Francesca De Vecchi: La Società in persona: Ontologie sociali qualitative

La società in persona. Ontologia sociale qualitativa Couverture du livre La società in persona. Ontologia sociale qualitativa
Studi e ricerche
Francesca De Vecchi
Il Mulino
2022
Paperback
272

Reviewed by: Federico Leon Scimone (Università degli Studi di Milano)

La società in persona, una nuova prospettiva fenomenologica al problema delle ontologie sociali

La società in persona, Ontologie sociali di Francesca De Vecchi si inserisce nel panorama contemporaneo del problema dell’essere sociale in controtendenza alle ricerche di matrice analitica, come quelle che seguono dagli studi, ad esempio, di Searle[1] e Gilbert[2]. In particolare viene sottolineata la lacuna qualitativa che segue dalla separazione fra naturale e sociale che caratterizza le tematizzazioni americane. Quest’opera ha un fine ben definito, ovvero restituire dignità ontologica agli enti sociali e far emergere come in essi si trovi il fondamento per un’assiologia della buona vita delle cose, in particolare sociali. De Vecchi muove prevalentemente dalle ricerche fenomenologiche di Husserl e Scheler, mostrando come l’approccio fenomenologico allo studio delle ontologie sociali si definisca come il più appropriato, giacché la fenomenologia altro non è che un’ontologia sociale qualitativa.

L’opera si divide in quattro capitoli che ne scandiscono le argomentazioni principali in ordine teoretico. In prima battuta De Vecchi delinea per sommi capi che cosa si intenda per ontologia qualitativa e quale siano le definizione e gli intenti più comuni di tale disciplina, in riferimento alle ricerche di matrice analitica; nel tratteggiare tale immagine viene a delimitarsi una lacuna entro la quale ricadono valori e sensi d’essere delle cose, ovvero ogni sfumatura qualitativa del mondo in cui ci troviamo ad esistere e da qui muove la ricerca del testo, con lo scopo di ridare fondamento al senso d’essere delle cose. In particolare, la presentazione analitica del tema trancia di netto tutto ciò che non può essere definito come oggettivamente fondato, dove oggettivamente ha quasi il medesimo significato di fondato secondo le leggi della fisica. De Vecchi mostra come il mondo descritto dall’ontologia sociale sia privato di ogni senso d’essere, in virtù del fatto che tutto ciò che non è “oggettivo” non ha dignità ontologica; tale argomentazione trova il suo fondamento nella separazione fra mondo naturale e mondo sociale. De Vecchi riprendendo Husserl sottolinea come così facendo il mondo risulti spogliato di ogni sua caratteristica qualitativa e mostra come le cose non possano essere nemmeno intese come “fatti bruti” senza quelle parti che vengono escluse, ad esempio da Searle, dall’indagine ontologica.

Così viene proposta una nuova via per affrontare il tema, una via che muova dalla descrizione in prima persona dei fenomeni e del modo in cui questi ci si presentano, ovvero un’ontologia sociale qualitativa, che permetta di rendere conto del mondo per come quotidianamente ne facciamo esperienza. In seconda battuta De Vecchi tratteggia le caratteristiche di tale ontologia sociale qualitativa, ponendo l’accento sul ruolo dell’eidetica fenomenologica dalla quale emergono i sensi d’essere delle cose, le essenze ed i vincoli che definiscono le cose ad un tempo per ciò che sono e per come sono in relazione al tipo di cosa a cui appartengono. Riprendendo l’esempio proposto da De Vecchi, nel momento in cui ci troviamo innanzi ad una sedia, noi ne riconosciamo la sedibilità, ovvero ciò che la determina come tale. Nel riconoscere il suo essere sedia possiamo capire se si tratta di una buona sedia oppure di una sedia scomoda ad esempio. Assumendo che una sedia ha nella sua essenza la possibilità del sedervisi, se questo dovesse risultare difficile o scomodo noi potremmo dire che essa non è una buona sedia, così come potremmo riconoscerla come una buona sedia se il sedersi dovesse risultare confortevole. Allo stesso modo se fossimo innanzi ad una società potremmo capire se essa sia una buona società oppure no in relazione a quell’idea di società che essa stessa presenta. Ad esempio potremmo individuare un buon rapporto fra i cittadini come qualcosa di positivo ed un necessità “del farsi giustizia da sé” come qualcosa di negativo. In questo processo vengono preaccennati i nuclei tematici degli interi e delle parti e, in particolare, degli interi sociali che saranno poi fondamentali per poter comprendere come si possa definire una buona vita della società. In questo passaggio De Vecchi mostra come ogni cosa nel darsi presenta la sua essenza con tutte quelle sfumature qualitative che la definiscono; così le cose ci mostrano i loro vincoli assiologico-normativi.

Definita l’origine dei sensi d’essere delle cose, il terzo tema è quello del vivere personalmente, del vivere come soggetto con altri nel mondo e nella società, per mostrare come la ricerca ontologica sociale fenomenologica si interroghi sul tema della società e della persona, a partire proprio da quelle essenze emergenti che si caratterizzano ad un tempo come soggettive ed oggettive, giacché, seppure esperite in prima persona, rimandano all’idea generale che trascende l’esperienza quotidiana, definendola e definendo le condizioni di identità, i modi d’essere, d prosperare o declinare delle cose esperite: insomma, la loro “vita”, più o meno buona..

Le argomentazioni di De Vecchi trovano poi la loro conclusione approdando alla relazione fra individuo come parte e individuo come soggetto sociale al quale appartiene; viene così chiarito come fra persona e società vi sia una relazione bilaterale di reciproca determinazione, condizione che permette l’apertura al tema etico, giacché mostra un parametro assiologico oggettivo ed esperito che, pur essendo a priori, affonda nella materialità dell’esperienza, aprendo alla ricerca sulla buona vita di una società.

Esegesi dei nuclei tematici principali

La società in persona si colloca all’interno del dibattito delle ontologie sociali richiamando il confronto fra le teorie a stampo fenomenologico, in particolar modo di Husserl e Scheler, e quelle a stampo analitico, in particolar modo richiamandosi alle tesi sostenute da Searle e Gilbert. La ricerca di De Vecchi tenta di riconsegnare all’ontologia sociale la sua potenza totale, tentando di sanare il vuoto creato dalla separazione fra sociale e naturale; facendo un passo indietro nella ricerca ontologica infatti è possibile notare come questo iato non sussista, almeno nei termini in cui viene descritto dalla tradizione analitica. L’argomentazione di De Vecchi ci viene presentata come un’ontologia sociale esistenziale, che trova il suo fondamento nel nostro essere, nel nostro vivere e nel nostro agire come soggetti personali immersi in un mondo con altri. In apertura al testo ci viene proposto il tentativo di trovare il fondamento per un’ontologia della persona come persona in relazione, come persona sociale. Tema fondante delle argomentazioni di De Vecchi è il riferimento al vissuto, al visto, all’esistere sempre come persone in un mondo che è ad un tempo mondo sociale e personale, di cui facciamo esperienza quotidianamente e nel quale agiamo e viviamo sempre già in relazione con altri. In questo mondo ci troviamo in relazione con cose che hanno una caratterizzazione qualitativa della quale facciamo esperienza in prima persona, cose, enti ed oggetti che individuiamo come tali per le loro qualità di valore, sia esso positivo o negativo. Le cose del mondo, argomenta De Vecchi, sono tutte ricche di qualità di valore che appartengono al loro stesso essere (…) e noi cogliamo questo essere essenzialmente qualitativo delle cose quotidianamente, nell’atteggiamento naturale, spontaneo che abbiamo nei confronti di esse.[3] Già dalle prime pagine del testo emerge il ruolo cruciale dell’esperienza quotidiana ed il suo essere qualitativa; questa si mostra fondante per l’essenza delle cose stesse, o per meglio dire ne trasmette l’idea e con essa la forma normativa. Dall’esperienza nel vissuto delle cose infatti traiamo quella che può essere intesa come una regola od un parametro per poter comprendere se e come tale cosa possa avere una buona vita. L’esperienza del fenomeno della cosa richiama alle sue strutture interne, alla sua forma ed al suo essere, tanto da permetterci di comprende se ciò che stiamo percependo, sentendo o vedendo sia una buona manifestazione di quell’idea stessa che tale fenomeno manifestandosi mostra. L’esperienza porta sempre con sé una qualità di valore che ad un tempo individua e permette di individuare una cosa per ciò che è. Nel presentarsi a noi ognuna di queste cose per essere la cosa che è deve realizzare a suo modo (…) le qualità di valore che le sono essenziali: solo se soddisfano questa condizione le cose sono buoni esemplari del loro tipo.[4] Così facendo De Vecchi propone un nuovo modo di intendere l’ontologia sociale partendo da un correlazionismo che trova come poli il soggetto come persona o come insieme sociale vivente e vissuto che sceglie e percepisce in relazione ad oggetti che si danno sempre come qualificati, come di valore, come emotivamente caratterizzati già in prima esperienza e che, così nascendo, prendono parte a quel flusso intenzionale in cui si genera il motivazionale; in particolare le cose di cui facciamo esperienza si danno già sempre in una relazione personale che le determina e che ad un tempo determina loro ed il mondo nel quale si trovano ed in cui ci troviamo a fare esperienza nell’esistere.[5]

