinventa, facendosi a misura dell’evento dell’Altro che viene, che , che chiama. Assumendo come trópos privilegiato il lavoro su figure specifiche, la cui stessa possibilità incarna il paradosso di qualcosa che non si può tenere od occupare, se non attivandone un continuo debordamento, la decostruzione si prepara infatti all’accoglimento dell’evento, nei termini in cui l’evento dice il paradosso della possibilità del senso e del reale. Il paradosso consiste nel fatto che questa possibilità del possibile, ovvero «il margine all’interno del quale il possibile può situarsi» (86) e che al possibile appartiene intimamente come il proprium più autentico, è, in ragione di ciò, sottratta alla possibilità di essere compresa essa stessa in quanto senso possibile, quindi impossibile. L’evento è impossibile, ma anche evidente; dice Genovesi: «il suo carattere ostico può essere in qualche modo giustificato se si considera che esso […] si verifica e l’evento arriva» (88). L’impossibile «ha luogo», e ha luogo specificamente nel fatto che c’è possibile; il punto è che questo “esserci”, che aziona il circolo dove trovano posto enti e significati, quest’evidenza, che non solo non possiamo denegare, ma che anzi dobbiamo ricercare, fare in modo che si produca, è ciò che il circolo – e la filosofia! – non può che restituire razionalmente, se non come il suo Altro, la sua follia. Evidenza, allora, e follia dell’evento, da cui la necessità per la filosofia di debordare il proprio registro, di farsi “altro” lavoro del pensiero, di dirsi a sua volta impossibile, e non come deriva o punto di fuga, ma come centro stesso della questione che la definisce e destina.

L’ultima sezione di Tracce dell’informe tematizza l’insorgenza e la natura dell’indecostruibile. Torniamo così a ciò da cui abbiamo preso inizialmente le mosse, cercando di chiarirne gli aspetti che erano rimasti più impliciti. Da un certo punto di vista, questo “tornare a…” ha a che vedere con la struttura dell’indecostruibile molto più di quanto accidentalmente potrebbe sembrare, così come non è casuale la scelta di Genovesi di dedicarvi gli ultimi due capitoli del saggio – che vogliamo leggere in maniera unitaria, nel segno del medesimo “avvento” –, avendone però preparato la via, si potrebbe dire, in ogni sua pagina precedente. Decisivo è, a tal proposito, l’intendimento di ciò che Genovesi sostiene, quando presenta l’indecostruibile come un punto d’approdo nella riflessione matura di Derrida, includendo che, pur essendo evidente una certa attenzione mirata soltanto nei testi a partire dalla fine degli anni ’80, la questione dell’indecostruibile fosse già presente in nuce negli scritti degli anni ’60. Il punto è che l’indecostruibile, come abbiamo già fatto notare a proposito di quella dinamica di completamento circolare che descrive e mette in moto la macchina della decostruzione rispetto alla sua pars destruens e alla sua pars costruens, indica, al contempo, ciò che resta della presenza, in ordine allo spazio di vuoto che la macchina in questione ne estrae internamente – e questo spazio, è un affacciarsi sulla venuta dell’Altro, «mai presente e sempre a-venire, nella sua differenza infinita» (146), – e ciò che a quest’opera di svuotamento è sempre presupposto alla maniera di un «quasi-trascendentale» e di un cominciamento. All’indecostruibile, in questo senso, “si torna” sempre come si torna a un’origine, ma quest’origine è a sua volta sempre differita, supplementare – «al posto del fondamento, come supplemento d’origine, troviamo piuttosto l’indeterminatezza radicale e infinita della differenza» (144) –, e quindi, paradossalmente e in virtù di ciò, sempre ancora a venire, sempre ancora mai avvenuta, archi-originaria venuta di e da un futuro impossibile. Tenere a mente queste considerazioni serve a comprendere uno degli aspetti, a nostro avviso, più pregnanti che emergono dalla trattazione di Genovesi: il fatto che per parlare dell’indecostruibile serva parlare anche e soprattutto degli indecostruibili, che a esso si debbano dare dei nomi diversi. Aspetto apparentemente contraddittorio, in quanto qui i nomi rinviano a qualcosa che non possono essere, sono fondamentalmente inadeguati rispetto a ciò che vorrebbero significare, ossia questa archi-origine, questo «abisso senza fondo» (141) della spaziatura, che, come non può essere decostruito, per il semplice fatto che in esso non è rimasto nulla da decostruire, nessun agglomerato di senso da disseminare, così, a rigor di logica, non dovrebbe essere nemmeno nominato; da cui consegue quella singolare vicinanza tra Derrida e la teologia negativa, che Genovesi non manca di approfondire. E, tuttavia, di questo indecostruibile bisogna pur parlare, è importante parlarne affinché qualcosa arrivi, poiché l’evento si dà ogni qualvolta ricomincia l’essere – e il suo racconto –, poiché è insomma inseparabile dall’effettività storico-concreta che esso positivizza nella traccia dell’esperienza. Non solo bisogna parlarne, ma usare anche nomi differenti. I nomi dell’indecostruibile, infatti – nomi che, in ogni caso, possono essere utilizzati solo «in maniera provvisoria, per fini pedagogici e retorici» (140) – sono molteplici, allo stesso modo in cui intrinsecamente molteplice è l’indecostruibile, sempre supplementare a se stesso, indistinzione dell’origine e del punto di approdo, e anche, come si diceva sopra, di passato e futuro nel segno di ciò che non è mai potuto e che quindi aspetta sempre di accadere.

