Guido Cusinato: Biosemiotica e Psicopatologia dell’Ordo Amoris. In Dialogo con Max Scheler

Biosemiotica e psicopatologia dell'«ordo amoris». In dialogo con Max Scheler Book Cover Biosemiotica e psicopatologia dell'«ordo amoris». In dialogo con Max Scheler
Filosofia. Etica e filosofia della persona
Guido Cusinato
Franco Angeli
2019
Hardback, € 33.00
292

Reviewed by: Valeria Bizzari (Clinic University of Heidelberg, Heidelberg, Germany)

“… ogni modo d’esser della mia vita e della mia condotta, giusto o sbagliato, o completamente errato, sarà determinato dal fatto dell’esserci o meno di un ordine oggettivamente corretto di questi moti del mio amore e del mio odio, della mia propensione e avversione, del mio interesse multiforme per le cose di questo mondo, nonché dalla possibilità che ho di imprimere questo ‘ordo amoris’ nel mio animo”

(Max Scheler, Ordo amoris, p. 109)

La vita emozionale è da sempre un forte tema di dibattito per la filosofia. A partire dall’antichità fino ad arrivare alla filosofia moderna, le cosiddette “passioni” ed “emozioni” sono state considerate come forze completamente differenti e contrapposte alla razionalità, e i più importanti pensatori, quali Platone, Aristotele, gli Stoici e successivamente Cartesio, furono convinti sostenitori della necessità di una sorta di controllo della sfera sentimentale, affinché essa non disturbasse o compromettesse la razionalità e la vita morale. Nella filosofia contemporanea cade lo stereotipo del conflitto fra ragione e passioni, e viene rivalutata la capacità cognitiva delle emozioni: ne è un esempio l’opera di Nussbaum L’intelligenza delle emozioni, pubblicata nel 2001. Facendo un passo indietro in questa “riabilitazione” della vita emotiva in etica, ebbe indubbiamente un ruolo fondamentale Max Scheler (1874-1928), che, affidandosi al metodo fenomenologico, riuscì a fondare un’etica assiologica che salvaguardasse sia l’oggettività dei valori sia la struttura emotiva della persona. L’utilizzo del metodo fenomenologico permette a Scheler di parlare di intuizione immediata dei valori, e di intuizione immediata della persona.

L’ultimo libro del professor Cusinato sembra appunto riprendere la discussione dal punto in cui l’aveva lasciata Scheler, e inserisce sapientemente i più importanti concetti scheleriani— quali quello di persona intesa come Leib, e quello di ordo amoris—all’interno del dibattito filosofico contemporaneo. Il risultato non è soltanto un’originale proposta di biosemiotica del corpo vivo, ma anche una visione innovativa del sé come relazionale e assiologicamente connotato, al punto che è possibile rileggere il piano delle psicopatologie come “distorsioni” dell’ordo amoris stesso.

  1. Scheler, corpo vivo e ordo amoris

L’ intento principale del volume del professor Cusinato è quello di introdurre una biosemiotica del corpo vivo radicata nella dimensione dell’espressione e il cui ruolo sia fungere da fondamento dell’intercorporeità e della percezione dell’altro. In quest’ottica, la base per l’intersoggettività è costituita da una falda impersonale comune a tutti gli organismi, che sarebbero fin da subito sintonizzati con il piano espressivo della vita, attraverso un’affettività unipatica enattiva. Ogni essere vivente, infatti, possiede la capacità di interagire con il piano dell’espressione, ben prima di sviluppare la cosiddetta “intersoggettività primaria”, ovvero l’abilità innata di relazionarsi agli altri in modo espressivo fin dalla nascita, quando il bambino è in grado di imitare i movimenti altrui. Secondo Cusinato, la percezione dell’alterità sarebbe in realtà mediata da un tipo di percezione rappresentativa dei valori e della condivisione emozionale, e avverrebbe grazie ad un principio di selezione determinato dallo schema corporeo. E’ possibile quindi definire il corpo vivo come un a priori materiale; e il sentire stesso come una facoltà universale legata alla capacità di interagire con il piano dell’espressione.

Scheler, infatti, descriveva il Leib  nei termini di “una datità psicofisica indifferente: nell’intuizione interna si dà come Leibseele (fame/ esser sazi, benessere/ dolore) e in quella esterna come Leibkörper” (M. Scheler, 1999, p. 37). Ne Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, egli definisce la corporeità propria “una particolare datità eidetico- materiale … atta a fungere in ogni percezione di fatto del proprio corpo da forma della percezione” (M. Scheler, 1996, p. 492). Non è possibile, dunque, considerare il corpo proprio una mera datità, un mero oggetto percepibile da un punto di vista esterno o interno, in quanto, secondo Scheler, esiste una “rigorosa ed immediata unità d’identità” (M. Scheler, 1996, p. 494) tra la coscienza interna (la consapevolezza che ciascuno ha di sé e del proprio corpo vivo) e la percezione esterna del corpo fisico, oggettuale.

La percezione del corpo proprio è anteriore a tutte le altre e non riducibile ad esse. Piuttosto, sono le sensazioni organiche a manifestarsi sempre in relazione a un corpo proprio, che va considerato concomitante ad esse, come una sorta di “sfondo”. La struttura motoria del corpo proprio accompagna dunque ogni atto dell’Io, ogni vissuto: “Il corpo proprio … non si manifesta quindi né come il “nostro proprio”, né come “sottomesso al nostro potere”, né come “semplicemente momentaneo”; esso è, o sembra essere, il nostro stesso io e contemporaneamente un qualcosa che compenetra il tempo oggettivo in modo stabile, duraturo, continuo e rispetto a cui la realtà psichica trascorre come un qualcosa di “passeggero” (M. Scheler, 1996, p. 519). Il Leib è quindi qualcosa di irriducibile ad altro ed è essenziale, necessario per la costituzione della persona. Inoltre, grazie al Leib è possibile la natürliche Weltanschauung, ovvero “l’intervento sul modo degli oggetti pratici in funzione delle esigenze di carattere biologico” (M. Scheler, 1996, p. 519): una delle funzioni del Leib è, dunque, anche quella di mediare tra l’Io e il mondo.

Cusinato non solo enfatizza la centralità del corpo vivo all’interno del processo percettivo, ma riserva un ruolo esplicitamente importante ai fenomeni espressivi, che per lui rappresentano un momento essenziale della vita di coscienza dell’individuo, specialmente nella percezione intersoggettiva. In questo modo egli si inserisce all’interno del dibattito contemporaneo: Gallagher e Zahavi, ad esempio, sostengono che gli stati affettivi “sono dati nei fenomeni espressivi, cioè sono espressi nei gesti e nelle azioni corporee e diventano perciò visibili agli altri.” (Gallagher e Zahavi, 2009, p. 277). In quest’ottica, corpo e psiche non sono due unità nettamente distinte e percepibili tramite procedure differenti, bensì costituiscono un’unità espressiva (Ausdruckseinheit). Estendendo la presenza dell’affettività alla sfera biologica, Cusinato si spinge oltre le interpretazioni già presenti, e ci mette di fronte a un’intenzionalità incarnata, pre-riflessiva e finalizzata a cogliere il valore dell’oggetto, e non la sua mera rappresentazione.

