Dominique Pradelle (Hrsg.), Pierre-Jean Renaudie (Hrsg.): Intentionnalité, sens, antipsychologisme, Georg Olms Verlagsbuchhandlung, 2022

Intentionnalité, sens, antipsychologisme. Hommage à Robert Brisart Book Cover Intentionnalité, sens, antipsychologisme. Hommage à Robert Brisart
Europaea Memoria, Reihe I: Studien, 134
Dominique Pradelle (Hrsg.), Pierre-Jean Renaudie (Hrsg.)
Georg Olms Verlagsbuchhandlung
2022
Paperback 49,80€
254

Andrea Staiti: Etica Naturalistica e Fenomenologia

Etica naturalistica e fenomenologia Book Cover Etica naturalistica e fenomenologia
Percorsi
Andrea Staiti
Società editrice il Mulino
2020
Paperback
160

Reviewed by: Roberta De Monticelli (Director of the Research Centre PERSONA; San Raffaele University, Milan)

La teoria dei valori che ci manca

Dialogando con  Andrea Staiti (2020), Etica naturalistica e fenomenologia, Bologna: Il Mulino

 

  1. Tre osservazioni preliminari

La prima cosa da dire è che questo è un bellissimo libro[1]. La seconda, che era un libro necessario, e comincia a riempire una lacuna che i colpevoli ritardi dei fenomenologi, non solo italiani, e fra i più colpevoli quello di chi scrive, avevano lasciato spalancata come un grido di Munch.

Sì, perché non si tratta genericamente di filosofia morale, e neppure specificamente di etica normativa – le quali da almeno una ventina d’anni sono sotto la lente dei fenomenologi, anche se – a mio avviso – in modo ancora troppo esegetico o filologico, o non abbastanza fenomenologico.  Qui si tratta di metaetica, per l’essenziale, e in particolare di metaetica naturalistica, oggi di gran lunga la più gettonata anche fra i non specialisti (si vedano recenti dibattiti anche sul nostro www.phenomenologylab.eu).  E quindi, bene o male, di teoria dei valori: lasciata finora quasi senza interlocuzione proprio dalla fenomenologia, che quasi era nata per parlare di questo! Un vero scandalo, attenuato soltanto dalla presenza di pochi, troppo pochi e ancora troppo iniziali contributi, quasi tutti rigorosamente citati nel testo di Staiti.

Che esagerazione, penserete: la fenomenologia nata per parlare di questo! Ma sì, questa è la terza cosa da dire, prima di entrare in materia. Basta che pensiate ai valori epistemici: chiarezza, evidenza, rigore-scientificità, buona fondazione, verificabilità, conoscenza – e naturalmente avrete tutto ciò di cui anche la più tradizionale e poco immaginativa esposizione della fenomenologia – specie classica, specie poi husserliana – si preoccupa. Ma, tanto per andare più a fondo, e giustificare il mea culpa sui ritardi: penso che un’assiologia fenomenologica sia oggi il più urgente dei nostri bisogni intellettuali, un bisogno teorico ma anche culturale. Questa assiologia fenomenologica da farsi oggi salirà certamente sulle spalle dei suoi classici, ma altrettanto naturalmente dovrà pur discutere con i filosofi contemporanei – specie se condividono almeno implicitamente un impegno verso i valori epistemici, oltre che eventualmente trattarne al livello metateorico, e quindi dovrà tradurre il suo gergo in termini universalmente accessibili, come già sta facendo questo libro eccellente.

Quest’ultima considerazione era necessaria proprio per entrare in materia. Perché mette subito le carte in tavola: non si è mai tanto interessati ai libri quanto se ci si sta occupando proprio delle cose di cui parlano. Perciò questa mia discussione non sarà distaccata o neutrale: avrà sullo sfondo alcune delle tesi che mi stanno a cuore[2]. Non invasivamente spero, perché ora è delle tesi di Andrea Staiti che stiamo parlando. Ma per dare già un’idea di come voglio procedere, espliciterò subito l’essenziale della mia lettura. L’approccio di Andrea Staiti alla metaetica dà tutto quello che si poteva dare sfruttando il versante noetico dell’analisi fenomenologica – fuori dal gergo, il versante della riflessione sugli atti e i vissuti del soggetto, quelli che in terminologia più standard, e pur con una perdita di un dettaglio di informazione, si chiamerebbero stati intenzionali. Ma, come perdiamo contenuti rilevanti di analisi se riflettiamo sul vedere e il guardare senza tener conto delle caratteristiche proprie dei contenuti del visibile, così accade o può accadere se descriviamo i modi della cognizione assiologica – del valutare ad esempio – indipendentemente dai loro oggetti, o meglio dalla “materia” di questi oggetti, i valori: specifici oggetti di un’assiologia “materiale”, che la sua materia desume dal versante noematico dell’analisi, cioè dall’indagine sulla natura dei valori – ovviamente in quanto dati al loro specifico modo d’esperienza.

Procederò quindi affiancando questioni di assiologia materiale – o noematica, o a parte objecti – all’esposizione di alcuni fra i problemi e le soluzioni che Staiti propone, con una importante eccezione nel cap. III, a partire dalle risorse della fenomenologia noetica o a parte subjecti. Solo alla fine di questa disamina potremo capire se la prospettiva noematica è solo complementare rispetto a quella noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle fonti di evidenza, o riempimento intuitivo, dei principi di un’assiologia fenomenologica. Né nell’una né nell’altra ipotesi il valore della ricerca portata a termine in questo libro ne risulterà minimamente diminuito.

  1. Uno sguardo d’insieme

Cominciamo da uno sguardo sulla strategia generale del libro. Staiti sceglie di non disperdere la nostra attenzione nell’elenco sistematico delle posizioni possibili riguardo a alla questione fondamentale della metaetica, che riguarda l’esistenza e la natura delle proprietà assiologiche, e specificamente morali, posizioni che si dispongono intorno a quello che a partire da Moore (1903, 1964), ma in effetti già da Hume, appare un dilemma: se le proprietà assiologiche sono proprietà reali, che qualificano e modificano la realtà di questo mondo, sembrano perdere la normatività che pure le distingue, nel senso che dettagliano il mondo com’è, e non come dovrebbe essere; ma se vogliamo preservare questa distintiva normatività, dove le metteremo, per così dire, se non in un altro mondo, un mondo di modelli ideali, molto simile alle idee platoniche? In metaetica il “naturalismo” si origina qui, come rigetto più o meno argomentato del dualismo platonico che il secondo corno del dilemma comporta.

Staiti invece ci introduce subito in medias res, attraverso un’agile esposizione delle forme che prende il naturalismo metaetico, e del modo in cui la fenomenologia (come stile e metodo di pensiero filosofico che ha radice nei suoi classici)  si posiziona utilmente nel dibattito, proprio a partire dall’esigenza che in questo dibattito si fa sentire di rendere conto della fenomenologia del discorso morale (p. 21): cosa intendiamo dire quando diciamo che un’azione è sbagliata? Questa prima mossa permette di lasciare da parte, per così dire, quelle posizioni che risultano prima facie irrilevanti al senso e ai riferimenti, quindi alle condizioni di verità, del discorso morale, e fra questi ci sono già alcune delle più classiche e ricorrenti posizioni: quelle del cosiddetto non-cognitivismo, emotivismo ed espressivismo, che da Hume a Ayer a Blackburn e Gibbard  riducono le proprietà assiologiche a stati dei soggetti, in particolare stati emotivi, e i loro giudizi a espressioni di questi stati, e quelle dei fisicalisti che affrontano la questione delle proprietà assiologiche solo per denunciare l’illusorietà dei discorsi morali, riferiti a entità che non esistono – nell’ipotesi che esistano soltanto le entità riconosciute dalla fisica o a queste riducibili. La fenomenologia del discorso morale induce quindi anzitutto a specificare il senso in cui si può essere “naturalisti” in etica: sia accettando la distinzione fra naturalismo scientifico e naturalismo “liberalizzato” (De Caro 2013), che si riduce al requisito assai modesto di non ammettere entità che violino apertamente le leggi naturali (come gli interventi “divini”, in una forma piuttosto rude di teologia miracolistica o magica), sia accettando una parte dell’argomento mooriano secondo cui le proprietà assiologiche sono indefinibili nei termini di quelle naturali (Cuneo 2007, Crisp 2011).

Il cap. I ha così istruito la questione che occuperà, sotto prospettive complementari, gli altri tre capitoli: come render conto del rapporto fra proprietà naturali e proprietà assiologiche, in modo da rendere ragione, da una parte, all’esigenza del naturalismo (liberalizzato) che valutazioni e giudizi portino su fatti di questo mondo e non di un altro, e d’altra parte, al requisito di apriorità che la stessa “fenomenologia del discorso morale” ci presenta come inaggirabile? Perché se affermiamo che la tortura è inammissibile, noi riteniamo che la verità di questa tesi non dipenda certo dall’induzione empirica, che al contrario ci mostra la tortura praticata e impunita in molti luoghi della terra. Staiti intende mostrare che la fenomenologia (questa volta nel senso dello stile di pensiero e del metodo filosofico che portano questo nome) ha risorse per suggerire risposte illuminanti a questa questione, rispettivamente: dal punto di vista epistemologico (Cap. II), dove si mette a fuoco la nozione di intuizione morale in un utile confronto con Robert Audi; dal punto di vista ontologico (Cap. III), dove la relazione di sopravvenienza delle proprietà assiologiche su quelle naturali, tirata in direzioni diverse da naturalisti e anti-naturalisti per sottolineare rispettivamente la riducibilità e l’irriducibilità delle prime alle seconde, viene ad essere inclusa come caso particolare di Fundierung, o vincolo di (co)variazione fra parti dipendenti di un intero. Un bel risultato, perché la teoria husserliana degli interi e delle parti (III Ricerca Logica) è l’ossatura ontologico-formale di tutta la fenomenologia, e la misura della sua generalità e insieme della sua precisione analitica in quanto, potremmo dire (ma il termine non è di Staiti), teoria delle varietà apparenti, cioè di ogni possibile scenario concreto.   Infine, armato di questa doppia strumentazione epistemologica e ontologica, Staiti offre nel IV e ultimo capitolo una lettura squisitamente noetica del famoso Open Question Argument (OQA) di Moore, ovvero della ragione ultima per resistere alla naturalizzazione delle proprietà assiologiche. Riassumo informalmente: non è affatto l’idealità, cioè in definitiva il contenuto normativo della proprietà assiologica, a sfuggire alla sua definizione in termini di proprietà naturali, che lasciano sempre aperta la domanda decisiva (supponiamo che il bene sia il piacevole: ora questo caso di piacevolezza è anche cosa buona?). No: ma è, in definitiva, la sua vuotezza! E’ il fatto che ogni, come oggi diremmo, impegno assiologico (x è generoso, coraggioso, temperante) deve ancora ottenere un “riempimento intuitivo” adeguato, esemplare (“questa è quella che chiamiamo un’azione generosa!” – “questo è quello che chiamiamo un buon coltello!”) perché la proposizione assiologica in questione abbia anche solo la possibilità di essere vera. In altri termini, l’OQA misura semplicemente la differenza fra l’atto di comprensione “vuota” della qualità intesa, e l’atto (potremmo dire: l’incontro) che offre, in tutta la sua ricchezza descrittiva e tipizzabile, la cosa stessa come era intesa ancora non intuitivamente, non data in carne ed ossa, nella posizione assiologica.

  1. Analisi di temi per capitoli. A partire dalla conclusione, Capitolo IV

Cominciamo dalla fine, ma solo per dare la direzione della riflessione e poi affrontare nel merito una minuscola scelta degli argomenti di questo libro breve ma molto denso. Possiamo notare due cose: da un lato la sorprendente generalità della conclusione, che in definitiva sembra risultare valida per qualunque tipo di proposizione, ad esempio botanica o geometrica (pensate ai solidi platonici, e alla differenza fra saperne le definizioni e visualizzarli) o di teoria musicale o di tecnica alpinistica.  Ma questa generalità si ottiene al prezzo di dismettere come irrilevante l’angoscia quasi “munchiana” della Domanda Aperta di Moore, più formalmente quell’eccedenza dell’ideale sul reale – quel possibile sguardo su altri mondi che l’ideale, l’utopico, comportano;  insomma, quella loro possibile, caratteristica opposizione che i filosofi hanno sempre a loro modo concettualizzato, a partire dalla classica teoria di Platone del bene “al di là dell’essere”, epekeinas tes ousias. Quell’opposizione che ha in effetti del paradossale, perché è proprio l’esperienza di situazioni in cui non c’è giustizia, o in cui c’è positiva ingiustizia, che ci fa “vedere” cosa sia giustizia. C’è un sapore specifico dell’assiologico che si perde in questa conclusione.

  1. Sopravvenienza o fondazione. Capitolo III

Ma dall’altro lato possiamo apprezzare la coerenza e linearità dell’intero discorso, che riesce a sdrammatizzare l’opposizione fra due realismi, quello naturalistico e quello metafisico e dualistico dei non-naturalisti (Shafer Landau (2006), Enoch (2011), ma prima di loro Tommaso d’Aquino e il giusnaturalismo classico) “stemperandolo” prima nell’appello fenomenologico all’esperienza (Cap. II), che ci riporta a un confronto serrato proprio fra teorie della percezione (della natura dell’atto percettivo); e poi riassorbendo, per così dire, nella teoria degli atti perfino il problema della relazione fra proprietà reali o fattuali e proprietà assiologiche (Cap. III). Questo problema infatti, che i filosofi analitici nostri interlocutori risolvono in termini di sopravvenienza, viene affrontato da Staiti a partire dal “versante ‘soggettivo’ che ci è ormai familiare” (p. 100). In realtà, suggerisce Staiti, il mistero della sopravvenienza, o se preferite il dilemma della metaetica, si risolve a partire dalla teoria husserliana, tutta noetica, della fondazione degli atti non oggettivanti (emotivi e volitivi) sugli atti oggettivanti (percezioni e giudizi). E così anche la fondazione o non indipendenza, anzi proprio la fondazione unitaria o non indipendenza di ciascuna delle parti relativamente alle parti stesse e all’intero, questo potentissimo strumento analitico capace di descrivere con precisione estrema, come scrive Husserl, “ciò che tiene insieme tutte le cose […] i rapporti di fondazione”[3] (il dono dei vincoli, per così dire) – si riconduce a quel caso particolare che sarebbe la fondazione degli atti non oggettivanti sui quelli oggettivanti. Ma questo caso particolare, che governa la vita della coscienza, mi chiedo, è veramente più fondamentale delle fondazioni che scopriamo nelle cose stesse, nei fatti e nel loro rapporto coi valori? Non sarà anche qui, come dovunque in fenomenologia, la natura delle cose stesse a prescrivere il tipo di cognizione che le cose richiedono, e quindi a decidere anche della correttezza delle riflessioni noetiche? E perché mai, se no, aprire un capitolo nuovo e straordinario dell’ontologia formale fenomenologica, la teoria della varietà apparenti ovvero la mereologia (io la chiamo piuttosto olologia) husserliana? Intendiamoci, e Staiti lo sa bene, la teoria della ragione, cioè dei nessi motivazionali che legano gli atti, fa della fenomenologia della coscienza husserliana una teoria dell’esperienza sotto la “giurisdizione della ragione”, appunto, e non una semplice psicologia. Ma appunto: se questa teoria della ragione fosse sufficiente a descrivere con fedeltà lo specifico tipo di richieste poste ai soggetti dalla natura delle cose stesse (in quanto oggetti DATI nei modi in cui lo SONO, ovviamente), che bisogno ci sarebbe di una teoria della realtà oltre la teoria della ragione e prima di essa, di un’ontologia fenomenologica, formale e materiale o regionale? Quale sarebbe il senso di quel principio di priorità del dato sul costruito che è il motto stesso della fenomenologia, “alle cose stesse”?

Qui però la mia domanda è molto più specifica. L’assiologia non è una regione ontologica materiale a parte, e non potrebbe proprio! La circostanza che il valore né si riduce al fatto né sta in altri mondi che quello dei fatti, l’eccedenza e l’opposizione fra ideale e reale, stanno lì ad impedirlo: sono l’osso duro che resta inalterato e che nutre ancora il dilemma della sopravvenienza normativa (altrimenti ci potremmo comprare un qualunque neoplatonismo che riduce l’esse al bonum, o un qualunque spinozismo che riduce il bonum all’esse: gli errori “continentali” più frequenti).  L’osso duro che, io ne convengo pienamente, il fenomenologo proverà a sciogliere in termini “olologici” (io credo, e ho provato a mostrarlo altrove in diversi casi specifici[4], che i valori siano in definitiva qualità globali del secondo ordine, intuitivamente vincoli di variazioni di strutture (“essenze”) di concreta, strutture o essenze che sono a loro volta vincoli di variazione di contenuti dati). E tuttavia, la stessa assiologia formale – perché ad essa appartiene evidentemente la tesi sulla natura dei valori, che dovrebbe esserne la proposizione fondamentale – in tanto ha ragione di esistere, in quanto, appunto, formalizzazione di un’assiologia materiale. Ma la vera  questione è: cosa riusciamo a illuminare dell’esperienza dei valori, degli oggetti stessi o materie di questa esperienza, e soprattutto del pensiero che se ne nutre (dopotutto, il pensiero assiologico sta alla base delle strutture normative che sorreggono le civiltà umane) a partire soltanto dalle strutture formali della coscienza emotiva e volitiva? Forse non è un caso che la questione degli atti oggettivanti/non oggettivanti sia rimasta tanto più oscura di molte altre dottrine di Husserl, anche se Staiti offre un notevole contributo a dirimerla.