De Vecchi procede creando un terreno comune con il lettore, andando a costruire un lessico in cui la terminologia dell’ontologia sociale di stampo analitico viene revisionata, restituendo alle parole il loro significato in senso pieno e profondo. Come già preaccennato De Vecchi riconosce il limite della separazione fra sociale e naturale dell’ontologia sociale, limite che riproduce una sorta di dualismo cartesiano tra natura e mente. Così l’argomentazione procede riconsegnando al reale il suo senso d’esistenza procedendo in una ricostruzione del significato delle parole. De Vecchi costruisce un terreno comune con il lettore partendo dalla prospettiva di stampo analitico dell’ontologia sociale costruendo via via l’immagine di quella che propone come ontologia sociale qualitativa. Inizialmente riprende le tesi di Searle e Gilbert, i quali propongono una contrapposizione fra mondo sociale e mondo naturale; in particolare l’ontologia di matrice analitica definisce il mondo sociale come non naturale per definizione sostenendo che i fatti sociali sono creati e mantenuti dall’intenzionalità collettiva, al contrario dei fatti naturali la cui esistenza è indipendente. A questo punto De Vecchi prende in esame il concetto di esistenza che soggiace a questa definizione di partenza mostrandone la sua insufficienza; infatti la teoria analitica non prende in considerazione che qualunque fatto può essere oggetto intenzionale, che esso sia naturale o sociale. Così facendo muove verso la definizione di un gradualismo che non considera più i fatti sociali come contrapposti a quelli naturali, ma che li intende come di differente gradazione. La tesi gradualista di De Vecchi si struttura in relazione alla differente dipendenza esistenziale dei fatti, dipendenza che può essere intesa come differenti sensi ed in modo articolato e dinamico, a differenza di come proposta nell’ontologia sociale analitica.[6]

Ora, dove l’ontologia sociale propone una contrapposizione netta fra fatti naturali e fatti sociali, l’ontologia sociale qualitativa di De Vecchi, per quanto concordi nella differente origine dei due tipi di fatti, li vincola entrambi all’intenzionalità nel loro mantenimento e nelle loro modificazioni d’essere. Il ruolo dell’intenzionalità e della gradualità d’esistenza è cruciale per comprendere questo passaggio argomentativo. Searle descrive l’esistenza dei fatti naturali come oggettiva in virtù del loro darsi come fatti fisici; così facendo su questa definizione esclude poi ogni possibile descrizione qualitativa in quanto di natura soggettiva. Pur non togliendo ai fatti sociali la possibilità di essere epistemicamente oggettivi, Searle li lega al soggetto ed all’intersoggettività condivisa, che di per sé non sarebbe un problema se non fosse che in questo legame identifica la loro accidentalità, levandogli in conseguenza ogni dignità ontologica. De Vecchi sottolinea qui che sia proprio l’essere qualitativo ad essere cruciale per l’esistenza delle cose stesse, giacché le qualità di valore sono ciò che individua il senso specifico delle cose; sottolinea inoltre che proprio tali qualità permettano alla cosa di essere un buono o un cattivo esemplare del tipo di cosa a cui essa stessa appartiene. Riprendendo l’idea accennata in precedenza per cui la cosa stessa porti con sé l’idea di sé, da cui è possibile ad un tempo riconoscerla e riconoscere in che modo essa appartenga all’idea di ciò che è, tema che apre le porte alla deonticità delle essenze; ovvero, ogni cosa dandosi al soggetto presenta ad un tempo sé stessa e la valutazione di sé stessa in relazione al tipo di cosa alla quale appartiene.[7]

A questo punto De Vecchi riprende il tema dell’ontologia sociale, ricordandone la formulazione di Husserl, dalla quale vuole partire, ripartire. Husserl, ben prima di Searle aveva definito l’ontologia sociale come un’eidetica della realtà sociale, come una scienza a priori che si pone come fine il cogliere le strutture essenziali e invarianti delle entità sociali, delle varie specie di comunità sociali. All’interno della formulazione della fenomenologia Husserl formula anche il concetto di mondo della vita, fondamentale per le argomentazioni di De Vecchi, che identifica il mondo che ci circonda; mondo inteso come abitato da entità rilevanti e significative per la vita delle persone, siano esse entità naturali o artefattuali.[8] De Vecchi qui identifica la fenomenologia come un’ontologia della regione persona, intendendo la persona come soggetto di intenzionalità ad un tempo individuale e eterotropica, come soggetto nel mondo e con gli altri dove l’individualità si configura ad un tempo come singola persona e come insieme di differenti persone. De Vecchi sottolinea il continuo legame dell’individuo con il mondo che lo circonda e con gli altri, nonché sottolinea l’essere sempre motivazionale della vita del soggetto. Nel mondo il soggetto si trova a fare esperienza di oggetti che si danno già sempre come strutturati, organizzati e unitari. Gli oggetti si presentano come cose che esemplificano tipi di cose alla cui individuazione le qualità di valore partecipano in modo cruciale. L’essere di ogni cosa si dà alla nostra esperienza come intero fondato su parti che sono anche qualità di valore.[9] De Vecchi sottolinea così come le cose nel mondo non si presentino mai come neutre, ma sempre come all’interno di un piano assiologico che le definisce già in relazione al mondo della vita, in cui sono immerse, ed a sé stesse.

De Vecchi torna all’ontologia sociale di matrice analitica sottolineando come questa abbia una impostazione a-qualitativa lasciando così una lacuna ontologica che con l’ontologia sociale qualitativa si vuole per l’appunto colmare; ciò che viene messo in luce è come non si possa mai far riferimento all’esistenza di una cosa senza al contempo considerare le qualità di valore che ne sono parte costituente, giacché definiscono il suo grado di realizzazione di esistenza, indentificandola come ciò che è, come cosa di un determinato tipo. La qualità dell’esistenza con i suoi gradi di realizzazione infatti definisce l’esistenza della cosa stessa. De Vecchi sottolinea l’importanza di far sempre riferimento all’esperienza individuale ed in prima persona delle cose, esperienza che si caratterizza per essere già sempre qualitativa, condizione che permette di definire la buona vita delle cose, definendo la legalità essenziale delle cose. La fenomenologia come ontologia sociale qualitativa proposta da De Vecchi si propone di indagare il modo, l’intensità e la gradualità della cose, ovvero tutto ciò che rimane fuori dall’indagine dell’ontologia sociale di matrice analitica. Il momento fondamentale di ogni ricerca è infatti l’esperienza individuale in prima persona delle cose, in cui ogni cosa mostra il tipo di cosa che è, dandoci modo di comprendere quale sia la buona vita di tale cosa, in relazione al paradigma eidetico che essa stessa ci propone. Nell’indagine della regione persona emerge il mondo comune, il mondo della vita, il mondo in cui ci troviamo ad essere, e ad essere sempre in relazione con altri in un mondo che ci si dà già sempre come condiviso con altri che riconosciamo come persone. Riconosciamo così l’essere collettivo di alcuni soggetti che si generano dall’unione di differenti persone. De Vecchi ripropone le argomentazioni in relazione all’intero ed alla parte di Husserl, brevemente riassumibili nella tesi che l’intero non è riconducibile alla mera somma delle sue parti, giacché l’unione genera un nuovo qualitativamente determinante che non può ottenersi con il solo accostamento. A partire dalla teoria dell’uno e dei molti ci troviamo innanzi al problema di stabilire se e come un soggetto sociale possa essere inteso e nel fare questo le unità di valore racchiuse nell’idea analitica di oggettività risultano determinanti. Infatti le cose portano sempre con sé qualità di valore, o per meglio dire le qualità di valore fanno parte delle cose, ne sono una parte intrinseca inscindibile che permette di comprendere l’essenza stessa delle cose. L’astrazione dal qualitativo, per quanto possa dirsi utile in ambito scientifico, ad esempio medico, ha come conseguenza l’annullamento dell’essenza stessa della cosa che non può essere intesa senza le sue qualità delle quali facciamo esperienza. Con Husserl De Vecchi sottolinea che le qualità di valore sono parti essenziali dell’intero-cosa e che senza di esse la cosa in questione non possa nemmeno essere individuata, giacché da essa e in essa si determinano i vincoli che la definiscono.[10]