Enattività, espressività e affettività divengono quindi le componenti originarie del processo cognitivo, il quale andrà ripensato come un processo di tipo affettivo che lega i vari soggetti tramite un meccanismo di sintonizzazione o risonanza intercorporea presente già a livello biosemiotico. Questo non solo permette di considerare il soggetto come essenzialmente relazionale (ponendosi quindi in contrasto rispetto al “minimal self” descritto da Zahavi, che manterrebbe un nucleo puramente individuale); ma anche di oltrepassare le teorie dominanti all’interno del dibattito attuale, che si trova diviso tra teoria della teoria (secondo la quale l’intersoggettività si riduce a un processo di mentalizzazione); teoria della simulazione (per cui la percezione dell’altro equivale alla simulazione dei suoi vissuti) e teoria della percezione diretta, che, seppur enfatizzando la centralità del corpo e dell’espressività, circoscrive l’intuizione dell’alterità al mero incontro con l’altro. L’introduzione di un livello biosemiotico permette di spostare l’accento sul fatto che ogni essere è immerso sin da subito non solo in un contesto che condiziona e da cui è condizionato, ma anche in una relazione affettiva connotata assiologicamente, a partire dalla quale sarà possibile intraprendere dei rapporti con l’alterità.

I vari livelli di sintonizzazione e posizionamento dell’umano nel mondo sono descritti da Cusinato in modo accurato e chiaro, e ci permettono di capire in che modo tale sintonizzazione unipatica possa dischiudere molteplici possibilità (coerenti con le affordances gibsoniane) per il soggetto che  le vive, o, ancor meglio, sente. In una prima fase il soggetto è l’organismo che, attraverso lo schema corporeo, si sintonizza unipaticamente con gli altri (questo corrisponde, appunto, al livello biosemiotico); ciò permetterà all’organismo di svilupparsi come sè sociale che tramite il senso comune si sintonizza empaticamente con l’alterità; per poi infine farsi singolarità personale e sintonizzarsi solidaristicamente con il mondo grazie all’ordo amoris. Tale concetto viene sviluppato nella seconda parte del libro, in cui Cusinato si interroga non solo sul modo effettivo in cui l’ordo amoris ci permette di conoscere il mondo e l’altro, ma anche sulle possibili conseguenze di una sua distorsione. Il concetto di ordo amoris è, in effetti, uno dei più affascinanti della filosofia scheleriana, e il volume in esame riesce a offrirne un’interpretazione quantomai attuale.

Scheler lo introdusse nel testo inedito Ordo amoris (risalente al 1914-16), testo in cui risulta esplicito l’intento di liberarsi da una concezione dell’emozionale come un insieme di forze cieche (come invece è in uso nella psicologia associazionistica e nel meccanicismo naturale) a favore di una riscoperta dell’essere dell’esperienza in una logique du coeur. Il tema pascaliano è ripreso da Scheler per indicare una logica insita nell’Erlebnis,una logica che non appartiene al pensiero, ma al cuore. Anche la vita ha un’essenza, che non è attribuibile allo psichico, e tale essenza la dirige dall’interno. E’ l’amore che indirizza e struttura i processi psichici, non viceversa. Così, secondo questa logica dell’affettività, ai sentimenti corrisponde un termine assiologico di riferimento (ad esempio, la tristezza può essere legata a un valore spirituale, rappresentato dalla morte, oppure a un valore vitale, rappresentato dall’invecchiamento). Ogni stato emotivo è, al tempo stesso, un fatto reale, in quanto stato, e fenomenologico, poiché posto in una modalità intenzionale verso un oggetto di valore. Compito del fenomenologo è dunque quello di  attribuire finalmente alla vita emotiva l’ordine che sempre le è stato negato, ma che secondo Scheler le appartiene di diritto, poiché è ad essa immanente. Anche ai moti dell’anima appartiene tale ordine, finora ignorato e considerato parte della mera soggettività dell’individuo, irrazionale e perciò subordinato all’azione di dominio dell’intelletto.Il concetto di ordo amoris può avere due significati: uno personale e una sovraindividuale. Per quanto riguarda la prima accezione, essa é relativa alla gerarchia di valori specifica di una determinata persona: ogni persona ha infatti la sua propria gerarchia di valori che la orienta in ogni momento della sua vita, in ogni sua scelta, in ogni suo vissuto. Secondo l’accezione sovraindividuale, invece, l’amore governa il senso di ogni cosa, e, sebbene particolarizzate, le varie individualità dovrebbero tutte rifarsi a questo generale ordine di senso oggettivo: in tal modo avremmo dei retti ordo amoris, delle gerarchie assiologiche personali che rispecchiano quella universale. In caso contrario, potremmo trovarci di fronte a un ordo amoris distorto, deviato, ovvero a gerarchie di valori individuali che sovvertono l’ordo amoris generale e sovraindividuale. Esistono infatti vere e proprie perversioni del retto ordo amoris: un esempio può essere quello dell’amore relativo, chiamato da Scheler “innamoramento”, che si riscontra nell’amore verso un bene finito, che diventa idolo se considerato assoluto. Si ha una perversione dell’ordo amoris anche quando i valori della gerarchia personale di un dato individuo sono inferiori rispetto ai valori dati nel retto ordo amoris. L’ordo amoris, quindi, oltre a essere di carattere descrittivo, ha anche un’accezione implicitamente normativa, poiché, dicendoci l’ordine delle cose e il loro giusto posto, nondimeno richiede che tale ordine venga rispettato, ed è correttivo nei confronti di eventuali distorsioni. Nella nostra persona, quindi, è come se convergessero due modi di essere: uno, particolare, del qui-ora dell’esserci, sottoposto, appunto, alle variazioni spazio-temporali; e l’altro che trascende tale modalità, e riguarda invece ciò che di assolutamente eidetico e strutturale esiste, ovvero un ordine metastorico ed onnipresente, comunque capace di assumere diverse forme, cercando di portare il giusto ordine anche sotto forma di un sistema storicizzato. Contingente e assoluto si incontrano, determinando il divenire storico, in un movimento di reciprocità e apertura che vede i due momenti congiungersi fino  a formare un’ unità di senso. Oltre alla conoscenza, l’amore risveglia anche il volere di realizzazione da parte di un soggetto: è per questo che Scheler afferma, a ragione, che l’uomo, prima di essere un ens volens e un ens cogitans, è un ens amans. Scheler, infatti, definisce l’amore come “ la tendenza o-a seconda dei casi – l’atto che cerca di condurre ogni cosa verso la sua propria pienezza di valore, e conduce là, purchè non si frappongano impedimenti”[1].  L’ordo amoris stabilisce così per ogni uomo la sua facoltà di comprendere, la struttura e il contenuto della sua visione del mondo, sempre implicitamente proiettato alla conoscenza dell’essenza divina: ordo amoris particolare e ordo amoris universale trovano dunque una continuità di senso.

