Stefano Micali: Tra l’altro e se stessi

Tra l’altro e se stessi: Studi sull’identità Couverture du livre Tra l’altro e se stessi: Studi sull’identità
L'occhio e lo spirito
Stefano Micali
Mimésis
2020
Paperback 29,00 €
194

Reviewed by: Francesca Righetti (Ruhr-University of Bochum)

Tra l’altro e se stessi di Stefano Micali si propone di indagare il rapporto tra l’identità singolare e l’alterità attraverso temi e prospettive eterogenee incorniciati all’interno degli studi fenomenologici. L’indagine riguarda non solo il rapporto dialettico tra il proprio e l’estraneo, ma anche l’alterità che appartiene alla nostra stessa soggettività, e che può presentarsi nei termini della sorpresa dell’incontro con l’altro.

Probabilmente chi compra un libro che promette un’analisi fenomenologica sull’intersoggettività, non si aspetta di trovarsi a leggere un elaborato che inizia presentando un lavoro comparativo tra Kant e Ginzburg; che passa poi allo studio della soggettività attraverso la stupidità e il senso comune; e infine si conclude con un’indagine sulla preghiera rivolta a Dio. L’autore, tuttavia, riesce a mettere insieme argomenti e metodi eterogenei dentro la stessa cornice dell’indagine sull’io e sull’altro.

Va subito precisato che Tra l’altro e se stessi è una raccolta di articoli precedentemente pubblicati, i quali sono stati rielaborati  per questa pubblicazione, approfondendo la complessità della soggettività e dell’alterità attraverso prospettive e ambiti diversi. Per questa ragione, l’opera presenta una ricchezza argomentativa che non sarà possibile riportare nella sua completezza e complessità in questa recensione. Il mio scopo, piuttosto, sarà quello di evidenziare il filo rosso che lega i capitoli e presentare trasversalmente l’argomentazione di Micali.

Il libro si divide in tre parti. La prima, composta da due capitoli, approfondisce alcune questioni metodologiche della fenomenologia, come intitola Micali, “dall’esterno” o “dal di fuori”, volendo leggere La Critica del Giudizio di Immanuel Kant e le opere di Carlo Ginzburg attraverso le lenti del metodo fenomenologico. Questa prima parte si rivela interessante perché pone l’accento sulle domande riguardo cosa sia la fenomenologia e come identificarla: indagini metodologiche condotte, per l’appunto, da una prospettiva  esterna e  utili per riflettere criticamente sulle pratiche fenomenologiche stesse. La seconda parte è composta da tre capitoli ed è intitolata “aspetti della soggettivazione”, il cuore stesso del libro. Attraversando tre argomenti differenti (la stupidità, il riconoscimento del bisogno e il ruolo del terzo mediante nell’etica), Micali mette a fuoco la genesi della soggettivazione e il rapporto del soggetto con l’alterità. Infine la terza parte, che comprende gli ultimi due capitoli, risponde a due criticità identificate nella seconda sezione e presenta alcuni casi estremamente particolari del rapporto tra il soggetto e l’altro: il fenomeno della depressione e della preghiera a Dio, al fine di studiare tale rapporto ex negativo.

Parte I – La fenomenologia dal di fuori

Il filo rosso che lega i primi due capitoli del libro riguarda il concetto di straniamento, presentato utilizzando i metodi filosofici di Kant e Ginzburg come oggetto di studio. Nello specifico, per quanto riguarda il primo capitolo sul carattere del giudizio di gusto in Kant (1997), cercherò di far emergere il carattere tautegorico e l’attenzione verso la singolarità, che mi permetteranno di identificare il rapporto tra il bello e lo straniamento.

Nel primo capitolo, Micali propone una rilettura della Critica del Giudizio in cui gli elementi dell’opera possano essere utili in ambito fenomenologico e nella filosofia contemporanea. Per farlo, suggerisce di affrontare la questione seguendo quattro diversi momenti di analisi: 1) introdurre il concetto di giudizio riflettente estetico; 2) analizzare il carattere di finalità e la pretesa di universalità; 3) discutere l’articolazione tra sentire e pensare; e infine 4)  riflettere sul carattere disinteressato del giudizio di gusto comparato all’attitudine fenomenologica.