  1. Modi della presenza in carne ed ossa. Capitolo II

Questa considerazione, che come dicevamo riguarda il cap. III, mi permette di risalire al II con la domanda che ne è la prosecuzione. Siamo sicuri di poter rispondere adeguatamente alla teoria di Robert Audi della percezione morale, prima di aver presente l’intenzionalità specifica caratteristica degli atti di Wertnehmen, ovvero del sentire assiologico? E si può descrivere questa intenzionalità specifica senza indagare, da un lato, lo specifico oggetto intenzionale che questo sentire presenta, i beni e i mali, le cose stesse (oggetti fatti eventi situazioni etc. ) assiologicamente cariche; e dall’altro lato, però, la specifica posizionalità degli atti corrispondenti, la posizionalità assiologica? Questione tanto più cruciale in quanto il concetto di posizionalità gioca un ruolo decisivo nella conclusione di questo libro, cioè nella rilettura fenomenologica dell’intuizionismo di Moore, conclusione che io ho riassunto sopra (§2) in termini molto informali, precisamente perché non eravamo ancora entrati nel vivo della questione di cosa la posizionalità assiologica sia.

Mi spiego. Quello che colpisce nei testi di Audi è la completa assenza di contenuto, non-concettuale o concettuale, della qualità “morale” del percetto. Secondo Audi (2015) si può, letteralmente, “vedere l’ingiustizia” compiuta da qualcuno, nel senso che si vede l’oggetto o il fatto o l’evento con tutte le sue proprietà reali, fattuali:  in virtù delle quali il fatto costituisce un’ingiustizia, ad esempio un omicidio. Proprio come nel famoso esempio di Hume (1739)[5]: esaminate bene il fatto in questione, vi troverete la dinamica dell’azione, la forza e la direzione del movimento, i motivi e le passioni, ma non vi troverete alcuna proprietà o relazione corrispondente alla sua ingiustizia. Che differenza c’è allora fra Audi e Hume? Piuttosto dottrinale, direi: di dottrina che non modifica essenzialmente la visione, solo la reinterpreta. L’omicidio in questione un effetto me lo fa: un’impressione di unfittingness. Perché questo non è soltanto, come voleva Hume, uno stato soggettivo (eventualmente, intersoggettivo, una risposta socialmente appresa), privo di portata cognitiva sul mondo? Per la maggior complicazione della teoria della percezione di Audi, che prevede almeno tre componenti fra loro connesse: una componente “fenomenologica” (“l’effetto che fa”), una componente rappresentativa (la mappa mentale che corrisponde, ad esempio in termini di colori, forme, movimenti, all’evento fisico), e una componente causale (l’evento in questione che impatta sul sistema percettivo). A queste si aggiunge una ulteriore componente che è esperienziale o “fenomenologica” (quale, effetto-che-fa) ma non rappresentativa, ed ecco la nostra unfittingness. Ma questa aggiunta non basterebbe a rendere magicamente oggettiva e non soltanto soggettiva l’impressione, se non venisse in soccorso l’ausilio ontologico della sopravvenienza, per cui l’ingiustizia è “fondata” (grounded) o, in una versione precedente (Audi 1997) “ancorata” nelle proprietà reali dell’omicidio, e quindi infine inerisce al percetto – sia pure come uno stigma negativo, una bandiera non-verbale che dice “così non va”. Per rendersi conto dell’assenza di contenuto descrittivo, di “materia” della “percezione morale” di Audi, si può immaginare un caso di eutanasia che abbia le identiche qualità visibili di un accorto assassinio, e chiedersi come farebbe un’impressione assiologica tutta diversa ad “ancorarsi” in una scena percettiva identica. Eppure, del tutto a prescindere dal giudizio morale che l’osservatore finirà per darne, una qualità assiologica tutta diversa permea l’azione (diciamo ad esempio la pietà tragica che permea i gesti accorti dell’agente).  Generalizzando, si può parlare con Audi di “intuizione morale” quando l’impressione morale riguarda non questo fatto particolare ma, poniamo, l’omicidio in generale, che è sbagliato. Ma queste intuizioni appaiono altrettanto vuote di materia assiologica – altrettanto thin. Prive di componente assiologica descrittiva, ridotte alla componente formale normativa (giusto, sbagliato).

Ma a questa, in fondo assai mooriana, assenza di contenuto descrittivo delle proprietà assiologiche, Staiti ha qualcosa da obiettare, da fenomenologo? Posso sbagliarmi: ma mi pare di no. Qui la sua linea di difesa  “noetica” – che insiste su quale sia l’atto piuttosto che sulla sua materia – rischia, per aver troppo concesso a Robert Audi, di farci smarrire per via gli atti rilevanti: che non sono quelli della percezione sensoriale, ma sono quelli del sentire e degli approfondimenti riflessivi delle ricchissime qualità assiologiche delle cose (e delle relazioni fra qualità assiologiche), in tutto il loro spessore. La grazia di questo gesto, la gentilezza di questa persona, la crudeltà di questa azione, il nesso eidetico fra brutalità e violenza, ma non fra crudeltà e violenza. Se non la fraintendo, la strategia critica di Staiti è la seguente: 1. Contrapporre alla teoria della percezione di Audi quella fenomenologica (cioè una teoria non rappresentazionalista ma diretta, secondo cui percezione è presenza diretta dell’oggetto nel come, fallibile e sempre inadeguato o prospettico, del suo darsi); 2. Contrapporre alla teoria dell’intuizione morale di Audi quella fenomenologica dell’intuizione come riempimento di un’intenzione, fuor del gergo come verifica in modalità di presenza “in carne ed ossa” dell’oggetto di un giudizio (non necessariamente verbale o concettualmente articolato), cioè del positum di una posizione dossica.

  1. La questione della posizionalità

Ed eccoci alla famosa posizionalità. Io credo che poche nozioni siano importanti come questa in fenomenologia, perché è precisamente in sua assenza che la nozione non fenomenologica di intenzionalità si riduce a quella di aboutness. Uno stato mentale è intenzionale se è riferito a un oggetto. Punto. Ma se i fenomenologi preferiscono parlare di atti piuttosto che di stati, è precisamente perché “tutta la vita è prendere posizione”[6] : ogni stato intenzionale è un atto personale in quanto include una posizione, attraverso la quale soltanto rispondiamo al mondo, e rispondiamo sempre più o meno correttamente e adeguatamente a seconda che le posizioni siano corrette o no. Che siano dossiche (o di esistenza), come nelle esperienze e nei giudizi di fatto; che siano assiologiche (o di valenza), come nelle esperienze e nei giudizi di valore; che siano pratiche (o di endorsement), come nelle decisioni e nelle azioni. Che poi le posizioni e le loro modificazioni siano corrette o scorrette (e questa possibilità le pone tutte sotto la “giurisdizione della ragione”) dipende precisamente dalle cose stesse, che in tutte le loro dimensioni (di realtà, di valore, di praticabilità) sono fonti infinite di informazione, forniscono cioè contenuti o “materie” di indefinita ricchezza e “spessore”, mai esaurientemente note, sempre di nuovo da indagare. Ma se invece dovessimo ammettere, come Staiti suggerisce (pp. 87-89), che gli atti emotivi e quelli volitivi non hanno posizionalità propria, ma la loro “qualifica posizionale” è tratta da altri atti (i famosi atti “oggettivanti”), come potremmo, da fenomenologi, argomentare contro lo scetticismo non solo logico, ma anche assiologico e pratico? (E non c’è dubbio che fin dall’inizio della sua vita filosofica lo stesso Husserl abbia soprattutto avuto a cuore la questione dello scetticismo in tutte le sue forme, del confronto continuo con se stesso in cui essa pone il filosofo, e del modo in cui rispondervi sempre di nuovo). Come potremmo, dicevo, anche soltanto porre la questione della validità delle valutazioni e delle decisioni? Come potremmo cioè mostrare, non certo se una data valutazione è valida o no, che non spetta al filosofo, ma dove occorre continuare a “guardare”, come approfondire la cognizione e proseguire l’esperienza della cosa stessa, per vedere se lo è, infine, o no? Come può esserci una indefinita possibilità di approfondimento e ricerca anche nei campi d’esperienza assiologica (e pratica), se non ci sono posizioni originalmente assiologiche e pratiche, o almeno se anche i valori corrispondenti non sono dati “in carne e ossa”?

Io credo che sia questa la questione cruciale, dove un umanismo fenomenologico si distingue da uno semplicemente kantiano, oltre che, certamente, da un “naturalismo”, sia pure liberalizzato e quindi pericolosamente tendente a un grado zero di informazione, ontologica ed epistemologica (dato che esclude soltanto, come la filosofia ha sempre fatto dai tempi di Socrate, entità e fonti di conoscenza “soprannaturali”).

La questione è relativamente indipendente da quella del rapporto di fondazione fra atti, sulla quale ritorneremo. Possiamo riformularla così: da fenomenologi, possiamo essere “realisti” in materia di giudizi di valore come lo siamo in materia di giudizi di fatto? Intendo qui per “realismo” la tesi che la veridicità di un’esperienza e la verità di una proposizione non dipendono da norme in ultima analisi poste o costruite, ma da vincoli dati : dati tuttavia inesauribilmente, e in qualche modo anche imprevedibilmente, passibili di essere “scoperti” attraverso sempre nuova esperienza (e ricerca), nonostante la loro apriorità, eideticità, essenzialità (come ci sono e sempre ci saranno scoperte matematiche). L’apriorità dei vincoli eidetici non si oppone alla loro reperibilità “sperimentale” (semplicemente, non è per induzione empirica che li troviamo, come del resto non troviamo così le leggi gestaltiche dei percetti): e su questo non credo ci sia disaccordo rispetto a Staiti. Dove potrebbe esserci, invece, è proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali. Ma siccome l’etica è una disciplina dell’assiologia, il disaccordo riguarderebbe in definitiva quest’ultima. La questione sarebbe allora: ma c’è veramente posto, in questa garbata conciliazione di etica naturalistica (liberalizzata) e fenomenologia, per una adeguata descrizione  dell’esperienza quotidiana che noi facciamo di tutti i beni e i mali di ogni tipo e rango in cui siamo immersi, per una tematizzazione dei modi specifici della cognizione assiologica? (Un insieme di direzioni di ricerca che riguarda praticamente tutte le professioni, da quelle che riguardano la salute, l’abitazione, il benessere, a quelle che si prendono cura del funzionamento economico e civile delle società, a quelle che riguardano la sua struttura normativa politica, fino  alle professioni artistiche e scientifiche, e per chi vi si interessa, a quelle in vari modi intente ai valori del divino).

Mi sono lasciata prendere la mano. Non c’è peggior errore che quello di accusare un libro di non parlare di quello di cui non voleva parlare. E quindi, torno indietro. Questa apertura sugli orizzonti dell’assiologia materiale però non la cancello, perché offre a tutti e non soltanto agli specialisti di qualche testo sacro lo sfondo sul quale si staglia la mia tesi che l’etica presuppone essenzialmente l’assiologia materiale, e questa tesi è invece, mi pare, pertinente alla discussione di questo libro.

Concludiamo allora sulla questione della posizionalità e degli atti oggettivanti, prima di tentare una conclusione, per parte mia, di questa lettura e di questa discussione delle tesi di Andrea Staiti. La questione che sopra ho definito cruciale riguarda la conoscenza morale, specificamente. E’ la questione se l’esperienza morale che ne è alla base sia passibile di essere, da un lato, concettualizzata sempre meglio (con sempre maggiore precisione e finezza) e dall’altro sempre ulteriormente approfondita, in modo che la verifica e la correzione delle nostre posizioni possa far crescere, qui come in ogni altro campo, la conoscenza. Se ora, per scrupolo secondario (perché è la cosa stessa che conta, non i testi) apriamo il testo husserliano che Staiti cita più frequentemente dopo le Ricerche logiche, cioè le Lezioni di etica e teoria dei valori del 1908-14[7], andiamo a vedere che cosa si dice sulla questione della conoscenza morale, ci troviamo, senza stupore, che il solo “primato” della ragione logica[8] è nella circostanza che i contenuti assiologici e quelli pratici devono pur accedere al pensiero proposizionale (e dunque al linguaggio) per poter essere sottoposti al vaglio critico e alla verifica cognitiva, vale a dire per poter acquisire condizioni di verità[9]. E quindi, non è un caso che Husserl parli di “predicati logici” e non di “proprietà naturali”, come Staiti stesso ci fa notare (p. 91): per quanto ne sappiamo, infatti, qualunque questione, sia essa fattuale, assiologica o pratica, riceve condizioni di verità solo quando è articolata in una proposizione, e in questo senso, che non ha nulla a che fare con la questione della sopravvenienza normativa, non c’è dubbio che c’è un primato della “ragione logica”, vale a dire delle “posizioni dossiche”, necessarie a formulare tesi assiologiche (“Non c’è giustizia senza libertà”), e anche a mettere in questione la verità di giudizi di valore particolari (“Non è vero che Gianni è generoso”). In effetti è altrettanto evidente che il primato passa alle posizioni assiologiche e alla ragione pratica se ci chiediamo a cosa serva la logica (a ragionare bene, cioè con inferenze valide e sane) o perché mai dovremmo preferire la conoscenza del vero all’errore o all’ignoranza, o preferire un bene epistemico come una tesi ben fondata a un male epistemico come un’asserzione confusa e arbitraria: tanto è vero che nelle più mature lezioni di Introduzione all’etica del 1920-24[10] Husserl preferisce parlare dell’”intreccio” fra ragione logica e pratica.

  1. Essenze e sopravvenienze

Una piccola ma acuta conseguenza questa dissociazione del problema dell’accesso delle “materie” di qualunque atto al pensiero proposizionale e alla questione della verità dalla questione della relazione fra fatti e valori, o fra proprietà “reali” e proprietà assiologiche c’è: e riguarda precisamente quest’ultima questione. Staiti cita un testo dall’ultimo volume della Husserliana[11]:

“Un oggetto è ‘ciò che è’ anzitutto indipendentemente dall’esser  bello, buono ecc. Il predicato di valore presuppone un oggetto, un oggetto completo. (….) Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”.

Ebbene: veramente possiamo intendere questa tesi nel senso di una distinzione fra le proprietà “subvenienti” (non assiologiche) e  “sopravvenienti” (assiologiche)? Si noti: le prime corrisponderebbero alle proprietà “naturali” della metaetica, salvo godere (a differenza di queste) di un criterio per essere individuate come subvenienti, vale a dire che se immaginiamo di sopprimerle (o di variarle oltre certi limiti), viene soppressa l’unità oggettuale delle cose, “prive di valore ma pur sempre unitarie e perduranti secondo la loro essenza propria” (p. 91).

In effetti questo “criterio” ci dice con precisione che cos’è l’essenza di una cosa, il vincolo di covarianza violando il quale la cosa perde la sua identità specifica, cessa di essere una cosa di quel tipo: negli esempi offerti, la Nona Sinfonia di Beethoven cessa di essere l’oggetto che è se facciamo astrazione da proprietà temporali quali la durata, o il Davide di Donatello se facciamo astrazione dalle sue proprietà spaziali. Ma dovremmo davvero credere che perveniamo all’unità oggettuale della cosa soltanto se passiamo “dall’atteggiamento valutativo che caratterizza la vita quotidiana a un atteggiamento puramente teoretico e naturalistico (….), cioè l’atteggiamento delle scienze naturali, in cui si fa astrazione proprio dai predicati assiologici delle cose” (p. 91)? Se Staiti applicasse veramente il suo ottimo criterio, la risposta sarebbe certamente: no! La Nona Sinfonia cesserebbe di essere una sinfonia ben prima di cessare d’essere un oggetto temporalmente esteso (tale sarebbe anche lo sferragliare di un tram), appena si violassero vincoli ben più stringenti, come sono addirittura una struttura armonica, con tutte le relazioni tonali presupposte, uno svolgimento tematico, relazioni timbriche eccetera. Cesserebbe poi di essere la Nona di Beethoven anche solo toccando quella struttura armonica etc. (Cioè, come direbbe Husserl, variando anche una soltanto delle singolarità eidetiche che la caratterizzano come l’essenza individuale che è, anche prima di qualunque sua esecuzione o token concreto). E lo stesso avverrebbe con i gialli di Van Gogh o le morbidezze plastiche di Donatello.