In che modo quindi Cusinato inserisce l’ordo amoris all’interno della sua prospettiva biosemiotica?

Possiamo sostenere che l’ordo amoris rappresenti la capacità di percepire il valore attraverso il sentire, e sia quindi implicito nella capacità di interagire a livello unipatico con il piano espressivo della vita. La conseguenza di tale caratterizzazione è molto forte, e l’ultima parte del libro dedica un ampio spazio ad una riflessione a proposito della compromissione di tale facoltà, definita in termini di vera e propria psicopatologia. Secondo Cusinato—e a mio avviso, questa è la tesi più forte  e innovativa dell’intero volume—la patologia psichica subentra appunto nel momento in cui l’ ordo amoris non riesce più a sintonizzarsi con il piano espressivo della vita e dell’alterità. Se la percezione dell’altro è già implicita a livello biosemiotico e dipende da una corretta sintonizzazione affettiva, un disturbo dell’affettività comporterà un errato sviluppo del soggetto stesso, il quale non sarà capace di passare dallo stato di organismo a quello di sè sociale e personalità individuale.

  1. Il case study: la schizofrenia come disordine dell’ordo amoris

Si può osservare la concretezza della tesi di Cusinato analizzando una psicopatologia in particolare: la schizofrenia. Nonostante, infatti, l’autore porti svariati esempi, credo che la schizofrenia sia il più calzante per descrivere la centralità dell’ordo amoris e cosa comporti la  sua perdita o distorsione.

Già Minkowski, nel testo La Schizophrénie, risalente al 1927, sosteneva l’impossibilità di comprendere tale malattia senza avere ben presente la struttura della soggettività: l’essenza della schizofrenia consisterebbe, in particolare, nell’incapacità di rapportarsi al mondo e di stabilire legami significativi con altri individui. Nonostante i disturbi psichici colpiscano principalmente tre sfere- l’autocoscienza, l’intenzionalità e l’intersoggettività- è proprio quest’ultima, infatti, ad essere maggiormente colpita. Il contatto con la realtà, inoltre, non viene perso solo da un punto di vista sociale, poiché ad andare smarrita è la stessa prospettiva in prima persona. Il sé e l’altro, infatti, non sono più mutualmente interrelati, ma divergono fino a divenire due realtà completamente separate. La soggettività esperisce così un senso di perdita dei propri confini, in concomitanza ad allucinazioni uditive e impossibilità di controllo delle proprie azioni: in un certo senso, sembrerebbe andato perso lo “schema corporeo” merleau-pontiano.

Le sfere coinvolte in tale processo di “de-sintonizzazione” con il mondo sono, nello specifico, le seguenti:

  • Capacità cognitive: il distacco dal reale e dalla dimensione soggettiva corporea comporta la perdita dei nessi significativi e la depersonalizzazione della coscienza, che cerca, attraverso l’iper-riflessività, di attribuire al mondo una nuova struttura organizzativa. Questo implica un’ipertolleranza alla complessità semantica: non comprendendo i significati impliciti nel senso comune, lo schizofrenico è portato ad attribuire infinite interpretazioni significative a oggetti in realtà molto semplici, espandendo in senso esponenziale gli orizzonti epistemologici;
  • Vita emotiva: il soggetto ha difficoltà nel sentire e spesso si dichiara incapace di farlo. Di conseguenza, anche le abilità nelle relazioni sociali diminuiscono notevolmente. Inoltre, tutto ciò che concerne l’alterità può spaventare il soggetto, che si dichiara incapace di affrontare il mondo sociale e teme di rimanerne “intrappolato” (tale fenomeno si può definire come vulnerabilità eteronomica);
  • Ontologia: se la consapevolezza corporea e il senso comune vengono persi, anche il sé risulta completamente distorto. Per questo motivo, spesso i pazienti sostengono non solo di sentirsi isolati dal resto del mondo, ma anche di essere letteralmente frammentati, di non essere, cioè, individui interi;
  • Etica: perdendo la consapevolezza di sé e il senso comune, lo schizofrenico assume molto spesso atteggiamenti bizzarri e, talvolta, al di là di ogni etica vigente, come se la sua personale assiologia divergesse completamente dalle norme del mondo sociale in cui vive. Tale eccentricità può sfociare in una vera e propria “ribellione” consapevole nei confronti dei valori comunemente adottati dalla società (antagonomia).

Il risultato è un totale distacco dal reale: “The […] schizophrenics” sostiene Bleuer, “who have no more contact with the outside world live in a world of their own. They have encased themselves with their desires and wishes […]; they have cut themselves off as much as possible from any contact with the external world. This detachment from reality with the relative and absolute predominance of the inner life, we term autism” (E. Bleuer, 1978, p. 30). Ciò che Bleuer non sembra enfatizzare a sufficienza, ma che nell’ultima parte del volume di Cusinato viene descritto, con l’ausilio di testi significativi, tra cui Autobiography of a Schizophrenic Girl (Sechehay, 1962), è la natura drammatica di un simile distacco, che coinvolge non solo la relazione tra il soggetto e l’alterità, ma dal quale sembrerebbe dipendere la stessa comprensione della realtà in generale. Il soggetto, il cui sé è frammentato e che non riesce a stabilire una relazione intersoggettiva, non riesce neppure ad “immergersi” nel mondo.

Tale perdita della conoscenza pre-riflessiva, così come la perdita del senso di sé, ha conseguenze a livello sensoriale, per quanto riguarda la percezione mondana e intersoggettiva; in ambito concettuale, laddove è possibile registrare fraintendimenti e incomprensioni di significati e intenzioni; e nella realtà attitudinale, che concerne la struttura assiologica individuale. Un’analisi fenomenologica si rivela utile al fine fornire una descrizione esauriente e una spiegazione olistica: in tal senso, la perdita del sé corporeo, associata alla distorsione della struttura assiologica del soggetto, sembra essere la caratteristica più significativa della schizofrenia. Tutte le sfere coinvolte dalla de-personalizzazione schizofrenica hanno infatti in comune una distorsione dell’ordo amoris, il cui ruolo è talmente importante che tutti i sintomi possono essere ricondotti a strategie compensatorie volte a ricostituire una struttura assiologica personale (seppur opposta a quella vigente nel senso comune, come è esplicito nel caso dell’antagonimia).