Esistendo nel mondo ci troviamo innanzi a cose che emergono come strutturate secondo vincoli di cogenza che ne determinano il tipo, le qualità ed il valore; la cosa nel darsi a noi ci manifesta i suoi paradigmi e la sua fondazione come intero. Che si tratti di prima o di seconda specie, ciò che emerge è il suo piano assiologico, il suo paradigma eidetico, la sua struttura ideale; esistendo [la cosa], realizza a diversi gradi il suo proprio eidos nel senso del suo essere ideale.[11] L’argomentazione di De Vecchi costruisce così le fondamenta per l’analisi sulla società che si compone come intero costituito da parti in una relazione duplice; De Vecchi sottolinea che ad un tempo la società si configura come unione che determina gli individui e che da essi è determinata.[12] Ora, le cose si presentano come di valore, i valori si percepiscono come un sentire innanzi alle cose, ed ogni persona risponde a suo modo a ciò che gli accade ed a ciò che gli si manifesta. Husserl aveva definito il tema della scienza sociale come ciò che di comune v’è ad ogni società, ovvero la ricerca della cosalità che fa della società la società. Così come ogni cosa manifestandosi mostra il suo eidos, allo stesso modo anche le società mostrano la loro essenza, paradigma eidetico che non muta nelle differenti società, ma definisce tutte le variazioni possibili entro i vincoli eidetici e consente dunque di rilevare le diversità effettive.

In questo dialogo con la tradizione analitica, De Vecchi sottolinea il fatto che la scissione fra naturale e sociale, fra oggettivo e soggettivo porta alla perdita delle attribuzioni di senso ad ogni cosa e nega drasticamente ogni assiologia, giacché elimina metodologicamente ogni sentire di valore. De Vecchi di contro riparte dall’esperienza in prima persona e da essa trae le strutture invarianti delle cose e quindi anche della società e, così facendo, riconsegna dignità obiettiva al valore delle cose che per quanto si consegni come personale si configura come obiettivo giacché trascende il contingente.[13]

Le argomentazioni di De Vecchi richiamano al vivere con altri proposto da Husserl, vivere in un mondo della vita che condividiamo con altre persone e che si costruisce in relazione anche ad esse. In tale mondo noi, gli altri e noi con gli altri come soggetti sociali percepiamo il mondo ed in esso emerge un piano assiologico o valoriale che, per quanto percepito diversamente a seconda delle diverse sensibilità, si mostra intrinsecamente legato all’essenza delle cose stesse; si configura così un piano soggettivo e oggettivo ad un tempo nel quale sono identificabili strutture generali ed invarianti, ovvero un piano valoriale con la sfera normativa ad esso legata. Il mondo della vita proposto da De Vecchi non si configura più come separato fra mondo sociale e mondo naturale come nell’ontologia sociale di Searle, bensì si configura come un unicum in cui ogni cosa emerge nel vissuto personale del soggetto che esiste come individuale e parte di un’intersoggettività, sulla scorta delle argomentazioni di Husserl, di Scheler e di Stein. De Vecchi fonda l’ontologia sociale qualitativa nella correlazione tra soggetto personale e cose di valore in un mondo personale[14]; così facendo oltrepassa il tema della contrapposizione fra natura e cultura, mostrando come esse si compenetrino e come non possano effettivamente essere scisse.[15]

Giungiamo ora all’ultimo tema importante affrontato dall’opera di De Vecchi, del quale, seppure per sommi capi, abbiamo delineato le fondamenta, ovvero l’ontologia sociale dei soggetti collettivi. Esistiamo in un mondo che si presenta sempre come comune, ad un tempo come individuale e come collettivo. Il nostro essere personale si definisce come intrinsecamente sociale giacché in correlazione con un mondo di cose condivise. In tale contesto possiamo cogliere la dimensione intersoggettiva, sociale e collettiva come fondamento per un’ontologia dell’essere della persona, giacché nel mostrarsi a noi delle persone è possibile cogliere l’essenza dell’essere persona. Il mondo si presenta ad un tempo come il mio mondo e come mondo collettivo, così come le cose si mostrano come di valore per noi e per gli altri affondando in un contesto motivazionale in cui il nostro flusso intenzionale si interseca a quello degli altri. L’essere persona ha nella sua essenza l’essere sociale il vivere sempre in relazione ad altre persone. Infatti come ogni cosa si relaziona alla sua cosalità, allo stesso modo l’essere persona si relaziona alla sua essenza. De Vecchi sottolinea però una caratteristica in più dell’essere persona, ovvero il suo costruirsi strutturalmente in relazione ad altri. Se Husserl parlava di insieme collettivo delle persone in relazione al vivere in un mondo condiviso, Scheler approfondiva il tema mostrando l’esistenza di un Io anonimo impersonale che precede la costruzione della singola persona facendola afferire all’essenza dell’essere persone. Da qui De Vecchi approfondisce il vivere comune facendo riferimento alla tassonomia dei profili ontologici qualitativi e definendo l’esperienza eterotropica che vincola le persone fra loro muovendo dalle valorialità che orientano le persone nel vivere e nell’agire. In questo contesto l’individuo si configura ad un tempo come persona e come parte di un soggetto sociale in cui le sue scelte possono disporsi sia come passive, ovvero quando seguono le influenze della massa senza porre su di esse analisi proprie personali, sia attive, fin tanto da essere influenti sull’essenza stessa dell’intero sociale al quale fanno parte. L’intero si configura così in un rapporto bidirezionale ove il soggetto è determinato dal contesto in cui vive e dove quest’ultimo può essere determinato dal primo. Non di meno però da tale intero, intero sociale, è possibile trarre i vincoli strutturali dell’essere struttura sociale, vincoli normativi che permettono di valutare l’insieme stesso in relazione alla sua buona vita. Lo scopo dell’ontologia sociale qualitativa è quello di fornire gli strumenti per poter rendere conto dell’essere qualitativo dei diversi tipi di cose di cui facciamo esperienza, incluso quindi il mondo della vita e l’esistere come individuo personale e collettivo all’interno di uno o più insiemi sociali, traendo da qui i vincoli che permettono la buona vita della persona come parte di un soggetto collettivo e come individualità, vincoli che si mostrano per loro natura come assiologici e normativi, dunque etici.[16]

L’ontologia sociale

Le tesi proposte da De Vecchi possono essere sostanzialmente divise in due gruppi concettuali. Da un lato troviamo il rapporto con l’ontologia sociale di stampo analitico e dall’altro l’ontologia sociale qualitativa di stampo fenomenologico; per questa ragione l’argomentazione si struttura principalmente in relazione a due poli, se da un lato si tenta di identificare quella che viene definita come la lacuna dell’ontologia sociale, dall’altro si cerca di colmare tale lacuna ripartendo dall’origine stessa del concetto di ontologia sociale. In prima battuta le argomentazioni di De Vecchi possono essere riassunte, nell’identificazione del problema delle tesi di Searle e Gilbert, che trovano il loro fondamento nella separazione fra sociale e naturale, che in conseguenza non danno alcun valore ontologico a ciò che non ricade sotto l’occhio attento della scienza, ovvero a ciò che non può essere matematizzato e/o trattato con metodi statistico-empirici. Le tesi analitiche in merito vengono argomentate prevalentemente in relazione a due argomentazioni. In prima battuta potremmo dire che ciò che segue dalle intenzionalità umane dipende da esse ed in conseguenza non può essere inteso come naturale; in seconda battuta che ciò che non è oggettivamente misurabile non ha valore oggettivo. Le argomentazioni di De Vecchi criticano entrambe queste tesi mostrando come così facendo queste elimino radicalmente il senso di ogni cosa e sottolineando come la pretesa dell’oggettività del naturale di per sé perda di senso non appena le cose perdono le loro qualità, giacché così facendo non è nemmeno possibile identificarle. In seconda battuta De Vecchi sottolinea come lo iato fra naturale e sociale non sia da intendere come nella proposta analitica, giacché sia ciò che è naturale sia ciò che è sociale dipende dall’intenzionalità umana. Infatti a non dipendere dall’uomo è solo l’origine dei fatti naturali, ma il loro perdurare permanere o cessare di esistere, così come ogni modificazione, segue parimenti ai fatti sociali dalle scelte umane.