Già qui risulta arduo individuare proprietà subvenienti separabili dalle qualità che all’intero (poniamo, a un movimento, a un tema, a un dipinto) sono conferite dalle posizioni tonali reciproche  delle parti (o dai contrasti cromatici degli elementi). Ma attenzione: questo vuol dire che queste qualità sono semplicemente parte dell’essenza. Dell’essenza specifica di una sinfonia e dell’essenza individuale della nona sinfonia. Sono i contenuti della sua concreta unità oggettuale, ne fanno la cosa che è.   Ora, queste qualità sono proprietà assiologiche. Dunque non è vero che l’unità oggettuale si preserva astraendo dalle proprietà assiologiche. Non è vero sul piano ontologico[12]. E non è vero su quello fenomenologico, o noematico e noetico: proprio non potrei distinguere una sinfonia dallo sferragliare di un tram se non udissi e sentissi, col flusso di suoni, il senso musicale che la composizione gli presta.

D’altra parte, il testo dell’ultimo volume della Husserliana citato sopra lo conferma (come fanno innumerevoli altri): “Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”. “Attraverso” qui è proprio la preposizione adatta a evocare la fondazione unitaria. Staiti, lo abbiamo visto nell’analisi del Cap. III, legge la fondazione unitaria come una specificazione della sopravvenienza. Ma se non giochiamo con le parole, non può allora al contempo comprare il tipo di taglio fra fatti e valori che la relazione, forte o debole, di sopravvenienza presuppone: per due ragioni.

La prima ragione è che questa relazione presuppone che le proprietà assiologiche non hanno materia o contenuto indagabile all’infinito, ma sono soltanto normative: tutto il “descrittivo” fa parte delle “proprietà naturali”. Staiti “compra” questa tesi (p. 113)[13], che in effetti fa parte dell’eredità mooriana dell’intera metaetica, nonostante i tentativi di metterla in questione, quali furono quelli di Iris Murdoch e di pochi altri. Se non fraintendo il suo testo, riportato in nota, finisce per condividere con Bernard Williams proprio l’idea che un concetto thick può essere analizzato in due componenti: quella “descrittiva”, che in effetti si riduce a un sottoinsieme di proprietà reali o naturali (quelle in virtù delle quali un’azione è crudele) e quella normativa, che aggiunge appunto un semplice operatore deontico, un “non dovrebbe”, o se vogliamo, una valutazione. E con questa osservazione ci avviamo alla sezione conclusiva di questa lettura, cioè all’esposizione della mia domanda fondamentale: si può far luce sull’esperienza assiologica senza respingere con decisione questa tesi, e senza accogliere la thickness, la ricchezza di contenuto o materia descrivibile in proposizioni vere (o false), come costitutiva di tutte le qualità di valore? Si può in fenomenologia proporre una metaetica senza basarsi su un’assiologia materiale?

La seconda ragione per respingere il tipo di dicotomia fra fatti e valori che la relazione di sopravvenienza, forte o debole, presuppone, è che l’unità oggettuale di ciascun bene è data precisamente dal tipo di valore che definisce quel tipo di bene. La stessa fondazione unitaria è assiologica, appare nel fenomeno come l’unità ideale dei suoi contenuti,  fra i quali ci sono certamente qualità assiologiche “subvenienti”, ogni volta che la cosa appartiene alla classe dei beni. Dei quali, come ben sappiamo, è popolato il mondo della vita, il mondo dell’atteggiamento naturale. Dove ci sono beni utili, che sono la gran maggioranza degli artefatti: come potremmo mai descrivere l’unità oggettuale di una sedia prescindendo dalla sua funzione, che è quella cui risponde la sua forma, che ne fa una cosa in un senso assai preciso utile? Certo, una sedia è una sedia prima di essere bella o brutta: ma questo è perché l’unità oggettuale che la costituisce sedia è la sua funzione o utilità, dopodiché potrà essere più o meno bella senza che il suo valore costitutivo ne sia affetto. Questo è ciò che succede ogni volta che ci troviamo di fronte a un bene. Un bene non è affatto semplicemente un oggetto naturale, che contingentemente riceve o acquista un valore. L’unità cosale di un bene è costituita dal valore o dal campo di valori che nel bene, parzialmente e più o meno perfettamente, si realizza. Nel mondo della vita ci sono ogni sorta di beni d’uso, beni artistici, beni (semplicemente) estetici come i paesaggi, beni come le istituzioni, eccetera[14].

Per concludere davvero su questo disaccordo parziale, va detta un’ultima cosa: includere componenti assiologiche nelle essenze non vuol dire affatto rinunciare alla distinzione fatti/valori, che ha certamente una sua legittimità di principio (p.92) – e su questo concordo pienamente. Vuol dire che la sua “origine fenomenologica” (p. 92) non è quella individuata da Staiti, e che in ultima analisi rinvierebbe alla distinzione fra atti oggettivanti e non oggettivanti. La sua origine fenomenologica è, io credo, l’opposizione fra l’ideale e il reale, quella – in un certo senso – che ci richiama l’angoscia del grido di Munch: e non ha veramente più a che fare né col naturalismo scientifico né col dualismo, né forse con un loro liberale incontro a metà strada. Perché, lungi dall’espungere la normatività dallo IS, il fenomenologo vi ingloba ogni sorta di OUGHT. Mi sia permessa, per rapidità, un’autocitazione:

“Le essenze o idee, dicevamo,  sono sempre portatrici di un elemento normativo. Poiché essere dato è essere strutturato, ecco la profusione di essenze, invarianti “eidetiche” che contraddistingue il mondo della vita secondo i fenomenologi, e anche implicite direttive di tutto il nostro percepire, sentire e fare. La sua infinita ricchezza racchiude ovunque ordine, significato, struttura, norme. Questo pensiero attraversa l’opera di Husserl dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee.”[15]

Così, un cane a tre zampe non è un buon esemplare della sua specie, e un coltello che non taglia neppure, come non è un buon guerriero un guerriero che non sia coraggioso, o un buon palo della banda uno che, come nella canzone di Jannacci, non ci vede un accidente. La salute ha la sua norma vitale, fondata in biologia, e uno Stato che non sia in grado di assicurare ai suoi cittadini almeno la pace civile ha perduto la sua ragion d’essere.

 E tuttavia, l’angoscia assiologica perdura: meno drammaticamente,  perdura l’opposizione fra il reale e l’ideale. Perché se in definitiva ogni cosa è un esemplare del suo eidos, o dell’unità ideale della sua specie (nel linguaggio delle Ricerche logiche), non ogni cosa ne è un buon esemplare. Quanti insegnanti abbiamo conosciuto che non sono proprio insegnanti ideali. E le repubbliche ideali abbiamo cominciato a studiarle da quando viviamo in quelle reali. Lo scarto fra essere e dover essere è tutto nella realtà com’è, che sia naturale o che sia artifattuale, istituzionale, sociale, personale – e la perfezione non è di questo mondo.

  1. Conclusioni sull’etica e l’assiologia

 Riprendo dunque la domanda che ho formulato all’inizio di questa analisi: la prospettiva noematica, o sulla natura dei valori, che ora forse risulta più chiaramente incentrata sull’assiologia materiale (che questa prospettiva richiede di sviluppare), è solo complementare rispetto alla prospettiva noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle sue fonti di evidenza, alle fonti della conoscenza (rigorosa) che il filosofo non rinuncia a cercare? Per le ragioni che nell’analisi ho cercato di evidenziare, propendo per la seconda. Ma ora debbo spiegare in che modo l’assunzione di questa prospettiva più fondamentale farebbe maggior luce anche sugli stessi problemi che Staiti affronta.

Il disaccordo, ipotizzavo nella sezione 6, potrebbe vertere proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali.

Cominciamo a levar di mezzo le questioni secondarie. Staiti cita fra le fonti storiche principali  della ricerca fenomenologica i volumi dell’edizione critica delle opere di Husserl espressamente dedicati all’Etica, che sono rimasti per molto tempo inediti e hanno cominciato ad essere pubblicati solo dalla metà degli anni Novanta (p. 36). E cita anche Max Scheler e il suo Formalismo, solo recentemente riscoperto e rivalutato[16]. C’è però una ragione di questo ritardo, che coinvolge un intero universo di ricerche di assiologia materiale di straordinaria portata e radicate precisamente in quell’angoscia munchiana per la pianta bifronte dell’arbitrarismo o antiumanesimo teoretico e pratico, logico ed etico, che sempre si riproduce nel confronto fra il filosofo e il sofista: un confronto che avviene ogni giorno nell’anima stessa del filosofo ed è tutt’altro che accademica. Ai tempi di Husserl e ancora per tre quarti di secolo dopo la sua morte vinse, nel mondo e nell’accademia “continentale”, il sofista. E furono praticamente dimenticati i nomi degli assiologi che dal ceppo fenomenologico fiorivano e fuggivano o morivano: Herbert Spiegelberg, Aurel Kolnai, Roman Ingarden, Dietrich von Hildebrand, Moritz Geiger e molti altri. Ora, non c’è dubbio che l’eredità di Scheler non si fa molto sentire in questo libro. Ma questo è infinitamente secondario, anzi il suo pregio è che semmai vi si facciano tanti altri nomi di interlocutori vivi oggi.

Andiamo al dunque, invece. Cosa sono i valori specificamente morali?  Io credo che abbia molto senso cercarli nel mondo, ma non certo indipendentemente dalla messa a fuoco, del tutto fenomenologica, dei portatori ultimi di questi valori, che sono in definitiva gli agenti personali, ossia le loro decisioni, azioni, comportamenti, e alla base motivazionale di questi, le loro esperienze. E’ così fastidiosa, in tutta la metaetica mooriana e post-mooriana, l’oscillazione perpetua e oscura  fra un discorso sulla natura dei valori e uno su quelli specificamente morali, che poi dà il nome alla disciplina, “metaetica”. Che cosa sono il bene e il male morali? La tradizione fenomenologica fornisce una risposta ovvia anche se illuminante: buone o cattive moralmente sono le azioni e i comportamenti, e dunque le situazioni e le realtà cui danno luogo, e dunque in ultima analisi le volontà esplicite o implicite che animano azioni e comportamenti. Ebbene, quando sono buone moralmente queste volontà? Evidentemente, quando realizzano in ogni data situazione, e in funzione delle date possibilità e capacità dell’agente, i valori relativamente superiori accessibili e non quelli relativamente inferiori, o addirittura i corrispettivi disvalori, ad esempio: a supporre che io sappia nuotare, diciamo che salvando la vita a un bambino ho preservato un bene (realizzato un valore) superiore a quello del mio comfort che avrei preservato evitando di buttarmi nell’acqua gelata. Ovviamente sia la vita del bambino sia il mio comfort sono beni o parti di beni, quindi hanno valori: ma non certo valori morali! La salute non è certamente un valore morale, ma è certamente immorale danneggiare quella altrui per i propri interessi, e così via. Una tesi fondamentale della metaetica fenomenologica dovrebbe dunque essere che il valore morale della volontà presuppone tutti i valori non morali delle cose del mondo (e, in effetti, le loro relazioni)[17], e in un senso preciso ne dipende. Se la tua vita non avesse alcun valore, che male sarebbe sopprimerla? Se nessuna cosa avesse valore, perché ci sarebbero norme sulla proprietà e che male sarebbe il furto?

Naturalmente, per quanto antikantiana sia questa tesi, c’è una cosa su cui Kant ha assolutamente ragione, ed è che la volontà non e buona o cattiva in ragione dei beni che realizza, ma dell’intenzione che la muove. Ma come può definirsi la bontà dell’intenzione se non in riferimento al valore cui mira? E perché il dovere mi obbliga, se non in quanto deriva dal valore? Dunque c’è un elemento fortemente cognitivo della bontà morale, perché le decisioni dipendono dalle valutazioni e quindi dall’adeguatezza del sentire: ma questa a sua volta dipende da quella disposizione libera, volontaria, che è la veglia del sentire, l’attenzione della mente e del cuore.  In ultima analisi, dunque, moralmente buona è la persona in quanto veglia, non solo in quanto decide e agisce. Di più: in quanto è disponibile alla verifica continua delle relazioni fra i puri contenuti assiologici, fra i valori, o piuttosto a rimettere in questione tutte le proprie certezze, a fare ogni volta nuove scoperte assiologiche.

Queste due tesi impattano su alcune tesi di fondo di questo bel libro che ho forse un po’ troppo appassionatamente voltato e rivoltato. Insieme esprimono il cognitivismo assiologico in generale, e il cognitivismo etico in particolare.

Vediamo prima l’impatto di quest’ultima tesi, che esprime il cognitivismo etico così profondamente caratteristico del fenomenologo. Staiti all’inizio del libro risponde validamente all’obiezione secondo cui “la natura descrittiva della fenomenologia le impedirebbe di occuparsi di fenomeni etici, in quanto prescrittivi”. Questa obiezione, risponde Staiti, è quanto meno fuorviante: “Sono proprio i fenomeni prescrittivi dell’etica a dover essere anzitutto descritti per scoprirne la configurazione essenziale e le condizioni di validità” (pp. 36-37). Un primo punto con il quale non si può che concordare. Staiti prosegue: “Vi è però un nucleo di verità nel riferimento alla natura descrittiva, anziché normativa, della fenomenologia: la prospettiva fenomenologica non intende proporre un’etica normativa autonoma, distinta dalle tre canoniche alternative di eudemonismo utilitarismo e deontologia” (37). Ancora d’accordo: ma qui bisogna intendersi sulla portata della tesi. Quella che le conferisce Staiti è modesta, indulgente e affabile: si tratterà soltanto di un lavoro di chiarificazione, “che riporti le nozioni cardine delle tre tradizioni etiche alle loro fonti esperienziali e provi a rettificare eventuali pretese eccessive avanzate da ciascuna di esse”. La portata che conferirei io a questa tesi è invece più ambiziosa, e quindi molto meno indulgente e affabile: a ciascuna delle tradizioni rimprovererebbe un vero e proprio fatale errore, precisamente radicato nell’ignorare le tesi fondamentali di un’etica materiale dei valori. Alla tradizione eudemonistica imputerebbe la confusione di valori e fini, che porta ad agire con in vista non il maggior bene che posso portare al mondo ma lo stato personale (sia esso il mio piacere o la mia perfezione), eticamente irrilevante (non è vero che la propria felicità sia il fine, né d’altronde men che meno la ricompensa, dell’agire moralmente buono, anche se è vero, probabilmente, che ne è una fonte, o forse che solo il felice è veramente buono). Alla tradizione consequenzialista imputerebbe, come farebbe un kantiano, la confusione di beni e valori in quanto inficia l’incondizionatezza delle ragioni morali; a un kantiano imputerebbe la confusione di valori e beni, cioè l’ascrizione di ogni contenuto o materia delle motivazioni alle realizzazioni finite, relative, contingenti e contendibili dei valori nei beni, cioè l’inconcepibilità di determinanti del volere morale che siano insieme materiali (contenutistiche, thick) e apriori. Altro che pretese eccessive: errori fondamentali. Ma a questa minore affabilità fa riscontro un terzo punto, rispetto alla questione normativo/descrittivo, che a mio parere dovrebbe far parte delle tesi fenomenologiche di metaetica, ma che non so se possa dato l’impianto del libro, essere con questo compatibile: la giustificazione di ogni norma rinvia a una cognizione descrittiva, lungo le due direttive del dover essere e del dover fare: cioè lungo quella dei valori di perfezione eidetica, menzionati sopra, e lungo quella dei valori pratici o d’azione (in particolare quelli morali, come le virtù) quindi delle relazioni assiologiche pure di volta in volta in gioco. I valori infine non sono che una sottoclasse di eide, quella sottoclasse costituita dalle qualità con valenza positiva o negativa. La ricchezza delle loro materie ci rende tutti principianti nei vari domini delle assiologie materiali, ancora di più che in quelli delle ontologie materiali.

Infine, resta da verificare l’impatto che la tesi più generale del cognitivismo assiologico ha su tesi proprie di questo libro. E forse, allora, è la sua conclusione stessa a venire in questione. Un testo famoso di Peter Geach[18]  offre a Staiti la base per questa conclusione, sull’interpretazione fenomenologica dell’Open Question Argument di Moore. Per Geach, “buono” e “cattivo” sono sempre aggettivi “attributivi” e non “predicativi” – dove con “attributivi” si intende che “buono” non predica una proprietà ulteriore di una cosa di tipo X che possiede già le proprietà EFG , ma serve precisamente ad attribuire a questa cosa le proprietà che lo costituiscono: un coltello è buono se la sua lama è tagliente, il suo manico solido etc., e ogni volta vediamo dal sostantivo che cosa costituisca la “bontà” attribuita alla cosa: un buon cavallo, un buon romanzo, un buon filosofo, una persona buona. Dal punto di vista di Geach, dunque, il carattere “speciale”, “non naturale” che un mooriano attribuirebbe all’idea del buono, è del tutto illusorio, e dipende dall’aver considerato “predicativo” un aggettivo “attributivo”. Ora, non è difficile per un fenomenologo riconoscere in EFG le qualità che fanno di un coltello, un cavallo, un filosofo, un buon esemplare del suo tipo: ma questo non ci basta affatto per negare che un buon X sia in effetti un X ideale, o come anche diciamo un X “esemplare”. E naturalmente  questo non toglie alcuna normatività alla qualità di “buon” X. Riferito a un coltello, l’aggettivo seleziona tutte le qualità funzionali che il coltello deve possedere per essere utile, riferito a un cavallo le qualità vitali,  lo slancio, il vigore, la potenza che distinguono un purosangue da un ronzino; riferito a un romanzo la capacità di avvincere senza banalità e tutte le altre qualità estetiche che distinguono un’opera narrativa degna del nome da un report sconclusionato di fatti casuali, e così via. Perché dunque Geach non si accorge che la sua distinzione fra “attributivo” e “predicativo” non confuta affatto l’Argomento della Domanda Aperta, il quale mostra pur sempre che non posso analizzare proprietà normative in termini di proprietà non normative? A mio avviso, perché non si avvede dell’errore più fatale di Moore, che sta purtroppo avvinghiato alla sua più geniale scoperta: perché è vero che le proprietà assiologiche non sono analizzabili in termini di proprietà non assiologiche, ma è falso che non siano analizzabili in assoluto. Lo sono inesauribilmente, in termini di altre proprietà assiologiche. Ne abbiamo appena dato una serie di esempi.