  1. Conclusione

Un’analisi accurata del concetto di ordo amoris ci permette di dedurre che tutta la nostra vita è rigorosamente guidata da un ordine, che nulla è dato al caso: anche la nostra emotività ha leggi specifiche e rigorose. C’è una legalità immanente agli atti d’amore, dovuta alle regole del preferire e del posporre, per cui l’animo umano non è più considerato un luogo di caos, ma un microcosmo del mondo dei valori. E’ quindi appropriato dire che il cuore ha le sue ragioni. Ovviamente non bisogna confondere questo tipo di razionalità con quella intellettuale: emozionale e razionale sono due ambiti completamente diversi, non riconducibili l’uno all’altro. Tuttavia, attribuire una logica soltanto alla sfera del giudizio intellettuale è sbagliato, in quanto il lato emotivo dell’uomo ha un funzionamento analogo a quello razionale e ugualmente fallibile. Dire che il cuore ha le sue ragioni ha un significato molto preciso: l’emozionale ha delle ragioni poiché possiede vedute evidenti di dati non accessibili all’intelletto, e sue proprio perché all’intelletto questo tipo di dati è precluso, e solo grazie all’atto d’amore siamo indirizzati a questo tipo di conoscenza. La logica del cuore è oggettiva, proprio come lo è la logica deduttiva, ed è dotata di una legalità autonoma e specifica. Tale legalità si esprime in modo diverso in ognuno di noi, ma essenzialmente rimane costante. La ripresa del concetto di ordo amoris da parte del professor Cusinato ha non solo il merito di riabilitare una nozione forse troppo sottovalutata nella storia della filosofia delle emozioni, ma anche quella di introdurla in un ambito apparentemente lontano dalla speculazione meramente filosofica: la psicopatologia. Ripensare il disordine mentale come un disordine dell’ordo amoris permette inoltre di interpretare la malattia mentale in termini non riduzionistici, senza tuttavia omettere l’importanza degli aspetti organici della coscienza, grazie all’introduzione del livello biosemiotico.

Bibliografia essenziale

Bleuler, Eugen. 1978. The Schizophrenic Disorders: Long Term Patient and Family Studies. Yale University Press, New Haven, CT.

Minkowski, Eugène. 1927. La schizophrénie: psychopathologie des schizoides et des schizophrènes. Payot, Paris.

Nussbaum, Martha. 2001. Upheavels of Thought: The Intelligence of Emotions. Cambridge University Press, Cambridge.

Scheler, Max. 1916. Der Formalismus in der Ethic und die materiale Werthethik, in “Jarbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung”, trad. it. 1996 Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano.

Scheler, Max. 1999. Il valore della vita emotiva. Guerini Studio editore, Milano.

Scheler, Max. 2008. Ordo amoris in Scritti sulla fenomenologia e l’amore, (a cura di Vittorio d’Anna), Franco Angeli Editore, Milano 2008, tr.it. F. Bosinelli e V. d’Anna.

Sechehaye, Marguerite. 1962. Autobiography of a Schizophrenic Girl. Penguin, New York.


[1] Max Scheler, Ordo amoris, p. 118.

Thomas Fuchs: Ecology of the Brain: The phenomenology and biology of the embodied mind

Ecology of the Brain: The phenomenology and biology of the embodied mind Book Cover Ecology of the Brain: The phenomenology and biology of the embodied mind
Thomas Fuchs
Oxford University Press
2017
Hardback £34.99
370

Reviewed by: Valeria Bizzari (Clinic University of Heidelberg, Heidelberg, Germany)

“Embodiment theorists want to elevate the importance of the body in explaining cognitive activities. What is meant by ‘body’ here?” (A. Goldman, F. De Vignemont, 2009, 154).

All’interno del panorama filosofico e scientifico contemporaneo, la domanda posta da Goldman e De Vignemont solleva questioni quantomai spinose e attuali: Che cosa significa essere corporei? Qual è il ruolo del nostro cervello: strumentale o costitutivo della coscienza e del suo rapporto con il mondo? E’ possibile ridurre le attività del soggetto a sostrati neurali o è necessario tenere in considerazione altri elementi, in modo da non decontestualizzare e isolare la soggettività? In altre parole, in che senso è possibile oggi parlare di embodiment?

Nel nuovo libro del professor Thomas Fuchs, noto filosofo e psichiatra presso la Clinic University of Heidelberg, è possibile trovare esaurienti risposte a tali interrogativi. Ecology of the Brain, uscito nei primi mesi del 2018 ed edito dalla Oxford University Press, offre infatti una descrizione innovativa e accurata del cervello, ben lontana sia dai paradigmi neuroriduzionisti sia da quelli funzionalisti e emergentisti, ma ancorata ad un’immagine di soggetto come persona essenzialmente intersoggettiva e inserita in un mondo-della-vita che, a sua volta, ne condiziona lo sviluppo, in un processo circolare in cui cervello, organismo e ambiente hanno un ruolo egualmente fondante rispetto alla vita di coscienza.

Circolarità può essere considerata, in effetti, la parola chiave dell’intero libro: si parla di circolarità ontologica, nel definire lo status del cervello (non organo isolato, ma parte di un organismo vivente); di circolarità epistemologica (non è il cervello che conosce, ma la persona) e di circolarità eziologica (processi neurali e interazioni intersoggettive si condizionano a vicenda, plasmando il cervello e il rapporto soggetto-mondo).

I. Cervello, corpo e percezione

Nella prima parte del libro, Fuchs critica i paradigmi delle neuroscienze cognitive, secondo le quali il cervello è l’unico soggetto dell’azione e della percezione e il vero e proprio costruttore della conoscenza e del rapporto che l’individuo intrattiene con il mondo. Negli ultimi anni in particolare, complici le numerose scoperte neuroscientifiche che sono state fatte (basti pensare ai celeberrimi “neuroni specchio”, che sembrerebbero attivarsi durante la comprensione intersoggettiva) il corpo sta in effetti subendo una riabilitazione ontologica e cognitiva. Si parla sempre più spesso di “embodied cognition”, “embodied action” e “embodied emotions”. Tuttavia, come nota anche Fuchs, è necessario porre attenzione al modo in cui il corpo viene inteso, poichè la maggior parte delle teorie rimane ancorata a una concezione “meccanica”, di “corpo-cervello” del tutto scisso dalle attività di coscienza.