L’ontologia sociale qualitativa

Al termine delle argomentazioni di De Vecchi ci si ritrova convinti che l’ontologia sociale analitica rimane sostanzialmente incapace ad assolvere il suo stesso compito e necessita di una nuova fondazione, che viene trovata nelle pagine di Husserl e della scuola fenomenologica. Questi ultimi definiscono l’ontologia sociale come lo studio delle forme sociali come enti, degli eide sociali che accomunano ogni società. Ne consegue che, come nel caso di ogni qual si voglia cosa, anche nel caso dei fatti sociali sia possibile giungere alla loro cosalità dal loro darsi. Ogni cosa, chiarisce Husserl nel darsi presenta la sua immagine, la sua idea, in relazione alla quale è possibile comprendere a quale tipo di cosa questa appartenga ed in quale grado questa ne sia una manifestazione. Ne consegue che vedendo una cosa, facendone esperienza, possiamo comprenderne il concetto generale al quale essa afferisce, afferrare il tipo di cosa di cui si tratta e di cui la cosa in questione è un esemplare più o meno buono (anche se non necessariamente disponiamo già del concetto adeguato, che in molti casi va reperito, modificato etc.) e sapere se ne sia una buona manifestazione. In altre parole, ciò che ci si dà nelle cose è un piano assiologico normativo in relazione al quale comprendere se e come queste si manifestano. De Vecchi muove da qui le sue argomentazioni in relazione all’essere persona, all’essere ad un tempo individuo sociale ed individuo parte di un intero sociale, ovvero persona che è sempre in un mondo che gli si dà come qualitativamente determinato e in comune con altri. La valorialità del mondo si definisce sempre in relazione a dei valori personali e condivisi ad un tempo, il vivere, l’esperire è sempre un vivere ed esperire con altri, in un mondo della vita in cui non abitiamo soli. L’esistere come persone, spiega De Vecchi, richiama ad un tempo all’essere determinati e determinanti nei confronti degli interi sociali ai  quali  apparteniamo, in quanto ci riconosciamo come parti di un insieme irriducibile alla mera somma di queste ultime, ovvero come parti che determinano e sono determinate, che sono significate e che risignificano, generando un nuovo dinamico al quale prendono per l’appunto parte nell’esistere.

Nuove vie di ricerca

La società in persona è un crocevia che apre ad alcune nuove strade. Si presenta come un’opera di rifondazione dell’ontologia sociale ripartendo da un piano metafilosofico che si interroga sul significato stesso della ricerca ontologia sociale. Le critiche mosse a Searle e Gilbert e l’idea di fenomenologia come ontologia sociale della persona portano con sé numerose nuove possibilità per continuare questa ricerca. In primo luogo, l’indagine sul problema delle ontologie sociali di stampo analitico porta ad interrogarci sulla natura stessa del metodo analitico. L’assenza del qualitativo infatti inficia non solo l’ontologia sociale, ma il senso stesso della ricerca, giacché non permette alcuna determinazione di senso. La critica potrebbe essere quindi estesa dalle ontologie sociali alla metodologia stessa della ricerca, se non anche a quei testi dai quali prende le mosse l’intera ricerca analitica, che forse portano con sé alcuni significati non ancora presi in considerazione. Brevemente, la filosofia analitica prende le mosse dal Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein opera che si staglia nel panorama della filosofia del Novecento come uno fra i testi più rilevanti del secolo, argomentando l’impossibilità di trattare il tema del senso dell’esistenza a partire dai presupposti su cui tale testo si fonda. Il problema delle ontologie sociali era il problema conclusivo del Tractatus, ovvero il problema di poter definire quello che Scheler chiama l’a priori materiale e Kant come il sintetico a priori. A nostro avviso la ricerca di De Vecchi richiama all’interrogarci già da qui in un momento di fondazione della ricerca filosofica stessa. In secondo luogo, ritroviamo sottolineato il problema dell’impossibilità di definire le cose stesse facendo venir meno le qualità, poiché esse determinano le essenze stesse delle cose. A nostro avviso questa tesi è ben più radicale di quanto non sembri restando all’interno del dibattito analitico, giacché l’intero mondo svanisce non appena vengono meno le qualità, la stessa matematizzazione della realtà diventa incomprensibile non appena le cose perdono il loro senso. L’oggettività infatti altro non è che una soggettività condivisibile per mezzo di parametri. Ogni volta che distinguiamo una cosa da un’altra lo facciamo per mezzo di unità di senso che si manifestano qualitativamente. L’esistere è sempre esistere ad un soggetto, quand’anche si tratti di un soggetto ipotetico, senza soggetto l’oggetto non può strutturalmente darsi, perché non vi sarebbe nessuno al quale si dà. Il concetto di realtà e di mondo sono sempre intesi in relazione ad un soggetto, senza per questo perdere la loro trascendenza rispetto all’apparire che rimanda sempre ad un’idea che procedendo dall’esperienza oltrepassa il contingente. Nella Critica della ragione pura Kant chiariva come l’oggettivo non ha alcun valore ontologico giacché solamente un mezzo teorico per il calcolo, ma senza nessun fondamento di realtà, in quanto segue da postulati interpretativi che si fondano nel soggetto; ciò che ha valore ontologico è “la cosa nel come” dei suoi modi di datità, non la cosa “in sé”. Volens nolens noi siamo soggetti e non possiamo sfuggire dall’esistere in prima persona in un decorso storico presente che affonda in un passato che ci ha determinato e l’intenderci come tali apre ad una possibile forma di obiettività che senza tale considerazione non possiamo assolutamente nemmeno ideare. Noi siamo condizione sine qua non del fare esperienza del mondo. L’oggettivo è per sua natura noumenico, ed il mondo non è nel noumeno, bensì nel rapporto fra noi ed il mondo. Le cose, il mondo, la realtà si strutturano nel rapporto soggetto mondo, nelle pieghe del darsi trascendentale, fra l’occhio e l’oggetto che riflette la luce generando il colore. Se leviamo la relazione al soggetto il mondo semplicemente non esiste, giacché l’esistere segue alla relazione con un soggetto, determinandosi nel rapporto della coscienza con ciò che contrasta in differenti modi al suo pensiero, come ciò che la stimola e che la inerisce suo malgrado. Il soggetto crea e si crea in relazione all’altro da sé che gli si dà come mondo, come altro da sé.

Queste argomentazioni sostanziano la tesi di De Vecchi , ovvero l’essere sempre sociale dell’individuo. Con una breve fenomenologia dello scoprirsi a sé, del diventare coscienza, emerge come noi prima d’ogni altra cosa reagiamo ad un mondo che ci inerisce con violenza e ci piega principalmente con il dolore; in questa situazione riconosciamo diversi modi per cambiare il nostro stato. Il tentativo di affermare la nostra volontà mostra diversi limiti, mostra cose che seguono il nostro volere in diversi gradi, la nostra mano si muove immediatamente prima del nostro pensare di muoverla, o immediatamente dopo, la nostra corporeità segue alla nostra volontà nella prossimità del nostro volere, precedendo o seguendo al pensiero, mentre gli altri oggetti devono essere mossi dal nostro corpo per seguire al nostro volere e non tutti possono essere mossi con la stessa facilità ed alcune corporeità non si lasciano piegare alla nostro volere. Dal genitore che dice “No”, all’altro che agisce come se anch’esso avesse coscienza, e ci si impone con direttive e ordini, e che agisce prendendosi cura di noi, riconosciamo noi stessi in una relazione di volontà di coscienza che si relazionano fra loro. Noi per essere noi abbiamo bisogno di un altro da noi che definisca che cosa è altro. Dal rapporto con l’altro si forma l’Io, che apprende e copia il comportamento altrui, la lingua le abitudini, apprende i modi di affermare sé stesso in un contrasto che è un compatire, nel senso etimologico del termine, che è un provare emotivo, qualitativo insieme agli altri l’esistere in un mondo che non si piega alla volontà come mera corporeità.