Il carattere tautegorico si riferisce al terzo momento dell’analisi, ovvero all’articolazione tra sentire e pensare. Per chiarire questo concetto, dobbiamo prima concentrarci brevemente sulla definizione del giudizio di gusto. Esso è 1) sintetico, “poiché il piacere oltrepassa tanto il concetto quanto l’intuizione dell’oggetto” (p. 15); e 2) a priori, perché intende essere condiviso da ognuno universalmente: “Chi afferma che qualcosa è bello intende definire una qualità dell’oggetto come se si trattasse di un giudizio logico” (p. 19).

Tuttavia, il problema dell’universalità del piacere è uno scomodo dilemma con cui Kant ha dovuto confrontarsi, poiché parte dal presupposto che l’universalità non appartiene al piacere – che invece è sempre particolare e particolarizzante – ma esclusivamente alle facoltà conoscitive, all’uso della logica e dell’intelletto. Come è possibile allora motivare che il giudizio sul bello abbia una vocazione all’universalità?

Per rispondere a questa domanda, l’autore propone l’interpretazione di Lyotard (1991), il quale afferma che l’analisi kantiana del giudizio di gusto, nei termini di qualità, quantità, relazione e modalità, tradisce un presupposto di fondo: ovvero che “i giudizi estetici possono essere analizzati soltanto attraverso un riferimento alle categorie dell’intelletto” (p. 23). Ed è qui che interviene il carattere tautegorico. Lyotard chiarisce che il piacere è un effetto del nostro essere riflettenti: del nostro sentirci pensanti o pensiero senziente nel momento in cui il bello si manifesta. Tale sensazione ci segnala il nostro proprio modo d’essere: di conseguenza, il piacere è una risonanza dell’atto del piacere. Il carattere tautegorico si collega al concetto di straniamento presentato nel capitolo successivo, in quanto  durante la percezione dell’arte o del bello si riconosce un’alterità in se stessi: in altre parole, si assume una prospettiva esterna, in cui il soggetto si compiace e stupisce di essere in grado di percepire e di riconoscere il bello.

Micali conclude che “questa risonanza […] non deve essere interpretata in relazione all’auto-rapportarsi del sé con se stesso” (p. 24), bensì come un sentire incompatibile con l’io trascendentale, che invece ospita il sé. Micali non approfondisce l’analisi su questo sé “ospitato”, ma invita le future ricerche a indagare i rapporti affettivi che modellano il sé, in analogia alla sensazione descritta nel giudizio riflettente estetico.

Un’osservazione rilevante dal punto di vista metodologico dell’analisi di Micali riguarda il giudizio estetico riflettente. L’attenzione si rivolge alla “fenomenalità precipua della singola apparizione nella sua fatticità, ovvero rispetto a quanto nella sua unicità e contingenza appare improvvisamente come bello” (p. 25). Questo interesse per l’emergenza del fenomeno nella sua singolarità, insieme al carattere disinteressato del giudizio riflettente del gusto, richiamano due fondamentali principi della pratica dell’analisi fenomenologica: lo studio del fenomeno nelle sua modalità di apparizione originaria e singolare, e il metodo dell’epochè, volta a sospendere l’attitudine naturale verso il mondo. L’incontro con il fenomeno nella sua singolarità porta allo stupore e allo straniamento, che a sua volta ci conduce alla sospensione del giudizio. Il concetto di straniamento viene poi approfondito nel capitolo successivo.

Chi come me è affascinato dalla microstoria e dalla scrittura di Ginzburg, sarà meravigliato dal capitolo a lui dedicato. Il capitolo è diviso in due parti: nella prima viene analizzato lo stile di ricerca di Ginzburg, nella seconda si considera il modello epistemologico dello straniamento.

Micali sostiene che lo stile di Ginzburg della polifonia e del mantenimento di tutte le voci dei protagonisti delle sue storie, senza un appiattimento sotto un’unica coscienza narrativa, è lo strumento stilistico che permette di comprendere l’alterità. In altre parole, Ginzburg sorprende il lettore, attraverso uno stile conduttore di contenuti che permettono di atterrire e di provocare un disorientamento di fronte all’alterità (sociale, culturale e identitaria). Tutti i presupposti di senso comune vengono sovvertiti attraverso l’incontro di microcosmi, di vite e di epoche molto lontane,socialmente e culturalmente, da noi.

Secondo la ricostruzione di Micali, l’interesse di Ginzburg per lo straniamento nasce dallo studio di Sklovskij (1976) sulla questione della natura dell’arte nel contesto del formalismo russo. Secondo Sklovskij, « l’arte è in grado di sospendere gli automatismi che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo circostante » (p. 52). In questo modo, il problema dell’attitudine naturale verso il mondo si definisce più chiaramente: il nostro rapporto con il mondo cade sotto l’influenza dell’abitudine e lo straniamento diventa uno strumento a favore della sospensione di questo rapporto. Il momento sovversivo e fanciullesco di incontrare la realtà come fosse la prima volta: è una prospettiva che ci permette di dubitare del senso comune che noi stessi abitiamo.