Le prospettive che, pur enfatizzando il suo ruolo, considerano l’embodiment qualcosa di puramente esterno alla percezione, e non costitutivo di essa, sono molteplici, e si possono schematizzare come segue:

  1. Minimal Embodiment: questo approccio, supportato in particolare da A. Goldman, sostiene che ogni cosa che abbia una benché minima importanza per la conoscenza umana avvenga nel cervello, “the seat of most, if not all, mental events” (A. Goldman, F. De Vigemont 2009, 154). Tuttavia Goldman, ponendosi in aperto contrasto con gli altri sostenitori dell’Embodied Cognition (EB), non considera il corpo (inteso come il fisico nella sua totalità) e l’ambiente elementi decisivi nel processo cognitivo. La priorità viene attribuita piuttosto a stati cerebrali, che il filosofo definisce Brain-formatted: ad esempio, nel contesto della cognizione sociale, gli stati cerebrali coinvolti saranno quelli localizzati nell’area dei neuroni specchio, secondo una logica che riduce l’embodiment a processi neurali. In quest’ottica, il cervello non si configura come una parte del corpo, ma, al contrario, il corpo è nel cervello, e le rappresentazioni “brain-formatted” sono “the most promising concept” per promuovere un approccio “embodied”. Questa prospettiva, che potremmo definire internalista e computazionale, ricorda un po’ l’esperimento del “cervello in una vasca”: paradossalmente, infatti, sembra sostenere un’immagine di cognizione disincarnata, in quanto la visione di corpo che supporta viene semplicemente ridotta a una simulazione di fattori corporei che avviene all’interno del cervello. Risulta difficile, quindi, considerare il minimal embodiment un’autentica versione dell’ EC: al contrario, ridurre la corporeità a meccanici processi cerebrali, sembra piuttosto una rielaborazione della classica prospettiva rappresentazionalista e computazionalista. In altre parole, pur fornendo numerose evidenze empiriche, la proposta di Goldman non sembra sufficiente a una descrizione esauriente del processo cognitivo. Tuttavia, come sottolinea Thomas Fuchs (ponendosi in continuità con la proposta di Louise Barrett (2011)), non è possibile concepire un cervello completamente scisso dal corpo, né tantomeno pensare a una priorità degli stati neurali. Al contrario, è necessario pensare al corpo nella sua totalità e nella sua connessione con l’ambiente;
  2. Biological Embodiment: In netto contrasto con il “minimal embodiment”, tale approccio (adottato da autori come Chiel e Beer, Shapiro e Straus) rivaluta il ruolo dell’anatomia e dei movimenti corporei considerandoli centrali all’interno del processo cognitivo, in quanto antecedenti qualsiasi operazione cerebrale di elaborazione delle informazioni. In tal senso, le strutture extra-neurali costituirebbero l’assetto a partire dal quale si modella la nostra esperienza cognitiva. Piuttosto che essere completamente determinate dall’attività neurale, le attività cognitive, così come i responsi motori, sembrano il risultato della nostra conformazione fisica: la flessibilità dei tendini, l’attività muscolare e il complesso funzionamento corporeo determinano infatti le attività “mentali” e Il movimento si configura così come una funzione decisiva per la percezione e l’azione. Le prove empiriche a favore di questa tesi sono molte: è stato dimostrato, infatti, che le vibrazioni producano patterns propriocettivi che inducono un cambiamento nella postura corporea, così come modificazioni della percezione dell’ambiente; allo stesso modo, variazioni ormonali possono condizionare processi cognitivi come la percezione, la memoria o l’attenzione. Nonostante tale approccio abbia dunque il merito di aver rivalutato il ruolo del corpo nella sua complessità, secondo un’ottica che si potrebbe definire gestaltica, il rischio è tuttavia quello di scadere in un mero riduzionismo biologico incapace di spiegare ciò che concerne la vita emotiva e morale del soggetto agente.
  3. Semantic Embodiment: Secondo tale prospettiva (che include, ad esempio, il lavoro di G. Lakoff e M. Johnson), il corpo, insieme alla sua postura e ai suoi movimenti, non solo determina il modo in cui facciamo esperienza del mondo, ma anche i significati che attraverso la percezione siamo in grado di cogliere. Rispetto alle proposte sopra descritte, tale modello di comprensione fa dunque un notevole passo in avanti attribuendo alla corporeità una responsabilità strutturale e contenutistica. In altre parole, la conformazione del corpo percipiente e le sue capacità motorie possono influenzare le valutazioni del soggetto a proposito dell’ambiente: ad esempio, grazie al fatto di avere le mani, percepiamo un oggetto come manipolabile, afferrabile e così via. Il contenuto della percezione sembra così direttamente provocato dall’ “essere corporeo” del soggetto. In particolare, a mediare tra esperienza corporea e rielaborazione concettuale sarebbe la metafora, intesa come il prodotto di schemi ricorrenti relativi all’immagine corporea (sopra-sotto, di fronte, a lato, dietro e così via). Il ruolo delle funzioni sensorio-motorie si rivela dunque la chiave del processo percettivo e cognitivo, così come la base del linguaggio condiviso. E’ interessante notare come il semantic embodiment possa essere assimilato dalla prospettiva della “cognitive linguistic”, di cui gli stessi Lokoff e Johson sono sostenitori: secondo tale approccio,  linguaggio e cognizione interagiscono costantemente, e la capacità linguistica non viene ascritta a un potenziale innato ma deriva dalle interazioni e dal contesto d’uso in cui le abilità linguistiche stesse si acquisiscono e si sviluppano. Sebbene rifiuti il rappresentazionalismo, tale corrente si pone comunque a metà tra una spiegazione fisicalista e un approccio che, invece, considera le relazioni tra organismo-ambiente come referenziali. Anche in questo caso, tuttavia, sembra che alcuni elementi della vita soggettiva, ad esempio l’affettività e tutto ciò che concerne la sfera del pre-riflessivo, non siano tenuti in considerazione, e che una spiegazione che si rifaccia alle tesi principali di questo genere di EC non renderebbe giustizia alla complessità e peculiarità di tali tematiche.
  4. Functionalist Embodiment: la versione più accreditata di tale modello di embodiment è quella definita “extended mind”, supportata da A. Clark e D. Chalmers. Secondo tali autori, considerare il processo cognitivo un’attività esclusivamente neurale costituisce un gravissimo errore. Essi suggeriscono, piuttosto, che la cognizione dipenda dall’azione incarnata di un sistema complesso, del quale possono far parte anche alcuni elementi ambientali. In quest’ottica, il ruolo del corpo non si risolve all’interno della disputa tra meccanismi neurali o corporeità intesa nella sua totalità, ma viene enfatizzata piuttosto la possibilità che il cervello e l’organismo vivente costituiscano un continuum con l’ambiente esterno: si ha dunque una visione di corpo come sistema esteso. Al fine di determinare cosa faccia effettivamente parte del processo cognitivo, Clark e Chalmers hanno elaborato una sorta di test, il Parity Principle, secondo il quale “If, as we confront some task, a part of the world functions as a process which, were it done in the head, we would have no hesitation in recognizing as part of the cognitive process, then that part of the world is part of the cognitive process” (A. Clark, D. Chalmers 1998, 8). In altre parole, secondo tale approccio, i meccanismi cognitivi non si trovano necessariamente ed esclusivamente all’interno della nostra mente. Nonostante, quindi, venga enfatizzata la necessità di una visione gestaltica del processo cognitivo, pare che, tuttavia, tale modello non dia priorità al soggetto inteso come corpo vivo, ma consideri l’organismo in senso meramente biologico, uniformando il suo ruolo all’interno della percezione a quello che, in certe occasioni, potrebbe assumere l’ambiente, in quanto entrambi possono ugualmente farsi latori di informazioni utili. Inoltre, la coscienza e l’esistenza corporea sono considerate come due elementi separati, caratteristica che rimanda al cognitivismo classico e che conferma una visione di fisico alla stregua del fisiologico.
  5. Enattivismo: la prospettiva enattiva sostiene la tesi secondo la quale il processo percettivo alla base della cognizione sia costituito dall’azione. Il più famoso esponente di un simile approccio è E. Thompson, che insieme a Varela e Rosch, nel testo The Embodied Mind riprende la fenomenologia merleau-pontiana e cerca di svilupparne alcuni concetti. Similmente alla “mente estesa” di Chalmers e Clark, anche in questo caso viene sottolineato il fatto che il processo cognitivo non si svolga esclusivamente nel cervello, ma sia distribuito tra corpo, ambiente e mente. Tuttavia, nel caso dell’enattivismo il corpo mantiene comunque la sua priorità, in quanto modella e influenza la percezione: gli aspetti biologici, infatti, incluse le emozioni e le caratteristiche meramente organiche, hanno effetto sulla cognizione, così come i processi sensorio-motori che regolano il rapporto tra individuo e ambiente. Alva Noë ha sviluppato un modello di cognizione enattiva ponendo in diretta correlazione le contingenze sensorio-motorie e le affordances ambientali, sostenendo la tesi secondo la quale “la cognizione è azione” e si baserebbe sull’ ”esplorazione” che il corpo fa dell’ambiente e sulle “structures of our biological embodiment” (F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch 1991, 149). Nonostante tale approccio enfatizzi, dunque, il ruolo del corpo inteso nella sua dinamica relazione con il mondo, ricordando alcune tesi del fenomenologo Merleau-Ponty, esso non chiarisce, tuttavia, in cosa consista il sistema cognitivo, né tantomeno offre una definizione univoca di esperienza cosciente. Non è inoltre chiarito a sufficienza in che senso il corpo possa avere una funzione costitutiva nel processo percettivo.