Questo errore fatale è a mio avviso quello che ha dato adito a tutte le “soluzioni” del dilemma della metaetica che tagliano il “descrittivo” dal “normativo” nel modo sbagliato, cioè – come suggerì Bernard Williams, analizzando i concetti assiologici “thick”, dotati di un ricco contenuto (come vigoroso o aggraziato, banale o impudente eccetera) in due parti: da una parte materia e contenuto, cioè il descrittivo, l’insieme delle proprietà “naturali”; e dall’altra un operatore normativo generico, vuoto, universale – in ultima analisi espressivo di una prescrizione sociale, di un comando soggettivo, di una convenzione, di una pressione culturale.

Ecco: l’assiologia materiale, si potrebbe dire, è nata precisamente contro questo tipo di errore, che ha precedenti in molte forme classiche di nominalismo assiologico. There is a matter of values, not just a matter of facts! Perché le qualità assiologiche dei beni esperibili, come la comodità di una sedia, la potenza di un cavallo o la bontà morale di un uomo, tutte senza eccezione, sono thick e non thin, ricche di contenuto. Concetti assiologici “sottili”, come “buono” (ma anche “bello”) sono proxy per designare tutte le varietà di qualità assiologiche positive, o la valenza positiva che le accomuna: gli aggettivi di una lingua umana non bastano neppur lontanamente a designarle tutte, e l’esperienza assiologica più comune è quella di una sorta di ineffabilità, sempre superabile ma mai del tutto. Utilizzando la distinzione di Geach  possiamo dunque dire che l’aggettivo “buono” nel significato “attributivo” che qualifica un certo tipo di bene è una variabile che varia sulle qualità assiologiche materiali positive dei buoni esemplari di quel tipo di bene.

Credo che Staiti possa aver in mente qualcosa di non dissimile quando usa la distinzione di Geach per arrivare a un’”interpretazione fenomenologica dell’argomento della domanda aperta” di Moore. Per farlo, la sviluppa nel senso che “è buono” sta alla posizionalità assiologica come “esiste” sta alla posizionalità dossica. Ossia, “è buono”, esprime la posizione assiologica, la risposta alla valenza positiva della cosa intesa o incontrata. E fin qui saremmo più che d’accordo. Ma qui salta fuori quella che a me pare un’incongruenza. Staiti compra di Geach proprio la parte dell’argomento che contesta a Moore l’idealità, la non-riducibilità in termini di proprietà naturali, non normative, dell’idea di buono. Per questo abbiamo detto sopra, nella sezione 2 commentando questa conclusione, che secondo Staiti non è affatto per la sua idealità o la sua eccedenza normativa,  che l’esplicazione del valore in termini di proprietà naturali lascia aperta la domanda (“ma è davvero buono”?), ma per la sua vuotezza. Vale a dire, ci sarebbe un’intrinseca mancanza di contenuto del positum assiologico (forse perché correlato di un atto non oggettivante?), per la quale “quando sostituiamo “buono” con un qualunque altro aggettivo (“piacevole”, “salutare” … ecc.) la nostra domanda non si riferisce più a un positum, ma torna a riferirsi a un oggetto ordinario” (140). Ma perché, la poltrona che mi appare buona, quella che ho davanti consentendo con delizia, o che sogno per quando sarò tornato a casa, non è, in questa terminologia, un positum ?  E che cosa posso intendere con la mia posizione assiologica, se non che la poltrona è comoda?  Come potrei mai assentire con delizia o aspirare alla mia buona poltrona, se non “intendessi” questa sua invitante affordance, la sua comodità? E quand’è che la poltrona diventa “un oggetto ordinario”? Quando, abbandonandomici, ne verifico la comodità? Se spiego a qualcuno che è una buona poltrona perché è comoda, non c’è alcuna eccedenza mooriana: la domanda “ma è davvero buona?”, non ha senso. Altra cosa sarebbe se spiego a qualcuno che è buona perché è fatta di lana, materassi, molle. Allora avrebbe senso chiedere: ma è davvero buona? E’ comoda?

Ma tant’è : abbiamo già visto (sez. 7, con riferimento a Staiti p. 113) che per Staiti la vuotezza di un aggettivo thin come “buono” non può essere semplicemente quella di una variabile su predicati thick, su qualità assiologiche materiali, come comodo. Che il primo non può che esprimere la vuotezza oggettuale di una posizione assiologica e il secondo la proprietà di un oggetto (ordinario). Non riesco ad accedere all’evidenza fenomenologica per questa tesi: ma se non la fraintendo, è un netto rifiuto del cognitivismo assiologico. E infatti ecco la conclusione: la costante “apertura” delle domande mooriane

“non deriva dalla supposta non-naturalità del bene, bensì dalla “natura” peculiare degli oggetti di cui esso si predica: posita e non oggetti ordinari”. (141)

Una conclusione che, mentre leva a Moore la sua sola unghia, la tesi che la normatività non è naturalizzabile, leva anche il bene e il male dal mondo degli oggetti ordinari.

Non mi resta che ringraziare Andrea Staiti per questo – lo ribadisco – bellissimo libro. Forse, leggendo queste note, penserà che esse lo rimproverino di non aver scritto un altro libro. Invece io l’ho trovato appassionante proprio perché è questo. Per avermi dato materia per questo confronto serrato, e la gioia per ciò che ho imparato leggendolo: perché se non sono riuscita a rendergli ragione, ho forse, con il suo aiuto, capito meglio quanto resta da fare, quanto da chiarire, perché la vocazione assiologica della fenomenologia riesca infine a esplicarsi nel mondo della vita, ma soprattutto nel mondo dei vivi oggi – che ne ha molto bisogno.

 

RIFERIMENTI

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[1] Di cui, infatti,  non sono la prima ad occuparmi: segnalo almeno le recensioni di Susi Ferrarello, e Bianca Bellini (2020). Anche per questo la mia lettura, più che una recensione, è una discussione approfondita, che prende questo libro molto sul serio come contributo a un campo di studi di enorme importanza, e che solo oggi rivede finalmente una ripresa da parte fenomenologica: questo può in parte giustificare, anche se non forse scusare, l’inusuale lunghezza di questa analisi, e la sua passione.

[2] Le principali fra queste sono esposte sinteticamente nel cap. VI di Towards a Phenomenological Axiology. Discovering What Matters, Palgrave, 2021, forthcoming, e in italiano nel cap. V di Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori, Torino: Einaudi, 2015.

[3] Husserl (1900-1901), 1964, 22 p. 69 (trad. lievemente modificata).

[4] De Monticelli (2020, 2018, 2016).

[5] Hume (1739), 1978, p. 335.

[6] Husserl (1911), 2005, p. 97. Per una discussione di questa tesi e del concetto di posizionalità, che vi è strettamente connesso, v. De Monticelli (2018), pp. 158-163. Da questo punto di vista, a me pare che l’assenza di menzione, da parte di Staiti, del nesso fra Stellungnehmen e Saetze lo privi di un’importante risorsa analitica. La posizionalità di un Satz corrisponde in effetti alla “forza assertoria” con cui è intrattenuto, in un giudizio, il contenuto proposizionale. Il positum di cui parla Staiti (129-137) è certamente “l’unità del senso e del carattere tetico” di cui parla Husserl in Ideen I, § 133. Tuttavia mi sembra che Staiti non faccia uso della potente generalizzazione che Husserl fa del “carattere tetico” (che è poi la “forza assertoria” di Frege, ciò che Austin svilupperà nella pragmatica degli atti illocutori) nel senso di uno Stellungnehmen o  impegno caratteristico di ogni sfera di atti, dove dobbiamo tenere la sfera degli atti emotivi, a differenza che in Brentano, distinta da quella degli atti conativi). Voglio dire che è un punto rilevante in tema di posizionalità assiologica!

[7] Husserl (1908-14), 2002, cit. da Staiti a p. 90.

[8] Ma sacrosanto, nella sua modestia! Pensate ai deliri, che si avvieranno presto a diventare criminali, di Heidegger con il suo “tanto peggio per la logica” dell’operatore di negazione che si perde nel vortice di un nulla più originario….

[9] “La ragione logica ha però questa straordinaria prerogativa: essa formula l’istanza di giudizio, determina la legittimità e predica le leggi della correttezza in quanto leggi non soltanto per ciò che comprende il proprio campo, ma anche per ciò che concerne il campo di ogni altro genere di intenzione, e dunque per ogni altra sfera della ragione. La ragione valutativa e quella pratica sono, per così dire, mute e in un certo senso cieche. Il vedere in senso stretto e in senso lato, e dunque anche il vedere nel senso del “cogliere con evidenza” è un atto dossico”. (…) Si deve dunque tenere alta la fiaccola della ragione logica, poiché solo così quanto di forme e norme è rimasto nascosto nella sfera emotiva e della volontà, può manifestarsi ora in piena luce. Gli atti logici sono tuttavia soltanto la luce che rende visibile unicamente ciò che vi è già” Husserl (1908-14), 2002, pp. 85-86.

[10] Husserl (1920-24), 2009. Per la tesi dell’”intreccio” v, De Monticelli (2018bis), pp. 123-127.

[11] Husserl (2020), Hua XLIII/3, Staiti p. 99.

[12] Si veda, per la migliore ontologia fenomenologica dell’opera musicale, il classico Ingarden (1955), 1989.

[13] Nella nota 1 all’ultimo capitolo, parlando della distinzione introdotta da Bernard Williams fra concetti etici “sottili” (thin) e “spessi” (thick), Staiti afferma di considerarla filosoficamente fuorviante, perché “La differenza, ad esempio, fra il concetto di bene e il concetto di crudeltà non è una differenza di grado o di spessore, bensì una differenza che rispecchia quella tra proprietà di oggetti ordinari (la crudeltà) e proprietà di Sätze, cioè di oggetti meramente intesi (il bene”

[14] La distinzione fra beni e valori e la teoria dei beni come unità assiologiche concrete costituisce il capitolo iniziale e fondamentale del Formalismo (Scheler 2013). Recentemente, Emanuele Caminada ha attirato l’attenzione su quel caso di fondazione unitaria di tipo assiologico che Scheler esprime con il participio “durchdrungen” (GW II, 44), “permeato”: come l’utilità che “permea” la sedia, legando tutti gli aspetti essenziali alla sua funzione, pur nel variare possibile di materiali, fogge, dimensioni, stili…. Caminada (2016), «omnes ens est aestimativum»: On Scheler’s Formal Axiology and Metaphysics presentato alla conferenza Feeling, Valuing, and Judging: Phenomenological Investigations in Axiology, St. John’s University, New York City 19-21 May 2016. Ringrazio Emanuele Caminada anche per avermi segnalato Caminada ( forthcoming, 2021) “Things, goods, and values”.

[15] De Monticelli (2018), p. 77.

[16] Lo cita, mi sia permesso di sottolinearlo, meritoriamente nella bellissima traduzione italiana (ma con testo a fronte) di Roberta Guccinelli, che ha portato un po’ di luce su un capolavoro ignorato anche per l’illeggibilità di precedenti traduzioni: Scheler 2013.

[17] Mi permetto di rinviare per questo all’ultimo capitolo di R. De Monticelli (2015).

[18] Geach (1956).

Robin D. Rollinger: Concept and Judgment in Brentano’s Logic Lectures: Analysis and Materials, Brill, 2020

Concept and Judgment in Brentano's Logic Lectures: Analysis and Materials Book Cover Concept and Judgment in Brentano's Logic Lectures: Analysis and Materials
Studien zur Österreichischen Philosophie, Volume: 48
Robin D. Rollinger
Brill | Rodopi
2020
Hardback €124.00 $149.00

Larry Davidson: Overcoming Psychologism: Husserl and the Transcendental Reform of Psychology, Springer, 2020

Overcoming Psychologism: Husserl and the Transcendental Reform of Psychology Book Cover Overcoming Psychologism: Husserl and the Transcendental Reform of Psychology
Larry Davidson
Springer
2020
Hardback 103,99 €
VIII, 318

Andrea Staiti: Etica Naturalistica e Fenomenologia

Etica naturalistica e fenomenologia Book Cover Etica naturalistica e fenomenologia
Percorsi
Andrea Staiti
Società editrice il Mulino
2020
Paperback € 16,00
160

Reviewed by: Susi Ferrarello (California State University)

Staiti’s book is a very engaging metaethical investigation of naturalism in ethics (7). Here, phenomenology serves a twofold purpose. As it is in the nature of phenomenology, in this book, too, phenomenology is used as a method and theory. On the one hand, phenomenology’s methodological approach can provide the right ‘atteggiamento’ (attitude, 30) for addressing problems proper to naturalism, such as nihilism and the relative limits of physicalism (20-25); on the other hand, phenomenological theory in axiology, specifically in relation to the notion of material a priori (38), offers ideas in support of a “liberal way” (29) of interpreting naturalism and handling some of the thorniest debates in metaethics. This is especially clear when Staiti discusses the problem of moral intuition and perception and the behavior of axiological properties in mereological foundations (8).

What does phenomenology have to gain from this interaction? Staiti’s answer is that metaethics can help phenomenology to position itself in the contemporary philosophical metaethical traditions (9). Since metaethical problems are very close to the issues tackled by the phenomenological tradition, the two can help each other in the most problematic areas.

The book is organized into four chapters. The first starts with a description of naturalism, in general, and ethical naturalism, in particular. Staiti describes two aspects of naturalism: ontological and methodological. Methodological naturalism is based on and limited by the natural sciences and the scientific community that gathers around them (16). In this form of naturalism, the philosophical discussion is based on the solid ground of what can be proven by science. In doing so, methodological naturalism does not leave much room to discuss what cannot yet be proven. This problem also occurs in ontological naturalism. Ontological naturalism, in fact, focuses on the description of concrete entities; what is labelled as spooky (17) exceeds this category. For this reason, Staiti seems to welcome De Caro’s proposal of a liberal naturalism (19-20), which connects philosophical rationality to empirical sciences in order to revise scientific positions that would oppose the experimental nature of science and philosophy (20).

In ethics, naturalism expresses itself in the forms of physicalism and realism. In ethical physicalism, what matters for the ethical discourse is what we can ‘tangibly’ see; hence, in the case of a nihilistic solution what matters is Nothing, or, in the case of psychologism and expressivism, what matters are feelings and emotions. A naturalistic approach to the good leads the investigator to take into consideration only what exists in reference to the world (22). This form of naturalism in ethics tends to reinforce a moral psychology that limits the investigation to what can be proven as true and good from the perspective of the Geisteswissenschaften (sciences of mind). The other declension of naturalism in ethics is realism, which considers axiological properties as real entities accessible to the philosophical investigation. Similarly to the liberal naturalism proposed above, Staiti points to a liberal form of naturalism in ethics that would avoid a nihilist solution to ethical problems. In fact, the liberal version of ethical naturalism supports “the existence of axiological properties as natural properties accessible in the same way as natural properties” (25). In order to access these properties, philosophy needs to adopt the right attitude which seems to be best provided by the phenomenological method (31).

As we know from Husserl’s essay Philosophy as a Rigorous Science (1910), phenomenology discusses naturalism in a new fashion. The essence of one’s experience of a natural phenomenon cannot be reduced to a mere aggregate of physical or psychical atoms (in the case of scientific or psychological naturalism). Having experience means to refer to something that constitutes the object of my experience in the world (34-35). The natural phenomenon can never be the summation of its parts, but instead is the intentional content of a given lived-experience that we can access and describe through the reflective analysis of the lived-experience itself. Similarly to liberal ethics, phenomenology shares the idea of being able to access the axiological properties of ethical experience as much as its perceptual properties (37) as the two are bound together by a mereological foundation in which the results of the natural givenness is not mere summation but the supervenience of the relationship between its elements. Speaking to this, Staiti gives the example of Husserl’s notion of material a priori as an a priori model for explaining how the material axiological aspects of the experience stand in relation to a specific region of reality and its logical properties. For example, pain is a disvalue, hence what we know as torture is wrong as it produces this specific disvalue consequence in this region of reality.