Se c’è una «sconnessione» e una proliferazione dei nomi dell’indecostruibile, è anche perché a essi spetta il compito di dire – certo, frammentandolo, isolandone momenti che nell’evento sono irriducibilmente concomitanti – il tempo disconnesso e plurale della venuta originaria. Ora, questo aspetto, che ci sembra di assoluta rilevanza teoretica, rimane purtroppo nell’interpretazione di Genovesi implicito, se non addirittura trascurabile, in quanto l’autore preferisce concentrarsi sul motivo della coincidenza dei nomi dell’indecostruibile nella comune referenza alla nozione di “spaziatura”. Eppure, come c’è modo di pensare gli indecostruibili in senso unitario rispetto a quello spazio di vuoto che è il «ritrarsi che ogni posizione e ogni manifestazione sottende» (139), così bisognerebbe dar conto della ragione per cui essi debbono differire tra loro, in riferimento invece alle dimensioni del tempo della spaziatura. Qui, d’altronde, non diciamo nemmeno qualcosa di incompatibile con la maniera in cui questi indecostruibili vengono presentati in Tracce dell’informe; si tratta soltanto di portare in primo piano un registro che nella trattazione non riceve troppo peso. A conferma di ciò, basti riflettere brevemente sulla scelta di Genovesi di affrontare l’indecostruibile a partire da «chora» e «giustizia», due figure che, per come vengono descritte e in questo senso, potrebbero essere valorizzate separatamente come due nomi – approssimativi, precari nella loro distinzione, ma funzionali – per due versanti della temporalità scardinata dell’evento. Da un lato, chora, che Genovesi introduce, guarda caso, come il primo nome che Derrida dà all’indecostruibile (113), direbbe soprattutto l’esteriorità e l’anteriorità assoluta dell’evento, per quanto concerne la sede spaziale – il «ricettacolo informe» (142) – della genesi e della collocazione dell’essente. Chiaramente, questa anteriorità non è da intendersi come una legge della precedenza temporale, come se alludesse a qualcosa che non è presente solo perché lo sarebbe stato una volta, ma come un rapporto di vertiginosa indipendenza e di inevitabile differimento all’indietro, tra questo non-luogo – «il luogo indecostruibile che dà luogo al gioco tra Dio e il suo creato» (113), origine più antica dell’origine – e ciò che vi si sistema per essere ricevuto. Dall’altro lato, la giustizia, intesa come «responsabilità dell’Altro» e verso l’Altro, aprendo a quella che Genovesi chiama «la venuta dell’altro come evento singolare senza anticipazione possibile, all’esposizione alla sorpresa assoluta» (140), diventerebbe invece simbolo per la necessità di un trascendimento dell’orizzonte temporale nella direzione di qualcosa che è una chance di accadere soprattutto al futuro, sempre inattuale e ritardata. La giustizia dice infatti dell’evento che esso non verrà mai del tutto, che lascerà sempre qualcosa a venire, dice il suo altrove imminente, ma impresentabile nell’attesa.