Combinando fenomenologia, neuroscienze, psicologia dello sviluppo e enattivismo, Fuchs propone dunque un modello alternativo, per il quale la percezione consiste in una relazione attiva tra soggetto incarnato e ambiente, e sostiene la tesi per cui la soggettività non è un epifenomeno di processi neurali, né tantomeno si possa identificare con il cervello. Le neuroscienze cognitive, infatti, commettono errori categoriali, che ricadono sotto il nome di fallacia mereologica e fallacia di localizzazione. La prima, identificata da Bennett e Hacker nel 2003, riguarda l’errore di identificare una parte con il tutto, in questo caso, considerando il cervello l’unico soggetto della percezione, quando invece è la persona nel suo complesso a farlo. La fallacia di localizzazione, invece, indica l’errore di attribuire specifiche esperienze fenomeniche a determinate aree del cervello. Tuttavia, come nota Fuchs, non è possibile localizzare le funzioni cerebrali, ma soltanto i loro disturbi. Inoltre, l’attivazione di un’area del cervello è condizione necessaria ma non sufficiente a una determinata funzione. In atre parole, la coscienza non è il cervello, nè tantomeno può essere considerata un prodotto del cervello. Vi sono numerosi altri fenomeni che vanno tenuti in considerazione, e che non fanno parte del mondo fisico, bensì del mondo-della-vita. La coscienza, infatti, emerge da integrazioni sensoriali-motorie del soggetto vivente con l’ambiente in uno spazio d’azione intermodale; è dotata di un’intenzionalità affettiva che la connota teleologicamente; è consapevole delle potenzialità del sé; integra varie esperienze nel tempo ed è capace di auto-esperirsi in relazione all’ambiente. Al livello neurobiologico è quindi necessario aggiungere il livello dell’esperienza intersoggettiva di sé. Enfatizzando la priorità del mondo-della-vita, Fuchs sottolinea la necessità, da parte delle neuroscienze, di divenire sociali e prendere in considerazione anche quegli aspetti esperienziali che di solito vengono considerati superflui. Il pericolo del rinnovato interesse nei confronti della corporeità è infatti quello di sfociare in una sorta di “neuromania” che consideri il cervello, e non la persona, il vero soggetto dell’esperienza.

Avvalersi di un approccio fenomenologico si rivela quindi adatto per descrivere al meglio la relazione chiasmatica che lega il soggetto al mondo. In particolare, la nozione di “corpo vivo” si rivela utile a tale scopo poiché implica un organismo psicofisico che, per mezzo delle sue capacità cinestetiche, e, quindi, del movimento, non solo riesce a fare esperienza dell’ambiente, ma anche di se stesso (autocostituzione del corpo vivo).

II. Un approccio fenomenologico alla percezione: l’importanza del corpo vivo

Secondo la prospettiva fenomenologica, sia il processo cognitivo che la stessa coscienza altro non sono che il prodotto del nostro essere incarnati. Il corpo costituisce il mezzo attraverso il quale il soggetto può vivere nel mondo e distinguersi dalle creature inanimate. Il corpo vivo, infatti, è caratterizzato dal fatto di essere intenzionalmente diretto verso l’esterno (ponendosi come punto di partenza per ogni tipo di conoscenza) e da un’auto-affezione che gli permette di essere consapevole di se stesso indipendentemente da qualsivoglia interazione con il mondo.

E’, in particolare, Merleau-Ponty a sostenere l’inseparabilità tra capacità corporee e coscienza: in altre parole, la nostra percezione del mondo dipende dagli aspetti strutturali della nostra esistenza corporea. Tale affermazione è confermata, ad esempio, dal caso dell’arto fantasma: pare, infatti, che i pazienti che abbiano sofferto dell’amputazione o della perdita di un arto continuino ad avere percezione dell’arto in questione, come se lo possedessero ancora. Secondo il fenomenologo francese questo caso dimostra in modo esplicito come l’intenzionalità motoria—pre-riflessiva e corporea- strutturi a fondo le esperienze, indipendentemente dalla situazione meramente biologica del soggetto. Il motivo per cui l’arto perduto viene esperito come “quasi-presente” consiste nel fatto che le strutture corporee continuano a fornire al soggetto la percezione del mondo esterno. L’arto fantasma è ancora “incorporato” e inserito nel mondo, che lo “invita” a interagire con esso e i suoi oggetti, nonostante il soggetto non sia più effettivamente in grado di farlo quando. In altre parole, nonostante l’evidente deficit, il mondo continua ad apparire come un luogo a cui l’ “io posso” del soggetto può ancora relazionarsi.