Giungiamo dunque a due momenti fondamentali a cui ci porta l’indagine di De Vecchi, ovvero la conclusione dell’essere sempre come individuo intersoggettivo ed il problema dell’esistere etico. In primo luogo, l’Io si forma nel rapporto con l’altro interiorizzando l’altro e creandosi come altro da sé. Perdendo l’onnipotenza l’infante inizia a progettarsi in relazione all’idea di ciò che vuole essere divenendo bambino e poi adulto. Si riconosce come l’altro che non è più, persa l’onnipotenza insegue tale immagine nel tentativo di riaffermarsi, di riportare il mondo o sé stesso a riconoscere quella sua volontà che i primi momenti di vita gli hanno mostrato come non riconosciuta. L’atto cartesiano dell’affermarsi Io sono è l’atto di darsi valore ontologico di eidos di sé come ente, come essere e non ancora come esistere nella sua totalità. L’uomo così agisce inseguendo quell’immagine di sé che tenta di darsi agli altri per sé stessa nel suo massimo grado, in relazione al suo non riconoscersi tale e da qui si afferma il contrasto tra ciò che siamo qui ed ora nell’esistenza e quell’essere che idealmente siamo come totalità ontologica di noi, come eidos del sé non ancora realizzato nel suo grado pieno. Qui l’educazione e l’autoeducazione assumono un ruolo cruciale nell’essere etico di sé come io con altri e come io con l’altro da me che è la mia essenza nella possibilità della progettazione di sé. L’infante guidato al pensiero, al dialogo muto che l’anima ha con sé stessa, al rapporto Io eidos di sé che genera l’essere dell’uomo. Nell’educazione si porta al pensiero, alla duplicità del riconoscersi individuo duplice che è idea di sé incompiuta e che esiste come tentativo di realizzarla, individuo dunque sempre in relazione che dapprima viene educato e che poi si auto educa ad essere ciò che vuole essere nella progettazione di sé nel mondo che è sempre mondo con altri, e che lo sarebbe quand’anche non ci fosse nessuno, ma in relazione alla possibilità dell’altro che fonda il pensiero. L’uomo che si progetta come idea di sé si progetta affinché possa darsi a sé stesso ed agli altri come ciò che vuole essere. Questa relazione Io-sé prevede dunque strutturalmente l’altro nel suo fondamento.

Così De Vecchi conduce ad un nuovo inizio, a nuove vie di ricerca non ancora affrontate che possono seguire dalla sua opera; in particolare sul tema dell’essere con altri in società. A nostro avviso risulta necessaria l’educazione e l’auto educazione al pensiero ovvero al rapporto con l’altro che siamo a noi stessi e che è a noi stessi. In quest’ottica l’ontologia sociale qualitativa si definisce come il pensiero di per sé se intesa nel senso originale di Husserl, ovvero come il pensare fenomenologicamente all’essere che è si disvela nella relazione Io mondo individuale soggettiva dell’essere sempre nel mondo individuale privato e collettivo. Rimangono dunque aperte le vie della ricerca sull’educazione ed autoeducazione all’essere come essere etico in relazione all’essere nel mondo con altri, ovvero un’indagine estetica fenomenologica dell’essere nel mondo che si occupi di tracciare l’assiologia con cui potersi definire rispetto a sé stesso in relazione alla propria buona vita dell’essere sempre l’altro per sé che si prende cura di sé stesso nell’essere altro dal proprio eidos e nell’essere sempre tentativo di divenire tale eidos agli altri, di cui esso stesso fa parte. Si configurano così nuove vie di ricerca per quell’Io che è il suo mondo di cui parlava Wittgenstein, in un senso completamente nuovo, in un senso ontologico sociale qualitativo che definisca un’assiologia della buona vita.


[1] Cfr. John R. Searle. Making the Social World: The Structure of Human Civilization, Oxford University Press, 2010.

[2] Cfr. Margarete Gilbert. Il noi collettivo, Impegno congiunto e mondo sociale, F. De Vecchi, Cortina, Milano, 2015.

[3] De Vecchi, Francesca. La società in persona, Ontologia sociale qualitativa, Il Mulino, Bologna, 2022, pp.7-8.

[4] Ivi p.8.

[5]Cfr. Ivi.pp.8-9.

[6]Cfr. Ivi.pp.13-18.

[7]Cfr. Ivi. pp.18-21.

[8] Ivi. pp. 21-22.

[9] Ivi. p. 22.

[10]Cfr. Ivi. pp. 22-38.

[11] Ivi. p. 41

[12] Cfr. Ivi. pp. 38-97.

[13] Cfr. Ivi. pp. 97-98.

[14] Ivi. p. 119

[15] Cfr. Ivi. pp. 98-119

[16] Cfr. pp. 119-243.

Luz Ascarate: Imaginer selon Paul Ricœur

Imaginer selon Paul Ricœur: La phénoménologie à la rencontre de l’ontologie sociale Couverture du livre Imaginer selon Paul Ricœur: La phénoménologie à la rencontre de l’ontologie sociale
Le Bel Aujourd'hui
Luz Ascarate
Hermann
2022
Paperback 28,00 €
282

Reviewed by: Sergej Seitz (University of Vienna)

Luz Ascarate’s dissertation Imaginer selon Paul Ricœur is a thorough study of Ricœur’s philosophy of imagination. It will be well received by at least three groups of readers. (1) Ricœur scholars will find in Ascarate’s book a novel interpretation of Ricœur’s philosophical oeuvre. Not only propounding yet another reconstruction of Ricoeur’s take on imagination (Kearney 1988; Taylor 2006), Ascarate’s account presents imagination as the key concept of his thought, structuring both his early phenomenological writings and his later hermeneutic and social-ontological reflections. (2) Phenomenologists will be drawn to the way the book retraces Ricœur’s explication of the pivotal role of imagination in phenomenological methodology. While in Husserl imagination remains by and large an operative concept,[1] Ricœur is the first to highlight the crucial “place of imagination in the philosophical method of foundation” (Ascarate 2022, 15), as Ascarate shows.[2] (3) Social and political philosophers, finally, will be interested in Ascarate’s reconstruction of how Ricœur’s phenomenology of imagination may inform the critical analysis of (ideological and utopian) social imaginaries, thus launching a dialogue between phenomenology and critical theory.

Combining these three points of intervention, Ascarate’s general aim is to sketch, with Ricœur, the contours of a post-foundationalist social ontology that unveils both the constitutive and the subversive functions of imagination at the heart of social relations. Crucially, this endeavor is not framed as a timeless philosophical reflection but as a response to contemporary social challenges. In view of a new foundational crisis—similar to the one Husserl takes as his point of departure in his Krisis book—Ascarate holds that it is high time to resuscitate imagination as a radical social and political force. Reclaiming imagination and the imaginary as the primary resources of our (inter)subjective self-understanding is necessary to counter neoliberal reification and the infamous ideological belief that “there is no alternative.”

As Olivier Abel notes in his favorable preface, Ricœur is indeed a promising interlocutor in this regard. On the one hand, Ricœur recognizes the “emancipatory potential” of imagination and its ability to “enlarge the sense of the real” (8) by disclosing hidden possibilities. On the other hand, he does not fall prey to the idea of an imaginary “creatio ex nihilo” (Castoriadis 1975; Papadimitropoulos 2015) that reproduces the metaphysical illusion of the imagining subject as an absolute, autonomous origin.[3] Following Ricœur, Ascarate stresses the productive power of imagination while at the same time recognizing the responsive condition of a human subject that never intervenes “out of nothing,” but inevitably acts within an already constituted socio-historical world.[4]

The book is divided into two parts. In the first part, Ascarate reconstructs Ricoeur’s phenomenology of imagination in a roughly chronological manner, starting with (1) his “Husserlian heritage” and his early phenomenology of the will before proceeding to (2) the role of imagination in his hermeutics of symbols and to (3) his later reflections on ontology and anthropology. The second part deals with the import of Ricoeur’s thinking of imagination for social ontology. Here, Ascarate begins by (4) sketching the contemporary discourse in critical theory and post-foundationalist social philosophy before (5) outlining a phenomenology of utopias. In what follows, I trace the main steps in Ascarate’s argument before pointing out some problems and indicating how, in my view, critical reflection should proceed.