Due parole, infine, sono da dedicare a questa formulazione della giustizia e all’etica. «Se quindi la giustizia non è decostruibile,» – scrive Genovesi – «è perché essa si presenta come un gesto decostruttivo, fino al punto di andare a coincidere con la decostruzione stessa, che per converso ci appare adesso come un indecostruibile atto di giustizia» (133). L’ultimo atto della decostruzione è insomma un testamento etico: come emerge da quanto detto a proposito di Derrida in Tracce dell’informe, tutto il senso della decostruzione potrebbe essere infine riassunto nell’imperativo etico fondamentale di “fare spazio” per l’ospitalità dell’Altro assoluto; un incontro che non prevede relazione, o ancora, una relazione senza alcuna reciprocità, senza reciproco riconoscimento, sempre aperta alla sua dissoluzione e al suo sacrifico. In questo senso, bene hanno detto quei lettori di Derrida che in questa forma di non-rapporto hanno intravisto, più che la promessa del «dono dell’altro», soprattutto lo spettro del suo abbandono. E infatti la giustizia è collocata in una dimensione escatologica e messianica, che, come ci ricorda l’autore, da un lato costituisce un potenziale sovversivo immenso, nutrendosi di una costante insoddisfazione nei confronti del presente e dei suoi limiti, dall’altro, vicendevolmente, «non contemplando la venuta finale dell’altro, si presenta come un messianismo privo […] di ogni idea di rivelazione o compimento ultimo (135). Alla stessa maniera, aggiungiamo noi, l’apertura nei confronti dell’Altro, per il fatto stesso che si annulla nel momento in cui entriamo in relazione con quest’alterità nel mondo, nel momento in cui abbiamo presente l’altro, rischia sempre di tramutarsi in una chiusura. Non c’è verso in questi termini, per esempio, di ripopolare il mondo dei volti dell’altro, volti che possano chiamarsi per nome e realmente accogliersi, senza mettere a rischio il valore della loro incolmabile trascendenza.

Eppure un dato innegabilmente “positivo” rimane, e su questo concludiamo; Genovesi ce lo ricorda in chiusura, tra le ultime questioni del testo, che rimangono domande aperte sulla natura dell’evento e su come concepire la sua “irruzione” su piani differenti da quelli tematizzati nell’opera di Derrida (l’estetica, o la fisica, giusto per citarne un paio). Tale positività dell’etica consiste prevalentemente in questo, e questo sicuramente costituisce una consapevolezza preziosa: l’altro (il nostro prossimo, il fratello, lo straniero) rappresenta l’unico «evento dell’Altro» nella nostra quotidianità che possa dirsi tale, e che come tale deve essere rispettato, indipendentemente dal fatto che l’opera del suo avvicinamento e della sua comprensione rimangano necessariamente aporetiche, e spingerci a cambiare la nostra vita; «nel caso del sopraggiungere dell’altro, la rottura avviene sul piano etico del nostro vivere la quotidianità: l’irrompere dell’altro scombussola i nostri piani, è l’elemento incalcolabile che comporta la necessità di una riconfigurazione totale della nostra vita» (148).

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