Secondo Micali, attraverso il suo stile e particolare approccio alla ricerca, Ginzburg compie lo stesso lavoro di straniamento, che ci permette di assumere prospettive nuove per guadagnare « una distanza critica da quanto è immediatamente vissuto in modo così ovvio da rimanere invisibile » (p. 38). Da una parte, lo stile polifonico conduce al lavoro etico di dare voce a ogni personaggio, soprattutto quando marginalizzato. La motivazione che muove il lavoro di Ginzburg infatti è stata probabilmente determinata dall’idea di Benjamin di riscattare il passato degli oppressi: « riscattare la voce sofferente (e molto reale) dell’altro, dello sconfitto, del perseguitato » (p. 39). Curiosa è d’altronde la nota tra parentesi, « molto reale », sottolineando un altro aspetto filosofico del lavoro di Ginzburg: ovvero l’obiettivo di contrastare le derive post-moderne e decostruttiviste che conducono alla confusione tra realtà e finzione, tra testo ed evento. « Se il confine tra realtà e finzione diventa completamente fluido, si perde la possibilità di rendere giustizia alle flebili voci degli sconfitti » (p. 40).

Dall’altra, si rileva un inaspettato ponte tra Ginzburg e Merleau-Ponty: entrambi mirano a indagare l’essere umano all’interno della “intersezione tra attività simboliche e la nostra costituzione corporea” (p. 72). Contrapposto all’universale verticale, approccio antropologico che ha la pretesa di cogliere tutte le culture attraverso categorie universali, l’approccio di ricerca filosofica che accomuna Ginzburg e Merleau-Ponty è l’universale laterale, che accetta le differenze incompatibili di tipo simbolico e culturale, ma mira « alle identificazioni universali ancorate alla nostra costituzione corporea” (Ivi).

Per concludere, l’analisi attraverso le opere di Ginzburg e la microstoria risulta essere rilevante in due direzioni: metodologica ed etica. A livello metodologico, il percorso che procede dall’identità storica a quella personale, da Ginzburg a Levinas, sembra calcare la tradizione ermeneutica di Ricœur (2004), considerando l’epistemologia della storia e la fenomenologia come “due facce della stessa medaglia” (Dessingué 2019). A livello etico, la microstoria ci dà la possibilità di guardare con occhi diversi la nostra identità e la cultura entro la quale l’abbiamo costruita. All’interno dell’etica e della filosofia (vengono in mente autori come Marcuse 1999, Simmel 1976, Rorty 2008), lo straniero è considerato un potente medium per guardare alla propria identità culturale da un nuovo punto di vista.

Parte II – Aspetti della soggettivazione

La seconda parte del testo è dedicata ad alcuni modi fondamentali della soggettivazione, ovvero della formazione dell’identità attraverso dinamiche esistenziali di individuazione. Il terzo capitolo è uno studio sulla stupidità che ha l’obiettivo di avere uno sguardo privilegiato sul senso comune e sul nostro rapporto con esso, facendo così da ponte fra la prima e la seconda parte del libro. Con il quarto e il quinto capitolo Micali presenta il cuore del tema indagato e che motiva il titolo stesso del libro, “tra l’altro e se stessi”: lo studio dell’identità attraverso l’interlocuzione, il rapporto tra l’infante e l’adulto, il ruolo del terzo mediante, l’aspetto della giustizia etica attraverso lo sguardo del terzo. Prendiamo ora in esame i singoli capitoli.

Secondo Micali, l’indagine sulla stupidità deve partire dalle seguenti considerazioni. 1. Bisogna rimanere fedeli al principio fenomenologico di ritenere la stupidità un fenomeno specifico che non va ridotto al suo opposto, l’intelligenza. 2. Non si deve, tuttavia, ignorare la sua relazione con l’intelligenza, in quanto influenzerà il nostro modo di considerare la ragione. Per questi motivi, l’autore suggerisce di adottare un approccio olistico (Goldstein 1939, Canguilhem 1991), nonché di affrontare i fenomeni della mente da un punto di vista ecologico: fenomeni come la stupidità non hanno un valore assoluto in termini negativi, ma risultano funzionali o disfunzionali esclusivamente in rapporto all’ambiente circostante.