Continuing on this road, the second chapter of Staiti’s book shows how the phenomenological attitude can lend itself to the understanding of the mereological supervenience of axiological and logical properties. Focusing on moral intuition and perception, Staiti shows how the natural entity of the ontological and methodological approach used in naturalism is explained in phenomenology as the intentional fulfillment correlated to the intentional essence. Referencing Audi, Staiti explains in great clarity how in Husserl, differently from Audi, the perceptual awareness of the correspondence between reality and experience (49) tends to distinguish experience from one’s lived-experience as this latter involves a reflective quality proper to the intentional act that escapes the mere representationalist point of view. According to representationalism, in fact, the sensorial multitude on which the perceptive experience of something is based is lived but not experienced—hence it is for us a mental representation of the direct perceptive experience. For Husserl, instead, ”the intentional relationship establishes that an act of perceptual awareness refers to a perceived object and this relationship is a phenomenal [manifestativa] and not representational one” (52). The direct perceptual experience is a phenomenal manifestation, while one’s lived experience has a phenomenological reflective quality that is missing in the spontaneity of the natural attitude. The correctness of the description of the natural phenomenon in ethics, as the scientist experiences it in a natural spontaneous life, does not amount to the representations of that phenomenon but to the intuition of the axiological properties pertaining to that ethical phenomenon as they are perceived in that intentional act. “The simple perception—seeing a lemon—will evolve, most probably, in the predicative perception ‘seeing a yellow lemon’ because the lemon is yellow. If I were to always sell lemons, therefore continuously exposed to their brightness of that yellow, probably it would not be its yellow so immediately apparent, but another property, for example the opacity of its skin that reveals that the lemon has not been treated with chemicals” (56). Any perception of axiological properties is a thematization of the intentional relationship that connects the individual to a specific region of that lived experience.

In chapter three, Staiti explains how the concreteness of what is perceived can emerge as a content that is congruent to what is perceived and intuited in the lived-experience of the subject. In fact, Staiti remarks, “in phenomenology, intuition represents the apex of an experiential process, that is, the congruence between the sense as it is thought and the sense as it has been actually experienced” (63). How this congruence comes together in the intentional content is explained through the notion of supervenience or mereological foundation. In phenomenology, foundation (Fundierung) describes a mereological relationship of parts and whole (81) in which a complex experience and its object can be analyzed according to their mutual inferences. In the case of a naturalistic liberal ethics, we want to ask ourselves “what kind of objects are the objects qualified in an axiological manner? What’s their structure? What kind of experience is the one in which objects of this kind are intentionally meant? (81).

To describe how the concreteness of the intentional content is shaped in relation to axiological properties, Staiti uses emotional acts (Gemütsakte). These acts can be described as those acts with which we refer to objects whose axiological properties we can clearly perceive—Maria loves Giulio, for example. Giulio is the positive object of Maria’s emotional act. As with any other intentional act, emotional acts are also constituted of a form (Maria loves Giulio, i.e. subject + verb + object) and a matter (what is in the act of Maria loving Giulio). Any matter is generally qualified by a position-taking with which we can tell whether the subject refers to reality (Maria loves Giulio, her partner) or fantasy (Maria loves Giulio, her imaginary friend). The position taken in emotional acts – such as “I love,” “I respect,” “I value” – need to be completed by the emotion that qualifies that position-taking and the objectivating acts that make sense of their content-matter (87). Maria loves Giulio because she knows Giulio (epistemological, doxic, logic position) or at least she can bring his matter to the predicative form—Giulio. The position-taking proper to emotional acts needs a logical layer for the emotional content matter to be brought to the fore. If this layer is missing, what remains is a motivational necessity that moves Maria’s emotion of loving to connect with the object of her love but without being able to express it in words or being aware of it. Maria is attracted to this person. Axiological properties in general, like those that characterize emotional acts, need objectivating predicative acts to bring that motivating/-ed matter to the fore. The intentional essence of the emotional content needs to be meant in order to be epistemologically understood, yet their axiological quality can already be perceived in intuition (the essence of the beloved person as a positive value, for example). Axiological properties do not necessarily refer to the ‘real’ object (91); Giulio can be just Maria’s fantasy, or he might no longer be living, or he could be the character of her favorite play. Axiological properties relate to the content-object in the same way as logical properties do. Yet, while logical properties are necessary for the content to preserve its objectual unity (92), axiological properties do not seem to be essential to this unity; they come as a co-existent addition to that unity (Giulio, the person Maria has in mind, versus Giulio, the person Maria loves). In fact, even if I do not know whom I love, that person will continue to be, although my feelings in relation to that person and the values that I attribute to her will be perceived as disconnected moments that hinder the possibility of fully grasping the content of my intention. Parenthetically, I think that this magnitude of disruption is exactly what occurs in cases of borderline and bi-polar personalities where the inability to mean the axiological properties related to the intentional content of an emotional act has the power to disrupt the unity of the emotional content as much as logical properties do.

To come back to Staiti’s argument, the asymmetry between axiological and logical acts does not involve that axiological acts are not intentional. The necessity connecting the essential integrity of an object (constituted by the logical properties that make that object what it is) to its axiological properties is a motivational necessity. According to this motivational necessity, the object of my experience comes to acquire a value after I have grasped its nature (101); this understanding motivates me to feel and act in a certain way toward it. Axiological and logical properties refer to each other in a complementary way. This complementarity structures the way in which I see the object of my experience and determines the meanings and values that I am going to assign to that object. “The more easily I will understand the supervenient axiological properties of my object, the more familiar I am with the logical properties of the same object” (101). If I am not wrong in my understanding of Staiti’s argument, I think that his argument would flawlessly work in the example of the lemon vendor he mentioned above. The lemon seller will know more the value of what she is selling the more she knows about the product. Yet, once again, I think that this argument would be less effective when applied to emotions. Logical properties do not seem to be more essential than axiological ones in emotional acts. In fact, it might happen that the more I know someone the less I feel I can value her because her personality is puzzling to me or the less I feel that I know her because she keeps showing side of herself that are contradictory.

Yet, here Staiti raises an important point: there is a parallelism between axiology and logic, which he explains as a parallelism between the good and truth, that makes liberal naturalism in ethics possible. Using Husserl’s reference to this same parallelism, which in Husserliana XVIII and XXXVII focused, though, on ethics, axiology, and logic–respectively the good, value, and true—Staiti builds an interesting strategy for describing the concreteness of the good in ethics as a natural phenomenon. He writes that “the good is the axiological equivalent to the notion of existence in the logical-theoretical sphere” (115). Staiti proposes the parallelism between axiology and ethics as a stratagem for solving the problem of realism in ethics. While I believe that this stratagem is quite effective, I also think that a passage is missing here: the object of axiology, in fact, is a value and not the positive value—the good as Staiti seems to affirm. I think that the parallelism he proposes is not between axiology and logic but between ethics and logic which modifies, of course, the terms and results of Staiti’s argument. Moreover, he indicates that the logical equivalent of the good is the notion of existence, and not the expected notion of truth. Although unexpected, I agree with Staiti’s explanation of Husserl’s argument. The truth is in continuity with the notion of existence, that is a property of Sätze (115) propositions. What exists is what is posited (gesetzt), that is, the objectual correlate of what has been posited in a categorical act (114).

In the last chapter, Staiti applies this parallelism as a convincing stratagem for tackling G. E. Moore’s Open Question Argument (1903). Moore’s Open Question Argument relates to the impossibility of defining good (1903, 50). If ethics cannot find a convincing definition of good, no analytic proposition around the good holds, accordingly all the propositions used to describe the good must be all synthetic ones. “Interrogating whether something is good, equates to ask oneself if pleasure is pleasant” (1903, 64). “Moore shows that the notion of good is irreplaceable when it appears together with complex proposition, otherwise their meaning would change” (122).

Yet, if we look at this problem from a phenomenological perspective and ask ourselves “what does the question ‘x is good’ truly ask?” we will see how what we want to know is the concretum of goodness as it belongs to that specific intentional act correlated to that specific ontological region. The question addresses the kind of properties and objects with which the notion of good is in a mereological foundation. Since the good correlates with its logical properties in an essential way and since the logical properties are what is posed, then the good is the mereological foundation of those parallel properties. We know how to answer the Open Question in relation to the good without leaving x as an incognitum. The good is that Satz (proposition) which receives a cognitive fulfillment qualified by axiological properties related to a specific ontological region existing in one’s experience of a given space and moment in time. Differently from Geach’s argument toward Moore (1956, 33), Staiti is not saying that the good is an attribute of being because there is a mereological relationship between logic and axiology, the posited and the good. While an attribute can be removed or changed without altering the essence of the object, in this mereological relationship the good and the posited are interwoven with each other via a motivational necessity; changing any of these terms will change the nature of the phenomenon itself.

I think that Staiti succeeds in his goal of showing the mutual enrichment deriving from applying phenomenology in metaethics. The argument presented in this concluding chapter is a tangible proof of it.

References

De Caro, M. 2016. “Natura e Naturalismi.” Hermeneutica, 16: 9-24.

Geach, P. 1956. “Good and Evil.” Analysis, 17: 33–42.

Husserl, E. 1988. Vorlesungen ueber Ethik und Wertlehre. Dordrecht: Kluwer. (Hua, XXVIII).

Husserl, E. 2004. Einleitung in die Ethik. Dordrecht: Kluwer. (Hua, XXXVII).

Husserl, E. 1965. “Philosophy as Rigorous Science,” trans. in Q. Lauer (Ed.), Phenomenology and the Crisis of Philosophy. New York: Harper.

Moore, G. E. 1903. Principia Ethica. Cambridge: Cambridge University Press.

 

Wayne Waxman: A Guide to Kant’s Psychologism – via Locke, Berkeley, Hume, and Wittgenstein

A Guide to Kant’s Psychologism via Locke, Berkeley, Hume, and Wittgenstein Book Cover A Guide to Kant’s Psychologism via Locke, Berkeley, Hume, and Wittgenstein
Routledge Studies in Eighteenth-Century Philosophy
Wayne Waxman
Routledge
2019
Hardback £96.00
340

Reviewed by: Alma Buholzer (University College Dublin)

A Guide to Kant’s Psychologism (2019) is presented as a more accessible and to-the-point delivery of the interpretive theses Waxman lays out in Kant’s Model of the Mind (1991), Kant and the Empiricists: Understanding Understanding (2005), and Kant’s Anatomy of the Intelligent Mind (2014). This comparatively compact 351-page book promises a unique angle on Kant’s theoretical philosophy for a range of philosophical and scientific audiences. The work is original both in its iconoclastic style and its thesis, which defends Kant’s ‘psychologism’ and interprets the titular empiricist philosophers as precursors thereof. Kant’s account of objective representation in terms of the interrelations between sensation, pure intuition, logic and concepts is argued to be firmly rooted in problems brought into the spotlight by the empiricists, such as animal consciousness and multimodal sensory perception. The book thus combines a historical sensitivity to the genealogy of Kant’s philosophy with the systematic ambition of a new interpretation, not merely of one isolated aspect of Kantian theory of mind but of the way its various doctrines fit together, from pure intuition to apperception to judgment.

The book is organized into two parts. After an introductory chapter preparing the reader for a radical departure from what Waxman presents as an anti-psychologistic consensus in Kant interpretation, Chapters 2-4 chronologically introduce key thinkers from the empiricist tradition and their contributions to the book’s central concept of psychologism. In chapter 5, Waxman uses Wittgenstein to illustrate Hume’s conventionalism, which in Waxman’s view Kant targets no less than rationalist platonism. Chapters 6-10 guide the reader through Kant’s theoretical philosophy. The sequence of chapters, “The Kantian Cogito” (6), “The Logical I” (7), “The Aesthetic I” (8), “The Objective I” (9), and “The I of Nature” (10) is prescribed less by the text of the Critique of Pure Reason than by the conceptual layers of Waxman’s reconstruction. While regularly referring Kant’s insights back to their empiricist lineage, the progression from the ‘I think’ to the objectivity of physical nature also points to Cartesian and Leibnizian influences in Kant’s treatment of logical universality. The chapters on Kant additionally argue that the doctrines of pure intuition and logical form, interpreted as elements of an ‘a priori psychologism’, can accommodate post-Kantian scientific developments in logic, geometry, mathematics and physics. The concluding chapter assesses platonism and conventionalism as the only possible routes of refutation of Kant’s psychologism, as well as indicating how Waxman’s interpretation may be illuminating for contemporary study of the mind.

One of the most original features of the book is that it makes the compatibility of Kantian doctrines with subsequent scientific advances a matter of first importance: “naturalistic theories like Kant’s and those developed by his British empiricist forebears were intentionally crafted to leave open a place for future science on which philosophy can never impinge” (12). The scope of the book is not only to radically overhaul received opinion on Kant’s methodology, and the relation of his ideas to the sciences, but to defend a biologically plausible version of Kant’s account of logical form. In the remainder of this review I will address in turn: (1) Waxman’s definition of ‘psychologism’ and how his use of this concept situates him with regard to other interpreters; (2) his reading of Kant, with a focus on the logical forms of judgment according to the psychologistic approach; and (3) some questions emerging at the interface of Waxman’s naturalistic reading of Kant and the sciences, especially neuroscience and evolutionary biology.

(1)

Waxman stresses that Kant’s ability to resolve skepticism about the objective purport of (some of) our representations is rooted in his radicalization of the British empiricists’ methods to accommodate logical universality, modality, and relational concepts. Thus, the book’s overarching thesis about the relationship between its titular figures is that Kant continues what Locke, Berkeley and Hume started, expressed as their common adherence to psychologism. Waxman has in mind a quite specific interpretation of this term:

[T]he task of psychologism is to explicate meanings, with special emphasis on identifying psychological ingredients essential to notions that, in language, are free of any tincture of psychological content. There can therefore be no expectation that the psychological contents adduced as essential to the meaning of familiar notions will themselves be familiar. (147)

Waxman’s compelling take on the psychologistic philosopher’s undermining of rationalist metaphysics is thus that psychologistic elucidation makes us distrust the appearances of the natural language of metaphysics, thereby overturning realist intuitions that the qualities we discern in appearances are properties of mind-independent objects (33f). Psychologism in this sense, Waxman is clear, is not to be confused with the fallacy of explicating the non-psychological psychologically (305). According to Waxman’s use of the term, psychologism means giving contents which are in fact psychological their due explication in terms of mental representations. Kant’s account of how we are capable of “cognitive representation of sense-divide transcending external objects” (264) equips empirical psychologism with the resources to explicate the objectivity and logical universality of our representations, where this is possible. Hence, “any representational content that neither empirical psychologism nor conventionalism can explicate, a priori psychologism can, and what the latter cannot explicate, nothing can” (147).

Waxman introduces his interpretation as a novel defence of Kant’s theoretical philosophy which rejects two pervasive trends in its reception: an anti-psychologistic consensus, and a more general obsolescence consensus that due to revolutions in logic, geometry, and physics, Kant’s philosophy is “a once formidable structure long since reduced to ruin, fit only for piecemeal salvage” (24ff). The latter engenders attempts to clear the respectable theory behind Kant’s project of its psychologistic methods, resulting in a range of approaches to ‘updating Kant’ e.g. by explaining conscious representation using anything from post-Fregean mathematical logic to Chomskyian linguistics, or Roger Penrose’s quantum theory of consciousness (15). Against these kinds of salvage attempts, Waxman argues that a properly psychologistic account of Kant’s theory of objective representation reveals its compatibility with subsequent developments in logic, geometry, physics, as well as neuroscience and evolutionary biology.

Kant scholars may suspect that the anti-psychologistic consensus is by no means universal: for instance, Andrew Brook’s Kant and the Mind (1994), and Patricia Kitcher’s Kant’s Transcendental Psychology (1990) (see also Falkenstein and Easton 1997) make similar critical points about the anachronism of understanding Kantian theory of cognition ‘anti-psychologistically’. For example, “Kant clearly held that his ‘logic’ of the mind is part of what we would now call psychology” (Brook 1994, 6). Waxman takes note of these authors in a footnote, nonetheless signalling his substantive interpretive differences from Kitcher and Brook as well as Lorne Falkenstein and Scott Edgar. The problem, Waxman explains, is that these authors refer to ‘psychology’, which is concerned with “whether and how a representation comes to be in us (empirically, innately, etc.)” rather than ‘psychologism’, which is concerned with “how the representation itself comes to be” (17n). This distinction, in my view, is not as straightforward as Waxman needs it to be in order to distance himself from other interpreters as far as he claims to.

Waxman himself says in the aforementioned footnote that he agrees with Beatrice Longuenesse’s (1998) work on Kant in its essentials, despite her not using the term psychologism (16). This fosters doubts about exactly what defines Waxman’s psychologism as an interpretive approach. If we stipulate that an anti-psychologistic reading foregoes any reference to mental activity in explicating the meanings of objective representations, psychologistic approaches still come in stronger and weaker flavours, which come down to how the genesis of “the representation itself” is construed.