Ascarate does not confine herself to Ricœur’s published works but also takes into account his lecture courses (such as the important, yet still unpublished, Lectures on Imagination held in Chicago in 1976)[5] as well as his translator’s notes on the early translation of Husserl’s Ideen I (Husserl 1950) done during the war. Right from the beginning, Ricœur construes imagination as the philosophical faculty par excellence. As Ascarate makes clear, we find the conviction that doing philosophy would not be possible without the imaginary suspension of factual reality already in his early work. Even more than that, according to Ricoeur, phenomenology as a method is not feasible without the faculty of imagination. What Husserl calls epoché, the bracketing of our natural attitude toward the world, requires the ability to neutralize the grip of reality. In this sense, “imagination can appear as the foundation of phenomenology” (41). It is precisely this neutralizing function of imagination that Ascarate focuses on throughout her book. Phenomenological research involves neutralizing or suspending reality—not in the sense of denying it, but in terms of disclosing the contingency of its factual conditions. In this vein, Ascarate also speaks of the “suspending function of imagination” (76).

Imagination is not, however, confined to facilitating the epoché. As Ascarate emphasizes, Ricœur also shows that and how the eidetic reduction requires imagination. The intentional varying of an object’s characteristics that is at the heart of this methodological device of classical phenomenology would be impossible without the faculty of imagination. In this way, imagination surpasses perception. While perception (Wahrnehmung) always involves ‘value-ception’ (Wertnehmung), as Scheler points out (Scheler 1980, 205), it remains bound to the order of facts—to the specific way, that is, in which objects are empirically organized in the world. In the eidetic reduction, by contrast, imagination “deterritorializes our perception” and “breaks the order of facts” (47) that perception reveals. In short, where perception only registers facts (the given empirical reality), imagination penetrates the realm of essences.

Imagination thus plays a double role in phenomenological methodology. On the one hand, it is what suspends the firmness of empirical reality under the epoché: “Ricœur appropriates Husserl’s conviction to break the kingdom of the empirical law by force of the liberty of imagination in order to access the field of the possible” (69). On the other hand, imagination makes possible the eidetic reduction by allowing us to transcend the contingent world of facts and push through to the world of essences. Writing about the “illustrative function of imagination,” Ricœur claims that “fiction is the true revealer of essence” (Ricoeur, in Husserl 1950, 24). It discloses precisely what cannot be otherwise: “imagination … reveals, by way of free variation, the true resistance of essence and its non-contingency” (Ricoeur, in Husserl 1950, 223).

Turning to Ascarate’s presentation of the role of imagination within Ricœur’s own philosophy of the will, imagination functions as the precondition of decision and action. Imagination presents possibilities for intervention, thus directing our will toward the future. There is no genuine decision without imagination. At the same time, imagination can render us passive and lure us away from action whenever the “charm of an unreal” prompts “an escape from reality” (80). That is to say, even as imagination is oriented toward the absent, the other, and the beyond, it needs to remain bound to the present and the conditions of reality, at least to some extent.

This, Ascarate suggests, becomes especially clear in Ricœur’s thinking about evil and human fallibility in Fallible Man (Ricœur 1986). To understand the human condition of moral fallibility, Ricœur argues, we must first come up with a notion of innocence. For without a preliminary and counterfactual understanding of innocence, some inclination or other could not even be identified as evil (see also Ascárate 2021). Because we are never truly innocent, however, we cannot perceive innocence in its purity. Again, imagination has to step in, furnishing an “imagination of innocence” (112). This imagination of innocence displays our own innocence as a (forever unrealized) possibility. This is not some Hegelian daydream in which I imagine myself as beautiful soul with a clean moral sheet. As Ricœur emphasizes, “this imagination is not a fanciful dream; it is an ‘imaginative variation’, to use a Husserlian term, which manifests the essence by breaking the prestige of the fact. In imagining another state of affairs …, I perceive the possible, and in the possible, the essential.” (Ricœur 1986, 112) Thus, the imagination of innocence discloses not so much a random possibility among others as my essential humanity, while at the same time always running the risk of regressing into self-righteous reverie.

Indeed, every philosophical discourse is to some degree a walk on a tightrope on the edge of deceptive imagination. As evidenced by his reflections on symbols and symbolism, Ricœur is well aware of this. The fact that all thought takes place within a specific language and within a specific symbolism and imaginary does not mean that the philosopher has to renounce the idea of beginning anew. However, there is no beginning anew without some presuppositions. Thinking in and with symbols is what gives our thoughts content, but at the same time symbolism “introduces radical contingency” (Ricoeur 2004, 399) into our discourse. Ascarate argues that “the symbol is the eidos from the point of view of its contingency, an eidos from the point of view of its imaginary foundation that cannot be fully explicated” (134). Acknowledging the imaginary foundation of essence in this way leads to the surprising conclusion that essence is not simply discovered but always to some degree invented. In this context, Ascarate cites the Lectures on Imagination, where “Ricœur argues … that the imaginary variations take on a productive and creative function, for instead of verifying a concept they create new concepts” (167). As it turns out, the eidetic reduction is, to speak with Kant, not so much a kind of reproductive imagination as a kind of productive imagination.

Indeed, as Ascarate’s study makes clear, concerning the classical distinction between reproductive and productive imagination, Ricœur proves to be a fierce advocate of the latter. Apparently, one of his most elaborate pleas for productive imagination is to be found in the soon-to-be-published Lectures on Imagination. Here, Ricœur argues that it is only in productive imagination that we get an unobstructed view of the phenomenon of imagination. For as long as it is conceived in terms of reproduction, imagination is held captive by perception, making the former but a second-rate compensation for, or maidservant of, the latter. (Ascarate mentions that Ricœur accuses Sartre and Ryle of reducing imagination to this reproductive role.) Productive imagination, by contrast, roams freely, evading the suffocating grip of perception.

To see imagination in all its productivity, it is necessary, Ricœur argues, to cut the cord tying it to the image. Conceiving of imagination in terms of an image (an image-portrait, a depiction of something that already exists) inevitably leads to neglecting imagination’s creative powers. While reproductive imagination is associated with this notion of an image-portrait, productive imagination, as Ricœur understands it, ought to be thought of in terms of fiction. Productive imagination has the power to “open our mind to new perspectives on the real” (165). This again foreshadows the emancipatory function of utopian narratives: “productive imagination has an ontological force,” Ascarate writes, “that consists in enlarging and producing new visions of the world and new ways of seeing things. Thus, it can change our way of being in the world” (166). In renouncing the pictorial function of image-portraits, productive imagination is thus closer to language than to the visual realm. As Ascarate shows, Ricœur gains this insight from Gaston Bachelard and his phenomenology of poetic imagination (Bachelard 1983). True poetry, as in the case of the living metaphor, constitutes an event in the most radical sense: the birth of new meaning (Ricœur 2003; see also Seitz and Posselt 2017; Flatscher and Seitz 2023). Metaphor is in this sense language in statu nascendi: “According to Ricœur, Bachelard makes a decisive step … by understanding the new as an event born in language and through it.” (169) Bachelard’s conception of poetic imagination supports the “hypothesis of another life” (169).

However, as Ascarate makes clear, Ricœur does not stop here but in fact goes beyond Bachelard, arguing that productive imagination is not restricted to poetic metaphors. Far from being confined to art, productive imagination is at work even in scientific discourse. In Ricœur’s view, scientific models are the result of productive imagination, too; what science comes up with is not merely a picture of the real. In poetry as well as in science, “imagining does not consist in making appear what is absent from perception, but rather in edifying an autonomous sense.” (Foessel 2014, 245) This interest in the possibility of the new, Ascarate notes, is what unites Kant’s, Husserl’s, and Ricœur’s reflections on imagination. (One could also add Arendt to the list, who locates productive imagination at the heart of political judgment, referring to Kant’s notion of enlarged mentality [erweiterte Denkungsart], see Arendt 1992; Zerilli 2016).

Against this background, Ascarate seeks to draw from her reconstruction of Ricœur’s thinking of productive imagination both ontological and anthropological consequences. On the ontological level, Ascarate sketches how Ricœur’s take on imagination may engender a new ontology, an “ontology of the possible (175) or an “ontology of hyperreality” (30). The concept of hyperreality, although rather underdeveloped throughout the book, points to a conception of reality that does not limit the real to what is factually given but includes the possible. The possible, then, is not a separate sphere neatly cut off from the real but forms an intrinsic part of reality. On the anthropological level, (productive) imagination is framed as a uniquely human faculty. In Ascarate’s words, “the human being is the one who imagines; or the human being is the one who creates new possibilities from the real” (181). In this sense, the “productive function of imagination” (187) is what makes the essence of the human being.