Il ruolo del corpo vissuto sembrerebbe, infatti, quello di strutturare l’esperienza percettiva e renderla significante. Tale tesi risulta evidente, ad esempio, al momento dell’acquisizione di una nuova abitudine: quest’operazione, infatti, non si configura affatto come il risultato di un’operazione meramente intellettiva che avviene per mezzo di rappresentazioni o inferenze, quanto piuttosto come un atto pre-riflessivo, involontario e corporeo. L’incontro tra corpo e mondo implica inoltre un rapporto dinamico e dialettico: la percezione, infatti, non si configura come una mera rappresentazione, ma lo stesso “corpo abituale” viene costantemente modificato dalla sua interazione con l’ambiente. Imparare a danzare, a suonare uno strumento o a scrivere a macchina comporta infatti un cambiamento delle affordances e della relazione intenzionale tra soggetto e mondo.

A partire da quest’immagine di percezione è possibile sostenere che il corpo vivo sia un elemento fondamentale dell’intero processo cognitivo, motivo per cui pare necessario riformulare il rapporto tra cognizione e coscienza e, piuttosto, pensare a un approccio embodied alternativo o comunque complementare a quelli precedentemente descritti.

All’interno di tale proposta il movimento assume una funzione fondamentale, poiché si configura come lo strumento principale attraverso il quale si forma la cognizione: attraverso i movimenti corporei, infatti, il soggetto esplora il mondo, percepisce le affordances e determina le sue abitudini (habit body). In altre parole, il processo cognitivo non è affatto plasmato da rappresentazioni, ma sembra piuttosto il risultato di una percezione essenzialmente incarnata, che avviene a partire da un corpo vivo. Le capacità corporee non sono quindi meri strumenti all’interno del processo cognitivo, ma costituiscono esse stesse la cognizione: seguendo queste tesi, potremmo addirittura affermare che la mente (intesa come l’insieme dei processi cognitivi) sia essa stessa il corpo.

Nella seconda parte del libro, Fuchs sviluppa quindi una visione di cervello compatibile con il mondo della vita esperienziale, e coerente con la dualità che caratterizza la soggettività, che è sì corpo fisico, ma anche corpo vivo, in perpetuo contatto con un mondo culturale e sociale che ne condiziona lo sviluppo.

E’ interessante notare come, in questo contesto, il processo cognitivo sembri avere caratteristiche affettive: il movimento si configura, ad esempio, come la prima risorsa comunicativa, fonte di concetti non linguistici e cinetici (spazio, tempo, forza..). Le attività motorie, così come le esperienze emotive, sembrano quindi gli strumenti principali per rapportarsi e conoscere il mondo, prima che subentrino capacità cognitive più complesse, il cui corretto funzionamento pare piuttosto derivare da esse. Lo sviluppo della percezione mondana sembra perciò dipendere da esperienze corporee complessive e irriflesse, il cui protagonista è il corpo vivo, il corpo che si muove.

Focalizzarsi sulle capacità cinestetiche e motorie, piuttosto che sui correlati neurali attivi durante la percezione, permette perciò di avviare un’indagine verso un percorso più promettente. In altre parole, la concezione gerarchica tra i vari elementi attivi nel processo percettivo deve essere ripensata. Sebbene, infatti, un corretto funzionamento neuro-fisiologico sia necessario, ancor più importanti ai fini di una corretta percezione sono il processo propriocettivo e le cinestesi dell’organismo percipiente: il risultato sarà una concezione olistica di soggetto, e una visione circolare di causalità. Fuchs parla infatti di causalità circolare verticale, che avviene tra cellule (livello base), organi (livello intermedio) e organismo complessivo; e causalità circolare orizzontale, che coinvolge percezione, movimento e ambiente. Causalità circolare orizzontale e verticale si condizionano poi a vicenda, in un meccanismo complesso e olistico che permette il ciclo di cognizione, percezione e movimento. In altre parole, esiste una risonanza costante tra organismo, cervello e ambiente, legame che un approccio riduzionista e fisicalista non è affatto in grado di spiegare  esaustivamente. Il corpo vivo si fa mediatore tra soggetto e mondo, e questo legame non può essere descritto in termini di “rappresentazione”, “mappe”, “simulazioni” o “rispecchiamenti”, ma come una vera e propria risonanza, un rimando continuo e pre-riflessivo tra qualità affettive, corpo, cervello e stimoli esterni.

Prendendo come esempio lo sviluppo della socialità, e descrivendo l’ intersoggettività primaria (ovvero il rapporto diadico tra neonato e madre, che si configura come la prima forma di sincronizzazione affettiva) e l’ intersoggettività secondaria (che implica lo sviluppo dell’attenzione condivisa e relazioni intersoggettive che comprendono l’uso di oggetti), Fuchs enfatizza come fin dalla nascita l’individuo sia, in effetti, pre-riflessivamente e corporalmente legato all’altro e al mondo: l’intenzionalità corporea e l’immediata consapevolezza delle proprie cinestesi caratterizzano il soggetto fin da subito.

L’azione corporea non sempre, quindi, è complementare alla cognizione, ma è possibile sostenere che essa stessa sia cognizione. La posizione di Fuchs è quindi coerente con ciò che afferma M. Johnstone: “The human mind is not contained in the body, but emerges from and co-evolves with the body… A human being is a body-mind, that is, an organic, continually developing process of events”(M. Johnson 2007, 279).

Grazie alle nostre capacità cinestetiche impariamo a rapportarci con il mondo, acquisiamo nuove abitudini, diveniamo in possesso di quel “saper fare”, la praktognosia, essenziale per il nostro ancoraggio al mondo in quanto presenze animate (e non come cervelli disincarnati e decontestualizzati).

L’esperienza non è un epifenomeno, ma ha un ruolo centrale per la comprensione della mente: è quindi necessario un ripensamento della comprensione dell’apparato cognitivo: la mente umana sembra infatti “incarnata” nell’organismo e “incorporata” nel mondo, perciò irriducibile a strutture cerebrali.

La nostra vita mentale sembra coinvolgere, inoltre, tre tipi di attività corporee interrelate tra loro: auto-regolazione, interazione intersoggettiva, percezione sensoriale-motoria. Un approccio che tenti di spiegare in modo esauriente tale sistema deve quindi tenere in considerazione non tanto la correlazione tra attivazioni neurali e stimoli esterni, quanto il rapporto dinamico tra soggetto e ambiente circostante. Di conseguenza, anche l’apparato neurofisiologico dovrà essere ripensato come qualcosa di plastico, attivo e in costante evoluzione. Il risultato è un’immagine di soggetto e mondo come elementi ugualmente coinvolti in un processo circolare e olistico incomprensibile da una prospettiva meramente rappresentazionalista: cognizione e coscienza (incarnata) sono quindi intimamente connesse.