If ‘psychological’ is interpreted weakly, any view that endorses Kant’s references to mental activities such as synthesis and apperception as non-negotiable parts of the story about objective representation, not wholly translatable into an analytic argument, is “identifying psychological ingredients” (147) in discourse which does not overtly suggest them. I believe most interpreters today would uphold this kind of psychological account. Any particular view on what informs Kant’s psychology need not be empiricist in orientation, as one may instead emphasize the scholastic heritage of Kant’s references to mental acts (e.g. Sellars 1967). On stronger versions, e.g. Kitcher (1990), Kant’s ‘psychologism’ qua account of the genesis of objective representations is a ‘proto-cognitivist’ theory which can be re-formulated in light of contemporary experimental methods and results. Waxman’s qualifies as a weakly psychologistic interpretation, in my view, since nowhere in the book does ‘psychologism’ imply ‘experimental psychology’. In the first chapter and the conclusion, Waxman seems to reject mainly Neo-Kantian attempts to place Kant in the service of twentieth century analytic semantics, philosophy of mind and epistemology—explicitly confronting Strawson (1966) in the conclusion (306), but probably also thinking of authors such as Evans (1982) McDowell (1994), and Cassam (1997). However, they present their work as critical reconstructions and selective adaptations of Kantian ideas. Given that Waxman accuses Strawson’s interpretation of Kant of reverting to a kind of platonism, it would have been interesting to hear more about where Waxman agrees and disagrees with existing criticisms of these Neo-Kantian projects, including McDowell’s (1994) ‘naturalized platonism’.

Let us consider the specifics of Waxman’s use of the term ‘psychologism’. Psychologism is presented as a mode of conceptual explication concerned with the psychological content of the meanings of traditionally metaphysical notions, rather than the psychological mechanisms underlying conceptual meanings. Consciousness turns out to be the key ‘psychological ingredient’ reference to which constitutes a psychologistic account. Waxman stresses that all representation requires some degree of consciousness, but that for Kant and his predecessors consciousness is graded from ‘dark’ to ‘bright’ to ‘clear’ (41) and is hence ubiquitous, reaching down to the sensory representations of basic organisms such as molluscs. Another notable feature of Waxman’s psychologism is its gloss on the normative dimension of Kant’s inquiry into our transcendental justification for applying concepts:

instead of proceeding by defining notions in terms of other notions without regard to whether there is, or even can be, any corresponding conscious representation, psychologism [has] the express aim of seeking out such representations. If the search reveals that a notion owes none of the contents indispensable to its meaning to consciousness, then its scope of application is nowhere limited by it (10).

Conversely, if the notion “can be shown to be beholden to consciousness for any of the ingredients essential to its meaning—ingredients at least implicit, but often explicit, in definitions—then its scope of application is limited accordingly” (10).

In general, the distinctiveness of Waxman’s approach lies in his wholesale engagement with Kant’s more unwieldy terms and concepts, and readiness to endorse Kant’s claims as literally about psychological reality—rather than about concepts, the brain/organism, or the objective world. Despite his psychologistic approach having a foot in psychology and a foot in explication, Waxman is content neither with purely conceptual or exegetical arguments, nor ‘proto-cognitivist’ claims that Kant anticipated cognitive science on this or that front. But he ultimately agrees with many other interpreters that any staunchly ‘anti-psychologistic’ reading is a non-starter, as well as joining Kitcher (1990) and Brook (1994) in thinking that a naturalistic perspective on Kant may be able to contribute to contemporary (experimental) psychology and theory of mind.

(2)

I now turn to Waxman’s reading of Kant and his empiricist forerunners. Chapter 2 argues that Locke sets the stage for the psychologistic approach by conceiving consciousness on a scale starting with primitive animals: “Since in the entire absence of sensation no consciousness of any kind seems possible … its terrestrial advent would presumably have coincided with the appearance of the first sensation” (54). In Chapter 3, Berkeley is credited with “extending imagination into the cognitive sphere, thereby for the first time crossing the line separating reality from fiction (where Hume and Kant would follow). This is because the ability to represent space as transcending the divide between sight and touch is indispensable to all cognition of the physical” (85). For Kant, this consideration leads to the thesis that there is nothing in sensation (visual or tactual) that is intrinsically spatial, so the representation of space must be constructed in pure intuition (201). Chapter 4 links the foregoing to Hume’s well-known skeptical challenges to relational concepts:

By shifting the basis of belief in relations from objective experience to subjective feeling, Hume moved the topic from epistemology to psychology where, instead of needing to be justified by evidence and to follow as a conclusion from premises, belief is determined purely affectively, by association-constituting feeling, and nothing else (96).

For Waxman, Hume was the first to psychologistically attribute fully general concepts such as the uniformity of nature and the general causal maxim to humans and non-human animals alike (114). Waxman illustrates the theoretical development from associationism to Kantian a priori psychologism in terms of a speculative evolutionary development from a creature

capable of the kind of highly sophisticated, behaviourally efficacious conscious mentation that Berkeley and Hume devised their associationist psychology to explain. Thanks to some fortuitous mutation or other alteration in its genome, its progeny included creatures capable of the representation ‘I think.’ Having no evident selective advantage by itself, this neural capacity presumably could have established itself in the population only as a spandrel piggy-backing on some genetically connected trait that earned its evolutionary keep. (177)

Eventually enabling complex propositions and inferences, Waxman contends, the ‘I-think’ representation would have enabled behaviours with adaptive value. This evolutionary story complements Waxman’s interpretation of Kant’s logical forms of judgment as more basic than language and indeed making language possible:

The ability of linguistic propositions to blend with non-linguistic is, in its way, no less amazing than the mathematizability of nature. But isn’t this exactly what we should expect if language was originally crafted by creatures already fully conversant in the use of non-linguistic propositional representation, transcendental judgments included? (315).

The chapters of Part II centre around Kant’s psychologization of logic in relation to sensory and propositional representation. Waxman details how Kant adapts from Descartes the contentless representation ‘I think’, which “in and of itself, has no content [and hence] cannot be suspected of having borrowed any, whether from language or anywhere else” (158). Being non-linguistic, it is not attributable to convention and thus provides a purely psychological basis for logical generality that synthetically unifies all possible representable contents (174). According to this notion of pure apperception, Waxman argues that Kantian logic is based in a universal self-consciousness which includes “the totality of logical structures universals enable us to form—propositions, inferences, narratives, et al.” (149). Unfortunately, Waxman doesn’t elaborate on whether self-consciousness is for Kant always a form of ‘bright consciousness’, or could exist in ‘darker’ shades as he argues it does for Hume (120).

Kant brings what Waxman calls “intelligence”—which amounts to consciousness of universality and modality—to Humean representations of general relational concepts which lack any awareness of the “logical universe of possible representations” (171). Kantian concepts “enable us to consciously represent each and every associative combination as a grouping of denizens of the logical universe that are thereafter sortable not only by their sensible/imaginable properties but by their logical ones as well” (171). According to Waxman, Kant’s logical forms of judgment are what “make any ‘I think’-generated concept combinable with any other such concept in a single act of thought, or propositional representation” (167). Conceptual representation is thus explicated as the gradual elimination of degrees of “logical freedom” (150) by restricting the space of logical possibilities to what is representable given the content supplied by sensation and association.

According to Kant’s psychologization of logic, fixing the position of a term as subject or as predicate in a categorical judgment is a psychological act starting with the bifurcation of the logical universe (170). However, such a “logical form by itself cannot guarantee that a proposition will result. In particular, even if a would-be proposition is logically well formed, it would still fail to be a genuine proposition if, for other than strictly formal logical reasons, it cannot be thought without generating not just falsehood but one or another species of impossibility, e.g. … ‘water is not always H2O’” (175). For Waxman’s Kant, categorical form permits the unification of concepts in a single consciousness, but it does not allow a unified representation of the resulting propositions (175). In addition to the assertoric modality, then, we need Kant’s problematic modality, which asserts merely the relation between two propositions, suspending judgment on the propositions themselves. The logical form this assumes in us, hypothetical judgment, relates problematic propositions as ground to consequent in the assertoric modality. Together, hypothetical and categorical forms enable any combination of the totality of possible propositions to be unified in a single conscious act (175f).

Waxman mobilizes this account to show that Kant (1) does not restrict intelligence to language-using organisms, nor (2) does he impose our parochial linguistic structures on his model of the basic “building blocks of propositional thought” (22). Waxman takes his elucidation of Kant’s transcendental logic to counter both misconceptions:

Intelligence can be accorded to any creature, actual or possible, that is capable of pure apperception … even including beings so asocial as to be devoid of anything remotely analogous to language or socially grounded symbolic communication of any kind. This is not to deny that Kant regarded all non-human animals known to him as incapable of apperception and therefore unintelligent. (172)

But, Waxman adds, “that does not mean he would have persisted in that view had he known what we know today” (172). This is an interesting speculation, implying that animals have some form of awareness of universality and modality—not in Hume’s sense, but in Waxman’s more demanding Kantian sense of apperception—“an a priori logical universe that quite literally encompasses all possible conscious representations” (169). I fully agree that Kant’s logic is non-linguistic, but I want to know more exactly how Waxman understands our present knowledge of animal intelligence such that it could make Kant change his mind on this controversial topic.

Waxman regularly refers to his lengthier engagements with Kant’s first Critique in footnotes. These references will be necessary for scholars seeking to determine Waxman’s position on exegetical debates. Part II succeeds in presenting Kant’s account of logical forms and concepts as centrally relying on consciousness, and hence psychologistic, while emphasizing that propositional representation need not be construed as an evolutionary leap separating humans from other animals. The combination of these theses makes for an original, stimulating addition to works on Kant’s first Critique.

(3)

I now have some remarks on the book’s intriguing but somewhat ambivalent references to the sciences. Waxman’s general stance that the insights of Kantian psychologism extend beyond their own scientific and philosophical context is very ambitious, and I’m not sure his case is equally strong for each of the sciences he addresses. Waxman makes a convincing case that non-Euclidean geometries cannot falsify any of Kant’s statements about pure intuition, as the latter pertain to the necessary features of any representation of space, rather than any particular geometry:

the formal intuition of space is not only neither Euclidean nor non-Euclidean but completely indeterminate as regards number, limit, distance, metric, part-whole relationships, and everything else that makes space suitable for properly mathematical representation or objective representation of any kind (208-9).

When it comes to the life sciences, however, Waxman’s perspective is (perhaps inevitably) more in tension with the scientific context Kant was writing in.

Waxman is clearly not neutral on matters of philosophy of consciousness, stating at the outset that consciousness is for his purposes identical in existence to its neural correlates (13-14), but that there is nonetheless a distinct psychological reality (14, 57, 159, 162, 177f). As this commitment is not compared to any alternatives, I am curious as to why he has opted for this particular form of identity theory to defend the biological plausibility of Kant’s psychologism, rather than functionalism or some form of emergentism. Polák and Marvan (2018), for example, defend the view preferred by Waxman that neural correlates are not in a causal relation to conscious states but an identity relation—a position which philosophers of mind might like to see defended more explicitly in connection with Kant’s views. Also, they may ask whether there is a specifically Kantian motivation for understanding the “mystery of consciousness” as Waxman does, that is, “a purely physical existence that is at the same time irreducible to physical reality” (14). Waxman clearly wants a naturalistic position to complement his psychologistic interpretation, but he also does not want to impose too much recent theory on the historical theories. Given this concern, psychophysical parallelism—an early form of identity theory espoused in different (including Neo-Kantian) versions by German philosophers from Fechner to Feigl via Riehl and Schlick—could illuminate Kantian psychologism from this side of Darwin and experimental psychology (see Heidelberger 2004, Ch. 5). Of course, it would be possible for most Kant scholars to profess neutrality with respect to these debates, but Waxman has—to his credit—set different standards.

Waxman’s decision to adhere to Kant’s original terminology and to steer clear of issues of translation in one sense makes the book smoother. The book conveniently contains a glossary, and tailor-made terms such as ‘AUA [analytic unity of apperception] concepts’, and ‘dark consciousness’ helpfully remind us that a term is not being used in its familiar sense. Waxman’s capacious use of ‘consciousness’ clearly works in his favour insofar as Modern and Kantian philosophy become much more relatable simply by lowering the threshold (as we understand it) on what sensory and cognitive states count as conscious. Yet it would have helped for Waxman to illustrate the general features of (what Descartes, Locke and Kant viewed as) ‘dark consciousness’ in more descriptive neural or psychophysical terms—not simply because readers may have difficulty forgetting the current meanings of such terms and the controversies attached to them, but because it would improve the book’s case for making psychologism compatible with contemporary biology.

One of the book’s most interesting features is its rapprochement between Kant and Darwin. Frequent references to phylogeny and the evolutionary plausibility of psychologism (as contrasted with platonism and conventionalism) evidence Waxman’s eagerness to integrate Kant’s insights into a post-Darwinian landscape, which I take to be a very important, relatively neglected project:

[N]ot only is Kant’s psychologism consistent with evolution, it actually spotlights suitably primitive forms of empirical consciousness that would gain adaptational advantages from a priori consciousness. Most basically, formal intuitions can easily be conceived to be of use to minds grappling with the challenge of combining external sensations into a single, unified external sense capable of providing immediate access to sense-divide transcending objects. (306)

This illumination does not go both ways, however, since Waxman also says that transcendental consciousness is entirely outside the scope of scientific explanation (295)—“because the subjectivity constituted by apperception … becomes part of the explanation of the physical, it cannot itself be explained physically on pain of circularity” (23). This claim recalls circularity charges against naturalized epistemology and logic, which in my view can be convincingly refuted by pragmatic and holistic considerations. It also blatantly contradicts the book’s initial claim that “[t]he mental is causally and in every other way fully determined by its physical underpinnings, and so is in principle fully explicable by science” (21). This is surprising, after seeing Waxman go to great lengths to argue that although a priori, the most innovative aspects of Kantian philosophy are features of our natural constitution, different in complexity but not radically different in kind from the sensory sensitivity of an oyster. Placing a priori elements of Kantian psychologism beyond the reach of current and future biological explanation strikes me as a missed opportunity, and again makes me doubt what is meant by psychologism. Empirical research in animals can indicate how consciousness might have arisen, and in a footnote Waxman considers but then discards a few such accounts based on their comparatively restrictive definition of consciousness (63n). The reader may suspect that casting the net more widely would reveal theories more congenial to Waxman’s evolutionary take on subjectivity, such as Godfrey-Smith (2016).

The following passage is a good example of Waxman’s ambivalence towards his own naturalistic outlook:

The connection between the subjective psychological reality of consciousness and the objective physical reality of neurophysiology is a complete mystery in both directions, today and quite possibly for some time to come. Thus, Kantian logical forms of judgment pose no special mystery but instead are best regarded as simply an additional species of phylogeny-dependent neuro-psychological reality in addition to sensations, emotions, dreams, and the rest. (178)

Because Waxman has not restricted himself to purely exegetical argument, or the Kitcherian ‘proto-cognitivist’ angle described earlier, the reader may wonder how literally such claims are to be taken. One cannot but agree that (something similar to) Kantian a priori capacities such as the logical forms of judgment must have evolved somehow, just as there must be some neural correlates for the empiricists’ associative psychologies, as indicated in Part I. But the empirically-minded reader will want to know in more detail how forms of judgment (or their successors in contemporary science of mind) could be modelled and studied, if they are on a par with sensations and emotions.

A Guide to Kant’s Psychologism is bound to appeal to diverse philosophical audiences for its fresh take on Kant’s theoretical philosophy as a priori psychologism. It is also a lively, articulate instance of philosophical storytelling. Waxman avoids approaching Kant through the lens of contemporary philosophical problems where semantics, epistemology and metaphysics are concerned. When it comes to the sciences, however, the book makes us acutely aware of pieces of the puzzle of the mind in nature that Kant simply cannot have anticipated. Kant’s understanding of his current science needs to be confronted with today’s sciences in order to address all of the questions raised by an interpretation of Kantian philosophy as naturalistic a priori psychologism. Over the course of Waxman’s book, frequent references to neural correlates and phylogeny habituate the reader to seeing our biological reality in the same conceptual space as Kantian doctrines, which is surely a step in the right direction. As is perhaps Waxman’s intention, it is left to the reader to ponder the convergences and divergences between Kant’s account of the mind and current scientific knowledge, perhaps especially the life sciences. The book offers its non-Kantian readers a challenging, raw encounter with Kant’s theoretical philosophy, and will leave Kant scholars much to think about both on the old problem of psychologism and new ones arising from Waxman’s brand of naturalism.

References: 

Brook, Andrew. 1994. Kant and the Mind. Cambridge, New York and Melbourne: Cambridge University Press.

Cassam, Quassim. 1997. Self and World. Oxford: Clarendon Press.

Evans, Gareth. 1982. The Varieties of Reference. Edited by John McDowell. Oxford: Clarendon Press and New York: Oxford University Press.

Falkenstein, Lorne and Easton, Patricia, eds. 1997. Logic and the Workings of the Mind: The Logic of Ideas and Faculty Psychology in Early Modern Philosophy. Atascadero, CA: Ridgeview.

Godfrey-Smith, Peter. 2016. “Mind, Matter and Metabolism.” Journal of Philosophy 113 (10):481-506.

Heidelberger, Michael. 2004. Nature from Within: Gustav Theodor Fechner and his Psychophysical Worldview. Translated by Cynthia Klohr. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press.

Kant, Immanuel. 1998 [1781/1787]. Critique of Pure Reason. Edited and translated by Paul Guyer and Allen W. Wood. Cambridge: Cambridge University Press.

Kitcher, Patricia. 1990. Kant’s Transcendental Psychology. New York and Oxford: Oxford University Press.