It is here that the therapeutic import of Ricœur’s philosophy of imagination comes in. Productive imagination, Ascarate hopes, may enables us to respond to the present “crisis of sense” (146). Philosophy must combat the hegemony of instrumental rationality in which reason has lost its emancipatory force. Resuscitating this force requires that we draw on human creative power as “the experience of a human being to suspend the given world and access the possible” (189). Imaginative creativity should then help us reacquaint ourselves with the possibility of bringing about new ways of living together, new social foundations, and new ways of forging the social bond. Ascarate even trusts the “phenomenology of fiction” to assume the role of “a first philosophy for times of crisis: it would be a thinking that searches for foundations in an epoch that has lost them; an opening toward new ways of thinking” (191).

To explicate the critical and social-ontological implications of Ricœur’s philosophy of imagination, Ascarate draws primarily on his Lectures on Ideology and Utopia (Ricoeur 1986). Her goal is to show the relevance of Ricœur’s conception of imagination for critical theory and post-foundational social philosophy. Ricœur’s phenomenological account of ideology and utopia could, Ascarate argues, open up a new perspective on the critique of ideology, thus bringing into dialogue phenomenology and the Frankfurt school.[6]

In his analysis of the relation between ideology and utopia, Ricœur makes use of Karl Mannheim’s Ideologie und Utopie (Mannheim 2015). As Ascarate shows, Ricœur twines the phenomenological, hermeneutic, and anthropological strands of his thought together to give an account of the social and political imaginary in its various guises. Ricœur starts off by reformulating Mannheim’s distinction between ideology and utopia in Kantian terms: “utopia is the fiction of productive imagination and ideology is reproductive social imagination” (213). From a phenomenological perspective, then, utopia is a function of productive imagination. What is more, Ricœur explicitly associates utopia with Husserl’s idea of eidetic reduction. Utopia “is close to the imaginary variations around an essence as proposed by Husserl” (Ricoeur 1986, 36). (Which begs the question, of course, whether the assumption of an authentic essence runs the risk of blunting utopia’s critical edge.)

Ascarate also emphasizes that Ricœur does not simply pit utopia against ideology. Rather, he argues that both ideology and utopia have “constitutive as well as pathological dimensions” (214). Ideology’s constitutive function is social integration. It generates a sense of affiliation and belonging. In contrast to classical Marxian approaches, Ricœur renounces the idea of ideology as mere distortion of reality. As a form of social and political imagination, ideology does not primarily disguise material conditions but is constitutive of social cohesion. Utopia, for its part, can assume a pathological modality once it regresses into mere denial: “utopia is effectively pathological whenever it presents itself as a flight from reality” (253), causing us to lose ourselves in the passivity of fascination or reverie. Instead of dissolving reality, utopia has to reveal reality in a different way by providing an imaginary exterior standpoint. As Ascarate writes, “when utopia’s exterritoriality is turned toward reality, its constitutive, creative, and critical force is unleashed” (256).

Here, Ricœur distances his phenomenological account of ideology and utopia from Mannheim’s. Mannheim is concerned about the ways in which ideology and utopia attack the status of social facts. While ideology reifies facts, displaying them as unchanging, naturally given entities, utopia fails to recognize the binding character of facts, presenting them as arbitrarily changeable (Mannheim 2015). Ricœur, however, does not share Mannheim’s concern with regard to utopia: “Ricœur insists on the positive aspects of utopia, that is, on the constitutive or productive function of imagination” (231–2). Seen from this perspective, the pronounced distance to reality is not utopia’s weakness but its strength. Instructive in this respect is Ascarate’s mention of the different paradigms of utopia in Mannheim and Ricœur. In Mannheim, the paradigmatic utopia is Thomas Münzer’s anabaptism. Ricœur, by contrast, turns to Thomas More’s Utopia. Mannheim cherishes Münzer for his active desire and engagement to realize his utopia (in a religious revolution). For Ricœur, it is precisely utopia’s unrealizability that makes it a productive social and political force. The fact that utopia cannot turn its back on reality does not mean that the gap between reality and utopia should simply be closed. For this gap ensures society’s openness and non-totalization. In this sense, utopian thinking is necessary for any human community: “while it is possible to imagine a society without ideology, to think of a society without utopia amounts to creating a society without purpose: no longer exceeding reality would lead to a facticity that marks the ruin of human will” (237). In this view, exceeding factual reality is a matter of life and death for any genuinely human society. It is not the lack of congruence with reality that makes utopia constitutive of the social but the aspiration “to undermine the established order” (239).

Ascarate emphasizes that utopia unites imagination and emancipation. Imagination has to break with the past. Ricœur puts into question Marx’s distinction between interpretation and transformation. For utopian imagination at once interprets and transforms reality. This also points to the essentially antagonistic character of utopia that is already stressed by Mannheim. Every utopia implies an anti-utopianism launched against other utopian proposals: “in every utopia there is a counter-utopian aspect directed against another utopia. This antagonism dynamizes the relation between utopias” (235). The communist utopia, for example, denounces all other utopias as ideology, which also inhibits a clear-cut, ahistorical distinction of ideology and utopia. What seems utopian from one political perspective can appear ideological from another.

Despite its antagonistic character, Ricœur praises utopia for its potential of nonviolent transformation. In order to bring about something new, we have to break with the past, but this rupture should not be achieved by violence, Ricoeur argues, but by imagination: “instead of violence, imagination has to perform the break with the past” (Ricoeur 1986, 378). Ascarate notes that Ricœur’s role models in this context are Saint-Simon and Fourier. Utopian socialism favors imagination over violence. As Ricœur emphasizes with Fourier, utopia not only demands the possible but also that which, in a given situation, seems impossible. From this perspective, utopia seems to be the test case for the ontology Ascarate envisages in her reading of Ricœur—namely, a philosophy of hyperreality that conceives of reality not in terms of an abstraction from the possible but as a recognition of the manifold horizons of possibilities, even if they remain unacknowledged.

By way of conclusion, I raise some critical questions and mark points of departure for further reflection. These concern (1) the inner structure and articulation of the phenomenon of imagination, (2) the status of passivity in relation to the social imaginary, and (3) the search for foundations within a post-foundationalist framework.

First, let me note that, in my view, one of the merits of Ascarate’s book is the way it manages to capture the complexity of the phenomenon of imagination as well as its many dimensions. Note the long list of different functions of imagination that are discussed throughout the book. Needless to say, given that Ricœur “considers it the central function of imagination” (161), the function of neutralization or suspension looms large. However, reference is also made to an “emancipatory function” (8), a “practical function” (39), an “illustrative” and “exemplary function” (42), an “evasive” function (83), an “intermediary function” (97), a “productive function” (99), a “creative function” (125), an “integrative” and “distortive” function (of ideology, 213, 216), a “critical function” (of utopia, 229), and a “constitutive function” (232) of imagination. This list underscores imagination’s many faces. Ascarate does not, however, investigate how these different functions are interrelated. It remains unclear, for instance, whether some of them are mere synonyms or whether some are more fundamental or more primordial than others. Given that a phenomenology of imagination has to explicate the compossibility of imagination’s various functions, what we require is a more detailed and comprehensive cartography of its fault lines. This could also entail a less egological account of imagination, especially in regard to questions of political imagination. The attempt to render the phenomenology of imagination productive for social ontology can only succeed if it enables us to think of imagination in terms of collective acts and intersubjective processes (see Seitz 2022).

This becomes all the more urgent, second, in light of Ascarate’s/Ricœur’s aim to integrate imagination within an ontology of possibility and an anthropology of the capable subject. In this framework, the positive, productive, and creative aspects of imagination take center stage. Imagination’s productivity, its creative power, and its disclosing force always are presented as somehow ‘more essential’ than its deceptive, reproductive, and ideological aspects. This raises the question of how the coercive function of the social imaginary, the repressive function of ideology, and the fixating function of reproductive imagination are to be explicated within an approach that focuses primarily on human capabilities. For within such an approach, the passive aspects of our socio-political being come into view only as secondary, derivative, or pathological phenomena. On the other end of the spectrum of conceptualization, as Andreas Hetzel recently outlined with recourse to Bachelard, the contours of a different phenomenology of imagination come into relief—one that no longer thinks of imagination as the subject’s autonomous capability but as “a capability of the images themselves, the capability of presenting themselves before our eyes. Imagination would then be not so much the … capability of producing images as a consciously sought-out incapability, a readiness to be fascinated by the images … in their activity and waywardness” (Hetzel 2021, 112; see also Calin and Hetzel 2021). I bring this up to indicate the different routes theorization can take within the phenomenology of imagination—and to suggest that the problem of how to reconcile the intuition that imagination forms an essential part of human autonomy with the observation that imagination (or ‘the imaginary’) is all too often precisely what holds us firmly in its grip rather than what we command still remains to be solved.