Un ulteriore vantaggio dell’approccio fenomenologico adottato da Fuchs è inoltre quello di rendere giustizia alla corporeità nel suo complesso: il corpo vivo, infatti, implica qualcosa di più di un insieme di schemi sensoriali-motori funzionanti. Essendo un’entità essenzialmente psicofisica, il Leib include fattori pre-noetici che, tuttavia, hanno un ruolo attivo nella percezione, come, ad esempio, i fattori affettivi ed emozionali.

Come nota Gallagher (si veda, ad esempio, S. Gallagher, M. Bower 2014) infatti, gli elementi affettivi e passivi hanno un valore motivazionale che anima l’interazione tra soggetto e mondo: si pensi, ad esempio, al caso della fame, istinto in grado di condizionare e talvolta distorcere i giudizi cognitivi. Uno studio effettuato da Danzinger et al. nel 2011 ha infatti dimostrato che le decisioni dei giudici non sono mai totalmente il frutto della mera applicazione delle leggi: molto spesso, piuttosto, il loro stato psicosomatico gioca un ruolo fondamentale nell’emissione del verdetto. Allo stesso modo è stato dimostrato come le emozioni condizionino la percezione mondana e i processi cognitivi: questo ha fatto ipotizzare l’esistenza di una coscienza affettiva e incarnata la cui posizione all’interno dell’esperienza non sia del tutto passiva.

Tale descrizione di persona come organismo essenzialmente duale ha conseguenze importanti. Innanzitutto, il contributo di Fuchs permette di ripensare il cosiddetto “mind-body problem” in termini di interrelazioni tra mente e corpo, o meglio, tra organismo vivente e cervello. Si potrebbe sostenere che la sua sia una versione “forte” dell’emergentismo, che va tuttavia a dare priorità al tutto rispetto alle componenti, e a enfatizzare la reciprocità tra livello locale e livello globale (grazie al concetto di causalità circolare). Il peggior difetto delle teorie contemporanee a proposito del rapporto mente-corpo, infatti, è quello di escludere un concetto autonomo di vita, che Fuchs (con esplicito riferimento alla nozione di autopoiesi introdotta da Varela) prende invece in considerazione, convinto che non sia possibile parlare di soggetto, o mente, senza aver ben presente il fatto che questo sia essenzialmente un corpo vivo, dotato di e-mozioni e “gettato” fin da subito in un mondo tutt’altro che asettico e passivo.

III. Per una psichiatria diretta alla persona

Una simile concezione di soggetto ha inevitabili conseguenze anche in ambito psichiatrico: negli ultimi capitoli del libro, quindi, Fuchs affronta il tema della malattia mentale e dello statuto della psichiatria. Anche in questo caso la sua posizione risulta antagonista rispetto a antagonista a quegli approcci neurobiologici riduzionisti, secondo i quali la patologia mentale altro non è che un disturbo cerebrale. In tal modo, tali prospettive reificano il disordine psichico (infatti localizzano gli stati mentali in specifiche aree del cervello), e isolano il soggetto (in quanto considerano esclusivamente gli aspetti neurobiologici, indipendentemente dal contesto). Tuttavia, i disordini mentali non sono localizzati nel cervello, ma affliggono la persona e le sue relazioni con gli altri e con il mondo. Riprendendo il tema della circolarità, che funge da filo conduttore dell’intero libro, Fuchs sostiene che la malattia mentale stessa consista quindi in un processo circolare nel quale processi psicosociali (interazioni intersoggettive), interazioni tra cervello, organismo e ambiente, e processi neurali e molecolari all’interno del cervello si condizionano a vicenda. Oltre a una predisposizione genetica, nell’eziologia della psicopatologia hanno quindi un ruolo anche le prime interazioni sociali (che influenzano la maturazione epigenetica del cervello) e le influenze ambientali (quelle negative, ad esempio, comportano uno sviluppo deficiente delle capacità relazionali).

Di conseguenza, anche i trattamenti dovranno tenere in considerazione sia i processi neurali che quelli intenzionali interattivi. Alla farmacologia (che influenza l’andamento del disordine a livello neurale, modificando le attività cerebrali che, a loro volta, influiscono sull’esperienza soggettiva) si andrà quindi a sommare l’effetto di una terapia interattiva basata su uno scambio interpersonale che ha l’effetto di alterare gli schemi neurali. I trattamenti si configurano così come vere e proprie azioni, forme di comunicazione incarnata orientate alla persona nel suo complesso.

Come sosteneva Merleau-Ponty, infatti, “la malattia è una forma d’esistenza completa” (M. Merleau-Ponty 2003, 177), espressione di una particolare variazione dell’essere-al-mondo del soggetto colpito.

Cercando quindi di oltrepassare la mera interpretazione e catalogazione dei sintomi, l’approccio descritto da Fuchs sembra avere il merito di spiegare scientificamente in cosa consista la malattia e comprendere cosa significhi per il paziente l’esperienza psicotica. Enfatizzando la centralità degli aspetti pre-riflessivi dell’esperienza, una visione “circolare” di patologia riesce così a porre la dimensione pre-teorica, vissuta e emozionale al centro dell’indagine psichiatrica.

Risulta chiaro, quindi, come un approccio meramente riduzionista sia insufficiente a spiegare la complessità dell’esperienza della malattia: non è possibile localizzare la patologia in una specifica area del cervello, in quanto ciò che risulta compromesso è la soggettività nel suo complesso. La dualità enfatizzata all’inizio del volume, in cui il soggetto viene descritto come corpo fisico e corpo vivo, permette quindi di definire la psichiatria come una scienza che possiede un “soggetto-oggetto”, un orizzonte di significato che, come già aveva osservato Basaglia, necessita di un approccio integrativo, che oltrepassi il gap epistemologico tra un riduzionismo neurobiologista  e una psicologia che spiega i sintomi esclusivamente in termini di disordini interni alla mente. Mutuando un’espressione di Jaspers, è necessario un pluralismo metodologico che tenga in considerazione la complessità della coscienza, i suoi vissuti e il ruolo delle interazioni sociali.

Il libro di Fuchs riesce quindi ad offrire non solo una rinnovata immagine di soggetto, ma anche un’interessante e concreta proposta nel campo della psicopatologia: la circolarità descritta all’interno del libro non è perciò un concetto astratto, o una semplice metafora dell’interazione soggetto-mondo, ma una vera e propria direzione che le terapie dirette ai disturbi “mentali” (se così possiamo ancora definirli) dovrebbero assumere.

Ecology of the Brain permette quindi di trovare risposte soddisfacenti ai quesiti che ci si poneva all’inizio di tale recensione: embodiment non è un semplice attributo, ma un modo di essere del soggetto che va ben oltre i suoi sostrati neurali, poiché il corpo vivo si fa fin dalla nascita coscienza dinamica e intenzionale in cui processi vitali e fisici (Leben e Erleben) si intrecciano ontologicamente in modo inestricabile.

Bibliografia Essenziale

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