Innanzitutto, come evidenzia Micali, ogni tentativo di definire la stupidità sembra essere riduttivo: l’essere umano si trova ad affrontare infinite situazioni e, di conseguenza, infinite dovranno essere le forme di stupidità generate. Il suo obiettivo è quello di concentrarsi esclusivamente sulla forma di stupidità che riguarda e influenza la dimensione dell’identità e della soggettività.

Per questo, Micali presenta il contributo di Alain Roger (2008) sulla stupidità. Nonostante le criticità del suo lavoro, particolarmente interessanti sono i suoi meriti secondo Micali, in particolare l’aver evidenziato il ruolo della tautologia all’interno del paradigma del senso comune e della stupidità. Sia a livello sintattico sia a livello contenutistico, la tautologia è un potente strumento di violenza identitaria: si prenda come esempio il caso di alcune minoranze che sono costrette a sentirsi definite da membri esterni, con l’utilizzo di tautologie  che veicolano stereotipi e pregiudizi.

In seguito, Micali esplora l’idea che la stupidità possa appartenere a due estremi dell’identità soggettiva: alla coscienza assoluta anarchica che fa e dice tutto ciò che pensa senza freni oppure al polo opposto dello spirito di serietà, che si sovra-identifica con un ruolo sociale. Secondo Roland Breeur (2015), tale sovra-identificazione tradisce una segreta angoscia e paura nell’assenza di volto della coscienza assoluta. Contrariamente a questa linea di pensiero, adottando la metafora del fondo di Deleuze (2011), Micali vuole esplorare l’idea opposta, ovvero che chi dice o si comporta in modo stupido si possa compiacere di se stesso. Nonostante originariamente complesso, il fondo deleuziano va compreso nei termini del senso comune, nonché “inteso come insieme infinitamente complesso di eterogenei dispositivi sociali e di paradigmi epistemici che ci prendono e da cui proveniamo » (p. 99). Attraverso il linguaggio, assorbiamo dall’altro il senso comune in cui siamo immersi sin dalla nascita. Partendo da questa nozione, l’autocompiacimento dello stupido consisterebbe quindi nello sguazzare nei comportamenti trasmessi dalla società al fine dell’appiattimento alla norma: « Questa risalita del fondo può manifestarsi come auto-compiacimento del (e nel) triviale, triviale intersoggettivamente condiviso » (Ivi).

In conclusione, l’analisi di Micali mira ad argomentare che il fastidio provato di fronte all’incontro con la stupidità consisterebbe nel ricordare « l’indifferenziato punto di partenza » o il fondo a cui tutti apparteniamo. L’incontro con la stupidità sembra riportarci a quel senso comune da cui ci eravamo allontanati con la soggettivazione e la formazione identitaria. In questo modo Micali è in grado di concludere che:

Nella stupidità dell’altro vediamo riemergere quel fondo di luoghi comuni, di atteggiamenti affettati, di valori che sono stati da noi incorporati prima ancora di poter porre in essere una qualunque distanza critica verso di essi (p. 100).

In continuità con la costruzione dell’identità individuale dal fondo sociale a cui tutti siamo appartenuti (o continuiamo ad appartenere per certi aspetti), i due capitoli successivi mirano a indagare il concetto della terza persona in rapporto all’ordine di giustizia. Inizialmente, nel quarto capitolo, si approfondisce il rapporto tra la prima e la seconda persona, presentando il problema dell’appropriazione dell’essere da parte dell’altro. Questa appropriazione avviene attraverso il logos, o detto altrimenti attraverso la semiotica del bisogno. Usando l’accurata descrizione di Olivetti (1992), Micali presenta quattro stadi della dinamica dialettica del riconoscimento del bisogno nel rapporto infante-adulto, che conduce alla genesi della soggettività e in cui l’ultimo stadio coincide con la nascita dell’autocoscienza. Egli sostiene che l’interlocuzione permette di esplorare la nascita del soggetto, senza la necessità di dare valore fondativo all’autocoscienza. All’interno di questa relazione dialettica “si manifesta la traccia della terza persona” (p. 110): sia in rapporto al dire, sia in rapporto al rispondere. Nel dire, la società (la terza persona) si impone attraverso il linguaggio, ereditando significati, storie e memorie della comunità (un noi a cui si comincia ad appartenere). Nel rispondere, il soggetto misura la sua responsabilità nei confronti della società. Quest’ultima viene affrontata nei termini di giustizia etica nel capitolo successivo.