This leads, third, to the question of autonomy or heteronomy in the context of the institution of social and political foundations. In my view, Ascarate remains rather vague in this respect. On the one hand, she inscribes Ricœur’s reflections on imagination into the discourse on post-foundationalist political philosophy, where the possibility of ultimate, transcendental foundations is rejected in favor of the need for contingent, historical foundations (Marchart 2018; Butler 1995). On the other hand, her diagnostics of crisis appears at times quite nostalgic, mourning the loss of an era where social foundations were not yet in question. Take, for instance, Ascarate’s description of the phenomenologist’s role in the present: “The phenomenologist is, for us, the one who still dreams of evidences in a world that has lost them; the one who” remains faithful to “those that search for foundations” (266). By contrast, we could ask whether it was not at times precisely the quest for strong foundations and infallible evidence that prevented us from genuinely dreaming. In other words, the nostalgic stance toward lost foundations seems incompatible with the post-foundationalist theory framework Ascarate claims to employ. Note, though, that such compatibility is not even desirable. As I see it, Ascarate has exemplarily shown how phenomenology can today proceed without continuing to be haunted by the specter of absolute evidence, which may also be one of the liberating powers of imagination in phenomenology.

Acknowledgments

I thank Matthias Flatscher and Anna Wieder for their helpful comments and remarks.

Funding Information

This work has been funded by the European Union (ERC, PREDEF, 101055015). Views and opinions expressed are however those of the author(s) only and do not necessarily reflect those of the European Union or the European Research Council Executive Agency. Neither the European Union nor the granting authority can be held responsible for them.

References

Adams, Suzi, ed. 2017. Ricoeur and Castoriadis in Discussion: On Human Creation, Historical Novelty, and the Social Imaginary. London/New York: Rowman & Littlefield.

Arendt, Hannah. 1992. Lectures on Kants Political Philosophy. Edited and with an interpretive essay by Ronald Beiner. Chicago: The University of Chicago Press.

Ascarate, Luz. 2021. “The Imagination: From Ideation to Innocence.” In A Companion to Ricoeur’s Fallible Man, edited by Scott Davidson. New York/London: Lexington.

———. 2022. Imaginer selon Paul Ricœur: La phénoménologie à la rencontre de l’ontologie sociale. Paris: Hermann.

Bachelard, Gaston. 1983. Water and Dreams: An Essay on the Imagination of Matter. Translated by Edith R. Farrell. Dallas: The Pegasus Foundation.

Butler, Judith. 1995. “Contingent Foundations: Feminism and the Question of ‘Postmodernism’” In Feminist Contentions: A Philosophical Exchange, edited by Seyla Benhabib, Judith Butler, Drucilla Cornell, and Nancy Fraser. New York/London: Routledge.

Calin, Rodolphe, and Andreas Hetzel. 2021. “Einleitung.” In Kultur – Sprache – Einbildungskraft: Gaston Bachelard und die deutschsprachige Philosophie, edited by Rodolphe Calin, Andreas Hetzel, and Eva Schürmann, 11–20. Stuttgart: frommann-holzboog.

Castoriadis, Cornelius. 1975. L’institution imaginaire de la société. Paris: Seuil.

———. 1997. Fait et à faire: Les carrefours du labyrinthe 5. Paris: Seuil.

Flatscher, Matthias, and Sergej Seitz. 2023. “La métaphore vive.” In “Kraft” der Hermeneutik: Das Paradigma des Werkes Paul Ricoeurs, edited by Burkhard Liebsch. Freiburg/München: Alber.

Foessel, Michaël. 2014. “Action, normes et critique: Paul Ricoeur et les pouvoirs de l’imaginaire.” Philosophiques 41 (2): 241–52. https://doi.org/10.7202/1027217ar.

Hetzel, Andreas. 2021. “Die innere Unermesslichkeit: Bachelards Phänomenologie der Einbildungskraft.” In Kultur – Sprache – Einbildungskraft: Gaston Bachelard und die deutschsprachige Philosophie, edited by Andreas Hetzel, Rodolphe Calin, and Eva Schürmann, 111–47. Stuttgart: frommann-holzboog.

Husserl, Edmund. 1950. Idées directrices pour une phénoménologie et une philosophie phénoménologique pures. Translated by Paul Ricoeur. Paris: Gallimard.

———. 1983. Ideas Pertaining to a Pure Phenomenology and to a Phenomenological Philosophy, First Book. Translated by F. Kersten. The Hague: Nijhoff.

Jansen, Julia. 2016. “Husserl.” In The Routledge Handbook of Philosophy of Imagination, edited by Amy Kind, 69–81. New York/London: Routledge. https://doi.org/10.4324/9781315657905.

Kearney, Richard. 1988. “Paul Ricoeur and the Hermeneutic Imagination.” Philosophy & Social Criticism 14 (2): 115–45. https://doi.org/10.1177/019145378801400202.

Mannheim, Karl. 2015. Ideologie und Utopie. 9th edition. Frankfurt/M.: Klostermann.

Marchart, Oliver. 2018. Thinking Antagonism: Political Ontology After Laclau. Edinburgh: Edinburgh UP.

———. 2019. Die Politische Differenz: Zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und Agamben. 4th edition. Berlin: Suhrkamp.

Merleau-Ponty, Maurice. 1969. The Visible and the Invisible. Edited by Claude Lefort. Translated by Alphonso Lingis. Evanston: Northwestern UP.

Papadimitropoulos, Vangelis. 2015. “Indeterminacy and Creation in the Work of Cornelius Castoriadis.” Cosmos and History: The Journal of Natural and Social Philosophy 11 (1): 256–68.

Ricœur, Paul. 1986. Fallible Man: Philosophy of the Will. Translated by Charles A. Kelbey. Revised edition. New York: Fordham UP.

Ricoeur, Paul. 1986. Lectures on Ideology and Utopia. Edited by George H. Taylor. New York: Columbia UP.

Ricœur, Paul. 2003. The Rule of Metaphor: The Creation of Meaning in Language. Translated by Robert Czerny with Kathleen McLaughlin and John Costello, SJ. London/New York: Routledge.

Ricoeur, Paul. 2004. The Conflict of Interpretations. Essays in Hermeneutics. Edited by Don Ihde. London: Continuum.

Scheler, Max. 1980. Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik: Neuer Versuch der Grundlegung eines ethischen Personalismus. 6th edition. Bern/München: Francke Verlag.

Seitz, Sergej. 2022. “Affirmative Refusals: Reclaiming Political Imagination with Bonnie Honig and Lola Olufemi.” In Genealogy+Critique 8 (1): 1–22.

Seitz, Sergej, and Gerald Posselt. 2017. “Theorien der Metapher: Die Provokation der Philosophie durch das Unbegriffliche.” In Handbuch Rhetorik und Philosophie, edited by Andreas Hetzel and Gerald Posselt, 421–48. Berlin/New York: De Gruyter.

Taylor, George H. 2006. “Ricoeur’s Philosophy of Imagination.” Journal of French and Francophone Philosophy 16 (1–2): 93–104.

Zerilli, Linda M. G. 2016. A Democratic Theory of Judgment. Chicago/London: The University of Chicago Press.


[1] That is not to say, of course, that the phenomenon of imagination eludes Husserl. As Julia Jansen points out, “[h]ardly any other philosopher in the history of philosophy has paid as much detailed attention to the nature of imagining and to the distinct characteristics of imagined objects as Husserl” (Jansen 2016, 69). Ascarate’s point is that though Husserl indeed calls imagination the “vital element” (Husserl 1983, 160) of phenomenology, he nonetheless privileges perception as the default form of intentionality.

[2] All translations from Ascarate’s book and other non-English sources are my own.

[3] The question of whether imagination is to be construed either as creation or as responsive productivity is at the center of the debate between Ricœur and Castoriadis (Adams 2017). Note, also, that Castoriadis repeatedly defends his account against this criticism, see (Castoriadis 1997).

[4] This conception seems close to Merleau-Ponty’s idea of “coherent deformation” (Merleau-Ponty 1969, 262).

[5] These lectures are currently edited by George Taylor and will be published in 2023.

[6] Ricœur’s attempt to rethink the social bond as constituted by the imaginary powers of ideology and utopia may, Ascarate argues, also resonate well with Oliver Marchart’s political ontology (Marchart 2019).