Longuenesse, Béatrice. 1998. Kant and the Capacity to Judge: Sensibility and Discursivity in the Transcendental Analytic of the Critique of Pure Reason. Translated by Charles T. Wolfe. Princeton: Princeton University Press.

McDowell, John. 1994. Mind and World. Cambridge, MA and London: Harvard University Press.

Polák, Michal and Marvan, Tomáž. 2018. “Neural Correlates of Consciousness Meet the Theory of Identity.” Frontiers in Psychology 24:1269. DOI https://doi.org/10.3389/fpsyg.2018.01269.

Sellars, Wilfrid. 1967. “Some Remarks on Kant’s Theory of Experience.” The Journal of Philosophy 64 (20), Sixty-Fourth Annual Meeting of the American Philosophical Association, Eastern Division (Oct. 26, 1967): 633-47.

Strawson, Peter F. 1966. The Bounds of Sense. London: Methuen.

Thomas Arnold: Phänomenologie als Platonismus

Phänomenologie als Platonismus: Zu den Platonischen Wesensmomenten der Philosophie Edmund Husserls Book Cover Phänomenologie als Platonismus: Zu den Platonischen Wesensmomenten der Philosophie Edmund Husserls
Quellen und Studien zur Philosophie 133
Thomas Arnold
De Gruyter
2017
Hardback €109.95
ix, 333

Reviewed by: Pier Alberto Porceddu Cilione (University of Verona)

The problem of determining whether or not Husserl belongs to a broader “Platonic” tradition is destined to remain open. The philosophical importance of Thomas Arnold’s Phänomenologie als Platonismus. Zu den platonischen Wesensmomenten der Philosophie Edmund Husserls rests on the fact that this text places the issue on a solid theoretical basis. Arnold’s work, in fact, through its paratactic structure, helps us to avoid an historical reconstruction or a mere scholarly discussion of the problem, and advocates the idea that a Plato-Husserl confrontation has to be analyzed through “Wesens-Momenten,” through “essential moments.” In what sense does our approach to Platonism change, when seen through a Husserlian perspective? First of all, it is useful to read how the idea of ​​“Platonism” should be understood:

“‘Platonismus'” wird im Folgenden nicht nur als Bezeichnung einer Familie von realistischen Positionen innerhalb des Universalienstreits oder spezieller der Ontologie der Mathematik verstanden, d. h. als Synonym einer schmal verstandenen ‘Ideenlehre’, sondern vielmehr als Name einer ganzen Philosophie” (6).

[“‘Platonism'” is here understood not only as a designation of a family of realistic positions within the problem of the universals, or more specifically, of the ontology of mathematics, i.e. as a synonym of a narrowly understood ‘theory of ideas’, but rather as the name of an entire philosophy”].

It is clear that the intention of the book is not to trace a conceptual filiation between Platonism and phenomenology, but rather to measure how philosophy quo talis, that is, in the spirit of Husserl, philosophy “als strenge Wissenschaft,” can be fully achieved by Plato or by Husserl. In a few words, the underlying idea is that, regardless of the diversity of conceptual vocabularies, the gnoseological requirements of the two authors coincide in many points. Arnold even goes so far as to hold that already in Plato there are the “regional ontologies” presented in Husserl’s Ideen, tracing a correspondent symmetry in Platonic dialogues:

“Regionale Ontologien finden sich etwa im Phaidon (Ontologie der psychê), in der Politeia (Ontologie der Kunst) oder im Timaios (Ontologie der Natur); neben pädagogischen und epistemologischen Querelen der Ethik stellt auch die Ontologie der Tugend ein Problem dar, bis sie im Gorgias und weiter in der Politeia als ‘Ordnung’ erkannt wird” (58).

[“Regional ontologies can be found in the Phaedo (ontology of psychê), in the Republic (ontology of art) or in the Timaeus (ontology of nature); in addition to the pedagogical and epistemological quarrels of ethics, the ontology of virtue also poses a problem until it is recognized as an ‘order’ [Ordnung] in the Gorgias and further in the Republic”].

But regardless of the possible conceptual symmetries between the texts of the two authors, the question always remains a theoretical one. The ambition of philosophy coincides with its claim to an absolute foundation, or to a conceptual foundation of the Absolute:

“Die sogenannten Wissenschaften sind bloße Techniken, insofern sie ihre Voraussetzungen nicht aufklären können. Wissenschaft muss absolut fundiert sein. Absolute Fundierung ist Fundierung im Absoluten. Nur Philosophie kann die Normen der absoluten Reflexion erfüllen. Sie ermöglicht damit Wissenschaft und ist selbst absolute Wissenschaft” (35).

[“The so-called sciences are mere techniques in that they cannot elucidate their pre-conditions. Science must be absolutely founded. Absolute foundation is foundation in the absolute. Only philosophy can fulfill the norms of absolute reflection. It enables science and is itself the absolute science”].

To do this, the text elaborates two strategies: firstly, underlining an analogical relationship between the Platonic and the Husserlian argumentative processes, it challenges the pre-eminence of the Cartesian approach, placing Husserl, through a Rückblick to Plato, already beyond modernity; secondly, in order to understand the Platonic analogies in Husserl, it assumes the existence of an already “phenomenological” Plato (30). In continuity with the Platonic and Husserlian arguments, Arnold claims the idea that philosophy does not exhaust itself in a mere gnoseological or epistemological approach, but it invests the very idea of “life.” According to this view, philosophy becomes the “absolute Rechtfertigung des Lebens” (Arnold: 129) [“the absolute justification of life”], overcoming the abstract antagonism of doxa and episteme:

“Die Radikalität der Phänomenologie selbst, kombiniert mit dem Selbstverständnis ihrer Stellung in der teleologischen Entwicklung des Menschen in Richtung Rationalität, erzwingt den Antagonismus zwischen Tradition (doxa) und Philosophie (episteme)” (129).

[“The radical nature of phenomenology itself, combined with the self-understanding of its position in the teleological evolution of man toward rationality, forces the antagonism between tradition (doxa) and philosophy (episteme)”].

Nevertheless, the most striking continuity between the Platonic and the Husserlian philosophical approach is the fact that “ideas” occupy the central theoretical position, i.e. the idea that the proper philosophical activity coincides with an act of Wesenschau. The “idea of ​​idea” represents the conceptual strategy through which the essence of an “intentional psyché” is realized, contesting every naturalization of the mind, even in ancient times (Anaxagoras) and particularly in modern ones (Psychologism) (see, Arnold: 136). Ideas are the intelligible structures of things, “d. h. das, was ihre erkennbare, allgemeine Bestimmtheit ausmacht, ihr ‘Prinzip der Bestimmtheit’ oder das ‘Organisationsprinzip einer Gegenstandseinheit’, d.h. auch das ‘Kriterium’ (Uhlmann), dem gemäß ein Gegenstand ein solcher und nicht ein anderer Gegenstand ist” (Arnold: 207) [“i.e. what constitutes their recognizable, general determinateness, their ‘principle of determinateness’ or the ‘organizing principle of an object-unity’, i.e. also the “criterium” (Uhlmann), according to which an object is such and not another”]. The fundamental importance of ideas and essences, both in Plato and Husserl, suggests the fact that philosophy still aims to be, according to the Husserlian perspective, a “science of essences”:

“Wesen sind für Husserl die intelligiblen Bestimmtheitsstrukturen der Gegenstände und das, was ihnen ihre Möglichkeiten apriori vorgibt; ein Gegenstand, der ein Eidos instantiiert, hat in diesem Eidos seine Bestimmung” (214).

[“For Husserl, essences are the intelligible structures of the definiteness of objects, and what gives them their possibilities a priori; an object that instantiates an eidos has in this eidos its determination”].

The fundamental purpose inscribed in every platonic/realistic approach is to reflect on how and why our gnoseological capacities provide us with the ability to get in contact with ideas/essences, which, although transmaterial, possess the concreteness of a specific Gegenständigkeit. As Arnold points out, “die Ideen sind keine sichtbaren Dinge und keine Gedanken, aber sie sind nichtsdestotrotz in einem bestimmten Sinn eigenständige Gegenstände” (Arnold: 220) [“Ideas are not visible things and neither thoughts, but they are nonetheless – in a certain sense – independent objects”]. Tracing the idea of ​​an essential analogy between Plato and Husserl, Arnold’s work provides a new conceptual legitimacy to the fundamental terms of our philosophical tradition. Through Plato and Husserl, a transhistorical conceptual vocabulary still conserves those certain powerful words, which are the very glory of philosophy: “idea,” “science,” “justification,” “essence,” “Absolute.”

 

John J. Drummond and Otfried Höffe (Eds.): Husserl: German Perspectives

Husserl: German Perspectives Book Cover Husserl: German Perspectives
John J. Drummond and Otfried Höffe (Eds.)
Fordham University Press
2019
Hardback $75.00
361

Reviewed by: Meghant Sudan (Boise State University)

Twelve strong essays in this excellent and impressively well-knit collection present different but convergent examinations of master-themes in Husserl’s philosophy like intentionality and the reduction/s, while also discussing specific doctrines relating to psychologism, the eidetic method, objectifying acts, time-consciousness, truth and error, monadological construction, and the intersection of phenomenology and cultural critique.  The authors use a variety of approaches, historical or developmental readings and analytic commentary, comparative analysis and speculative interpretation, and, while several authors, along with the editors, are well-known to anglophone phenomenologists and Kantians, even the less familiar ones are easily recognized names in the field (the collection features four deceased philosophers, five emeritus professors, four senior figures, and one younger researcher).  The essays were originally written in German, dating mostly from the 1980s-1990s with a few from the first decade of our century, and the translators Hayden Kee, Patrick Eldridge, and Robin Litscher Wilkins have conveyed their different philosophical and rhetorical styles with facility.  Overall, the collection promises to present (to a non-initiate, it should be noted) Husserl’s thought through “German perspectives.”

It is worth pausing to consider what this last could mean.  For it promises to show a whole force-field of thought determined by linguistic, geographical, and historical connections, and even how these determinations are themselves determined by what is left out, that is, the kind of work occurring in other, principally anglophone traditions.  For instance, the collection emphasizes the dense overlap of Husserlian and Heideggerean views as opposed to cleanly separating the two, while it underplays treatments of Gadamer and Merleau-Ponty and with them certain types of questions of aesthetics, materiality, and intersubjectivity, which form a dominant thrust in the anglophone reception of phenomenology in Continental-philosophical quarters.  Similar determining occlusions can be mentioned with respect to Analytic-philosophical quarters, for example, the absence of applications of phenomenology to cognitive science (and vice-versa) or the interpretation of Buddhist doctrines, or, given the unifying thread throughout the volume, which understands intentionality in highly active and teleological terms, the absence of treatments of kinaesthesia and action-in-perception views.  Finally, aside from the last essay on Husserl’s thought through the Crisis, the collection passes up the chance to examine the very notion of a perspective as cultural, such as one that might be German but also European (itself universalized and universalizing) by way of recovering ancient Greek thought according to a German self-understanding prepared over the 18th and 19th centuries.

Or one could bring under “German perspectives” a number of major, agenda-setting articles unavailable in translation; or those from a devoted journal or issue or proceedings from a signal conference, whose historical significance has been recognized; or the workings of a particularly productive group or research from a particular archive; or translations of introductions to standardized editions of Husserl’s works; or simply the task of introducing some well-known figures and works to anglophone readership as R.O. Elveton’s classic little collection did several years ago, although several authors in the present volume require no introduction; or the relation of Husserl’s thought to other points taken as definitive of German philosophy (Leibniz-Wolff, German Idealism).  In their short, elegant introduction, the editors state that the volume simply aims to bring before an English-language reader some previously untranslated articles by important German-language commentators, showcasing conversations they have with other important German-language philosophers.  Of course, neither this deflationary description nor the curious designation “German Perspectives” in any way detracts from the high quality of the collection, and, in fact, the conversations linking the pieces in multiple ways, I find, constitute its greatest strength. I take the designation, however, as recording the need for further attempts along lines noted in the list above, some of whose elements can be glimpsed occasionally through the collection, which this review will highlight in the course of addressing each article in order.

Sonja Rinofner-Kreidl (1997)[1] revisits Hussserl’s critique of psychologism in the Prolegomena to show that it was only partially successful, which helps understand in a subtler way the major philosophical re-orientation that followed. Thus, no rectilinear path takes us from the psychologism-critique to the transcendental-philosophical stages of Husserl’s work and questions broached in earlier stages persistently re-appear later.  This is because Husserl’s critique did not attend as much to the presuppositions of a psychologistic view as it did to the debilitating consequences of that view, which were taken as endorsing subjectivism and skepticism.  This conflated different skeptical charges (logical, epistemological, metaphysical) and missed, quite directly, the issue of a dispute of principles, or the problem of the criterion, between psychologistic and anti-psychologistic standpoints, and, indirectly, the need to interrogate the latent issues of psychologism and Platonism in Husserl’s use of descriptive psychology and the foundations of normativity asserted in both psychologistic and anti-psychologistic models, albeit differently.

Husserl’s development of the phenomenological reduction enabled such interrogations spanning across static and genetic phenomenological inquiries.  They did not arise with sole regard to developing a practical-philosophical framing against an overly theoretical one (a view tempted by the later talk of the life-world) but by reframing of the operative conception of science in order to handle the previously overlooked skeptical problems.  Pure logic’s “objectivistic” model of science is replaced by a more subjectivistic model supplied by philosophy itself, as the debate shifts from being between logic and psychology to one between philosophy and psychology and the rejection of epistemological skepticism as a condition of philosophy replaces a narrower overcoming of logical skepticism for the sake of pure logic as a science of science (36-38).  Rinofner-Kreidl proceeds carefully and meticulously, but perhaps due to this it is hard to find many references to German perspectives beyond the odd citation of a counter-critique from a psychologistic point of view, and one gets the impression that an obvious and influential German elephant in the room has been neglected, namely, the German Idealist shape of this transcendental-philosophical battle with skepticism at the level of principles and over the possibility of philosophy itself as a science of science.  Rinofner-Kreidl’s detailed analysis thus sheds light on the dark corners of Husserl’s articulation of the problem of psychologism, but has the unfortunate effect of making the Logical Investigations appear insufficiently philosophical, philosophy itself being discovered by Husserl only afterwards.

Ludwig Landgrebe (d.1991; undated essay), by contrast, stresses the inner philosophical unity running through Husserl’s oeuvre, thus, a unity animating, even if in embryonic form, the early works as well as the psychologism-critique of the Investigations (51-59), by focusing on the concept of intentionality and underlining its achieving, striving character.  Further, he provides the German context for a divided reception of this concept: on the one hand, phenomenology took up the descriptive-psychological investigations as de-linked from this inner thematic, widened a growing rift between eidetics- and ontology-centric approaches, and overall divorced from phenomenological studies a deeper ontology-critique that was always a part of Husserl’s efforts; on the other hand, phenomenology retained this deeper critical edge and fundamentally re-thought the inner thematic itself, which Heidegger did in re-situating the analysis of intentionality on the grounds of the facticity of Dasein.

According to Landgrebe, it is not simply the case that Heidegger rejects the reduction as a method (for it was always more than a way to initiate constitution-analyses of consciousness and already engaged the possibility of ontology in Husserl), nor merely that Heidegger begins his intentional analysis from being-in-the-world rather than the other way around (for the Husserlian apprehension of intentionality as active, self-producing and self-temporalizing form already broke through mundane comportments towards their inner structure).  Rather, Heidegger contests the model of subjectivity assumed in these conceptions of intentionality and reduction, which comprises reflection and an “attitude of impartial observing” (75) achieved by bracketing one’s determinate Dasein in order to universalize the partial acts of reflection.  This, however, conceives oneself as only an indifferent other and fails to apprehend the self-knowing of Dasein in its performance of existence, which takes us to the limits of intentional analysis, since the synthetic constitution of an object can no longer be found here.  How an a priori is to be still articulated here, how a metaphysic of facticity is possible – these questions remained on Husserl’s mind in the last years and remain open for future phenomenology, for Landgrebe.

Jan Patočka (1982) too takes intentionality in its active, dynamic form to be a guiding principle for phenomenology at large and uses it to examine the Husserl-Heidegger relation, although not to see in  it a parting of ways but an interweaving of interests and a critical continuity of the phenomenological project.  At the heart of such a reconciliation is Patočka’s reading of the reduction as marked by a fundamental circumscription (the suspension of the epoché distinguished from an alleged march to reduce all being to the absolute sphere of consciousness), which both bridges the rift Landgrebe outlined between eidetic and ontological strains of phenomenological research and qualifies Heidegger’s seeming rejection of the reduction.  Patočka bases his reading on Husserl’s 1907 lectures on The Idea of Phenomenology to find that the reduction maintains a positivity of being and envisions research into phenomena as resisting a total absorption into immanence by inexhaustible progress through experience, balancing eidetic reflection against the constructions of positivity in science or modernity itself.

Although Husserl couched the reduction in a subjectivist vocabulary stemming from Kant and Fichte,[2] the tension present in it between reifying and non-objectifying aspects, and of questions of being and nothing, allows us to discern Heideggerean motives that are otherwise expressed in the language of moods and errances of being.  Thus, “the possibility of an epoché and its limbo is inherent in the experience of annihilation… [I]t is not the epoché that establishes the limbo upon which the phenomenological reduction is built up, but rather the epoché presupposes the experience of the limbo….” (99-100).  While Heidegger’s critique takes this nihilating moment to the greatest distances from Husserl in using it to launch a metaphysical critique of the presupposition of acts of negation in formal logic, Patočka believes it possible (and believes Heidegger believed a reconciliation was possible) to see both thinkers grounding their overall visions for philosophy upon a reflection on crisis as such, which remains the task of future shapes of phenomenology.

Dieter Lohmar’s (2005) defense of eidetic intuition and variation as a self-standing phenomenological method continues within the outline of the German reception of Husserl’s thought as given by Landgrebe and continues with Patočka to question the reduction’s claims to be a univocal, unitary phenomenological method.  Lohmar argues that eidetic intuition should be seen as a variety of categorial intuition insofar as both preserve a basic orientation to the possibility of knowing an object through a pathway of syntheses of coincidence.  This clarifies how eidetic variation is the key element of a method centered on eidetic intuition, which overcomes nagging questions in that method about non-givenness in intuition for certain classes of objects (image consciousness, universal objects) by asserting the functional primacy of free variation in phantasy over perception. One might hold that free variation needs the reduction to get off the ground, but Lohmar explains that both eidetic variation and the phenomenological reduction suspend the factual to reveal universals, but their purposes are different, as reduction targets validity justifications but variation lets us uncover structures of clarity answering to initially vague concepts, thus undertaking the philosophical clarification of knowledge itself.

This is a clear account of the method, and Lohmar does address worries about its limits (how far must we go?  when do we stop? do we presuppose a concept in clarifying a concept? is cultural parochialism inherent in the limits of the operation and the concept clarified?), but Lohmar hastily brushes aside other questions in its wake or gestures towards the genetic theory of types for further development of the method, undermining its claims to theoretical independence.  If the process sounds like an empiricist account of the generation of concepts or even what Kant calls their logical origin in acts of comparison and abstraction, we are told that Husserl is not indulging in a genetic psychology of concepts, but is in pursuit of universal objects, and in any case, Kant too buried many secrets about the imagination’s powers in the depths of the human soul; if the Platonism charge is recalled at this point, we are told that Husserl really treats Platonism as little more than mysticism and does not assert a separate realm of irreal being; if we ask after the apriority these objects may still claim, even without reminders about their location in the realm of absolute being of consciousness, we are told that Husserlian apriority is not severed from experience like Kant’s but more like Humean induction; if we ask about the Humean legacy, we are referred to Husserl’s un-Humean, mitigated Platonism; etc.  What one misses is an actual confrontation with these issues, which are either invoked by Lohmar himself (not only when he brings up Kant as a foil, but also when he describes seeing the a priori in the very ways that trouble Kant’s problematic theory of constructing concepts [137-138n.57]) or which are present in Husserl and call for greater scrutiny (the relation of the doctrines of eidetic intuition and variation in the 6th Investigation to the critique of Modern nominalism and of Humean doctrines like ‘circles of resemblance’ in the 2nd Investigation). Overall, however, that eidetic investigation seems to have kept the Husserl-Archiv in Köln busy relatively recently (133n.1) indicates that this German perspective of inquiry is alive and well, Landgrebe’s diagnoses notwithstanding.

Karl Schuhmann (1991) presents an historical German perspective as he takes us back to Husserl’s manuscripts prior to the Logical Investigations and complicates the story of origins, somewhat as Rinofner-Kreidl did, by arguing that the discovery of intentionality did not occur entirely within the scope of Brentano’s doctrine, as the 5th Investigation may lead us to believe, but emerged from efforts to resolve Twardowski’s proposals in its vicinity.  This also yields the corollary that Husserl’s progress towards a theory of noema does not follow directly from the initial conception of intentionality.  The problem posed by Twardowski asks about the way representations can both relate to an object (for a representation represents something) and yet not relate to an object (when nothing in actuality answers to it).[3] Twardowski’s solution proposed two kinds of objects to reconcile the universal relation to objects as well (as psychic contents) cases of actual objects. Husserl rejected this solution for its psychological implausibility (unlimited variety and complexity of psychic contents) and epistemological redundancy (the object known is always one and the object of a contradiction does not exist in any guise).

This, however, moved him into treating all propositions as falling under a guiding assumption for the relevant discourse, which modifies not objectivity but the position of the subject and its representations.  Husserl’s solution thus turns to the subject, its doxic investments and the discursive form of knowledge, which suggest the new concept of intentionality; but he is still far from clarifying the systematic place of the subject in which these acts and contents take place, the consistency and priorities among different discursive forms of objectivity, and the coherence of judgment forms with perceptual knowing. But the future concept that dealt with the latter issues cannot be said to simply arise from the early concept, because the question of being was not posed in any critical way at all earlier and because the later concept of noema recalls elements of Twardowski’s interpretation, which had supposedly been overcome.  Schuhmann leaves us with tantalizingly brief indications (which may be the case when working from fragmentary manuscripts, although Brentano’s and Twardowski’s theses could have been developed more broadly to give a fuller sense of the territory within which Husserl worked), without paving with further clues from developmental history the actual path from here to the theories of intentionality in the Logical Investigations and Ideas I.

Verena Mayer and Christopher Erhard (2008) take up the concept of intentionality as developed in the 5th Logical Investigation, and, although this essay is a solid and detailed exposition of the main sections of this Investigation (thus filling an oppressive gap in the literature while also conversing with the few who do attend to this topic), it also helps understand more broadly some key areas of concern for the early Husserl signaled by Schuhmann, such as the question of fitting judgment with perception, details from the general background and the internal critique of Brentano that contextualized Husserl’s own forays, the holism about mental contents that enables an analysis at the level of acts rather than isolated attention to representations or images or names or judgments, etc.

Importantly, Mayer walks us through the 5th Investigation as it integrates different mental components into the concept of an act with its intentional essence, which is crucial for understanding the active nature of intentionality as a horizonally shaped process of a cognitive fulfillment. Erhard provides a detailed reconstruction of the concept of objectifying acts, which is important to understand how the intentionality of an experience is variously articulated and modified, sometimes at the level of content, sometimes at the level of quality, in regard either to imaginative variation or to identifying syntheses in actual cognition. Owing to the expository nature of this commentary, one sometimes feels the need for critical argumentation over merely presenting Husserl’s view, which is admittedly hard to discern in these thickets.  The authors are aware that the 5th Investigation is tortuous terrain, but precisely its complexity offers a rich field of interaction with Analytic Philosophy and their own effort to craft a workable platform across this terrain is already a necessary step towards such dialogue.

Ulrich Melle (1990) deepens the investigation into objectifying acts by clarifying it against non-objectifying acts, which Mayer and Erhard had noted as a topic developed more fully by Husserl only after the Logical Investigations, and by drawing out the larger context of these acts, which tug at the models of perception and judgment in different ways and inform Husserl’s “pluralistic theory of reason…[as] logical-cognitive, axiological, and practical.” (193)  Melle relies on manuscripts of Husserl’s ethics lectures (1908/9, 1911, 1914, 1920) to bring out Husserl’s vexations over adjusting objectifying and non-objectifying acts at different levels, trying at times to understand the latter acts of valuing, feeling, desiring, and willing in terms of the former acts of perception and intellection, recognizing at others a self-sufficiency of non-objectifying acts in terms of objective content or existence-positing modifications.

Even if these attempts are not settled conclusively, Melle persuasively shows both the blurring of the distinction between the two types of acts and the concomitant unification of theory of reason as obtaining over different types of objectivities.  This lucid essay is too short, however, to learn more about the way the theory of reason develops along the traditional axes of the true, the beautiful, and the good, while responding to the new objectivities on offer through non-objectifying acts, or about ways to strengthen suggestions that these reflections on value-theory bend Husserl’s overall project or put pressures on particular tendencies in it, such as the content-apprehension scheme.  One is left wanting especially in regard to other German perspectives on these questions, whether other phenomenological work on ethics like Scheler’s, or, what is better known in the anglophone world, Heidegger’s attention to the question of being and to art and Gadamer’s investigations of aesthetics.

Klaus Held (1981, with references updated to include recent publications) provides a dense meditation on the phenomenology of time to explicate the Husserlian notion and to outline possibilities beyond it by overcoming its residual Cartesianism.  The latter is indicated in the very terminology of time-consciousness that lures the underlying idea into the trap of subjectivism, from which Held seeks to liberate that idea to see time as that which “measures the phenomenal field in its fluctuation” (210; the Aristotelian-Heideggerean punning intended by Held).  Like others in this volume, Held views intentionality as a fundamentally dynamical condition and one vividly sees the interaction with other German perspectives here as he thinks collaboratively with other authors in this volume like Landgrebe and Patočka.  But he stresses, with distinctively dialectical imagery (placing yet other German perspectives in view), the primacy of various tensions and oscillations, flow and passivity, withdrawals and emergences, which constitute the field of appearance stretching between or before subject and object.

This field of appearance in its essential fluidity should explain subjectivity, rather than the other way around, and instead of getting by with surrogates like “pre-objective” or “primal impression,” one must genuinely get hold of the ways in which unity of presentation is determined by the pulsating functions of the field itself.  Further, Held seeks to explain how the latter becomes fixed in form-content distinctions that, as revealed by his dissection of it, cloud Husserl’s account of time-consciousness.  Thus, by undoing presuppositions and untying knots in apprehending features of the phenomenal field such as its past and futural directionality, the subjective phenomena of remembering and forgetting, Held intends for his own proposal to remain phenomenological just when it is in danger of becoming an external dialectical construction.  Where this danger seems to be greatest is in Held’s attempt to reconcile the appropriatedly revised Husserlian theory with Heidegger’s discussion of moods and the disclosedness of the basic rhythm of life between poles of natality and mortality, which lends the “living present” its material vitality and actional character.  The undeniable appeal of the resulting view, however, encourages the interpretive risks.

Rudolf Bernet (2012) continues the attempt to think Husserl along with Heidegger by seeing the latter’s concepts of truth and untruth as grounded in Husserlian viewpoints, which also helps see a continuity between early and late Heidegger himself.  Untruth, for Husserl, is thought in terms of empty intending, which is shown to be consistent with accounts of idle chatter in Heidegger, and the way that idle chatter still bears a relation to truth, as do all human comportments, allows consistency with the essential cognitive drive of intentionality for Husserl.  Husserl’s conception of falsehood as a disappointment or conflict lies in a stronger dimension of truth than a merely unfulfilled intention. This too agrees with Heidegger’s conception in Being and Time of Dasein’s covering-over comportment, which still manifests a self-showing in cases of semblant appearing.

In one respect, Heidegger’s later conception through alethic disclosing draws closer to Husserl’s conception as he now “think[s] disclosedness and hiddenness through one another” (148) essentially and not only in terms of Dasein’s modes of fallenness.  But the increasing role of mystery in the later Heidegger escapes Husserlian synthetic projections entirely, and Bernet tries to show with reference to the Parmenides lectures that this leads to internal problems of its own, as Heidegger tries to derive the concept of mere falsehood and the concept of untruth proper or mystery as both types of a fundamental hiddenness.  Bernet’s exploration of the latter point could have been bolstered by an examination of Heidegger’s own critique of logic, which was touched on in Held’s essay.  But that would be a different essay, while the present one provides a very economical discussion of the central concepts at play and includes a very helpful list of references to all relevant texts on the doctrine of truth in Heidegger, and also broadens its own German perspectives to works written in French.

Karl Mertens (2000) examines the arguably directly German perspective invoked by Husserl himself in his invocations of Leibnizian monadology to articulate problems of intersubjectivity.  Since this dialogue, Mertens finds, is ultimately nugatory, it serves to caution against merging traditional metaphysics with Husserlian phenomenology. Yet, it may also be seen as spurring reformulations of phenomenology itself: in this regard Mertens’s essay is well positioned as leading into the last two essays considering Husserl’s thought in the Crisis, and, even if his essay is too short to dig deeper, Mertens rightly recognizes this juncture as a broadening of German perspectives by those opened up by Merleau-Ponty.  The endnotes include particularly useful pointers for further (German-language) discussions of various issues, both classic and contemporary.

Husserl turns to Leibniz as to a compatriot seeking to replace the bare Cartesian ego with an appropriately complex account of the concrete structures of subjectivity in the concept of the monad.  Leibniz was responding to classical problems about the individuality of substance and so his solutions simply do not work for a phenomenology operating on a very different plane.  Indeed, it is a mystery why Husserl looks to Leibniz at all, for the windowless monad allows no genuine intersubjectivity and the perspectivalist approach they seem to share goes no further than superficial similarity.  Unfortunately, Mertens does not help understand this mystery, nor the compounding mystery that Husserl foists atop this failed conversation his own problematic account of intersubjectivity, which Mertens, and not him alone, deems irredeemably solipsistic.  This creates suggestions for renewed efforts, however, and perhaps Husserl was ultimately driven by the Leibnizian encounter to yet greater interest in the constitution of horizons, as much as he was perhaps held back by his allegiance to notions of consciousness and predicative experience at just the point that phenomenology could have turned to questions of pre-predicative embodiment to articulate the truly social self in a truly worldly perspective.

Elisabeth Ströker (1988) reminds us that Husserl’s interest was directed towards the validity and meaning of science across his oeuvre and the theory of intentionality was prepared for the sake of connecting mind and world in a way that ultimately restores that lost validity and meaning.  The meaning of science is related to forms and contexts of practice and the transcendental theory of intentionality is related to the particular cultural-historical actuality of reason.  While talk of crisis was very much in the air when Husserl wrote his Crisis, his view is distinctive in taking philosophy as a critique of itself that is a critique of science that is a critique of culture.  This rests on a vision of unity of philosophy, science, and humanity, and of history as a long decay of a telic golden past, a “binding inheritance of Greek philosophy” (298).  Ströker strives to show how various technical concepts like life-world, constitution-analysis, subjectivity, etc. figure into this easy wisdom, and perhaps all this is forgivable given that this essay was in fact at first a public memorial address rather than a scholarly publication, but, also, perhaps unwittingly, it is a testimony to the kind of tritely tragic and grand-historical self-narrative that too can count itself as a German perspective.

Ernst Wolfgang Orth (1987) complements Ströker’s essay both by turning to the issue of culture primarily (over science) and by lending gravity to the issues at play therein, such as problems about universalizing particular forms of practice or concepts such as “humanity,” which stretches across space and time (Greeks and us) all too easily in Ströker’s essay.  Instead, he makes a compelling case for seeing cultural anthropology as uneasily integrated with transcendental phenomenology, which became evident to Husserl himself over the period from the Ideas to the Crisis.  The human being is neither that from which the transcendental ego is abstracted nor is the latter a real part of the former, but the human being is constituted from transcendental subjectivity and Husserl increasingly locates in this connection the coevality of a universal human science and a first philosophy.

The resulting approach differs sharply, to Orth’s mind, from a narrowly natural scientific orientation, and progressively complicates phenomenology’s inner premises (many reductions, not a single overarching one; the dialectic of emergence and withdrawal at the heart of intentionality as Held argued). This, in turn, proceeds towards a conception of the cultural sphere, which is neither a mere occasion for transcendental reflection, nor subsumed under transcendental constitution, but, rather, under the title “lifeworld,” names the broader viewpoint in which culture with its own irreducible thickness (which includes naturalized forms within itself) is integrated with phenomenological reflection on humanity, which is a variegated presupposition and a limit idea that constantly shapes the phenomenological project.  This is a wide-ranging and powerful proposal that simultaneously sheds light on many methodological questions about the Crisis as well as interfaces with other German perspectives, in this volume but also beyond.  But one wonders if, at the end, it is not just the problem of horizons that has been re-discovered under the name of culture, and, moreover, one remains as curious as before if any advance is made on questions of cultural difference, parochialism, and universalism, that is “culture” in the usual senses of the contingent and disparate determinations of human life.


[1] This is the date of the original German version of the essay. I will provide this information for each essay.

[2] Resonances with Fichtean exertions over the identity of the transcendental and the empirical subject, the assumed possibility of a science of science, the grounding of questions of method in questions of freedom, are present in several essays implicitly (we can already look back at Rinofner-Kreidl’s and Landgrebe’s essays in the light of these exertions) or explicitly in Patočka’s essay (97; and Hegel’s pistol-shot reference to Schelling is quoted on p. 99) or later in Held’s essay (236).  A mention of Fichte (or, for that matter, Hegel) is missing, however, in the helpful Index provided in the book, and perhaps this only indicates the need for including German Idealist background in a consideration of German Perspectives. Another wholly missing index entry is Gadamer, while Merleau-Ponty receives two indexical references to the same page, missing brief appearances on two other pages.

[3] Brentano’s concept of intentionality asserted a universal relation to an object, while Bolzano upheld objectless representations, so Schuhmann names this “the Brentano-Bolzano” problem.  Brentano’s auxiliary theses about converting any existential proposition into a judgment form and distinguishing determining predicates (which enrich a subject, e.g. “educated person”) and modifying predicates (which change the subject itself, e.g. “dead person”) were used by Twardowski to solve the problem.

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