Nel quinto capitolo, infatti, questa distinzione del ruolo del linguaggio tra dire e rispondere viene presentata di nuovo nei termini di “donazione di senso” e “senso etico” facendo riferimento al lavoro di Levinas (1998). L’incontro con l’alterità si presenta attraverso il linguaggio e le espressioni linguistiche che dichiarano le manifestazioni infinite dell’altro. Queste ultime mettono in dubbio “il proprio mondo e se stessi:  tramite l’incontro con l’Altro affiora un senso di ordine differente […] che mi chiama e mi ordina di sacrificare la mia felicità” (p. 117). Infatti, in Totalità e Infinito (1998) Levinas introduce una dualità e un’ambiguità sul ruolo della terza persona: esso non è solo il sofferente che ci appella per il riconoscimento della sua fragilità, ma è anche lo sguardo sociale che ci chiama alla responsabilità verso l’alterità.

Da una parte, nell’incontro, la fragilità dell’altro nella sua esistenza mortale (“l’Altro nella sua nudità” p. 119) mi fa vergognare delle possibilità e potenzialità che ho di ferirlo in quanto essere umano. Secondo Levinas, da un lato, questo senso di fragilità permette all’io di trovare il suo senso ultimo: la sua propria umanità. Dall’altro, lo sguardo (giudicante) dell’Altro deforma le mie responsabilità nei confronti del mio interlocutore. In altre parole, l’Altro “mi fa dono di ciò che non era in me” (Ivi), ovvero mi introduce a una nuova dimensione di senso e attua l’etica della responsabilità che possiedo nei confronti del terzo: in questo dono o in questa anteriorità del terzo che mi precede nell’introduzione di senso, si può rintracciare l’analogia tra l’Altro e Dio.

Dall’altra, lo sguardo della società è costantemente assente e presente nel verbo e nel linguaggio: “esso non si esaurisce nel mettere in discussione il mio essere, ma include il momento della predica, dell’esortazione, della parola profetica” (p. 123). Al doppio ruolo del terzo, corrispondono due diverse forme di responsabilità. Al terzo come “umanità che ci guarda” (cfr, p. 124), bisognerà presentarsi nella forma della parola profetica; diversamente, verso il terzo nei termini del sofferente, il rapporto di responsabilità dovrà attuarsi nell’ eccomi.

In Altrimenti che essere (1983), Levinas abbandona uno dei due ruoli della “terza persona”, ovvero quello dello “sguardo”, e conseguentemente modifica il rapporto tra la prima e la seconda persona che precedentemente aveva bisogno del terzo perché il soggetto venisse a conoscenza del suo proprio senso. Tuttavia, in quest’opera, Levinas rileva e presenta un secondo conflitto, determinato da due ruoli della terza persona: l’appello del Volto e l’appello del terzo. Conflitto che, come sottolinea Micali, non è risolvibile pacificamente. A differenza che in Totalità ed infinito, dove il soggetto è sin da subito “votato per l’altro”, arrivando al punto dell’annichilimento della persona e della sostituzione all’altro; qui sembra presentarsi un annichilimento della volontà, per “rimettersi alla volontà del Padre” (cfr. p. 123) o del Padrone che mi comanda. L’altro in questo caso è rappresentato dal Volto, che nei termini di Levinas significa obbedienza a un ordine di giustizia e di volontà. Va ricordato che in Levinas tale obbedienza è una costrizione alla bontà “per servire Altri e per sostituirmi a loro” (p. 125). In questo contesto, però, il soggetto diventa ostaggio del Volto, ossia è costretto a essere votato all’altro ancora prima di cominciare a esistere in quanto soggetto.

A questo punto si inserisce l’altro ruolo della terza persona: quello di “limitare la mia soggezione” nei confronti dell’altro. “Il terzo introduce l’ordine di giustizia: io non sono solo responsabile nei confronti del mio prossimo, ma di chi è assente, del prossimo del mio prossimo” (p. 126). Moderando questa sostituzione introduce un ordine di giustizia diverso da quello del Volto.

Nell’architettura di Levinas, Micali tuttavia rileva due criticità, ben condivisibili. La prima criticità riguarda il ruolo del terzo e il suo rapporto con il soggetto. Per quanto Levinas sia interessato esclusivamente all’attuazione dell’etica e a quello che è stato definito “costrizione di bontà”, rimane il temibile problema del male. In un’intervista del 1982, intitolata Filosofia, giustizia e amore, viene posta la seguente domanda, che riassume paradigmaticamente il problema dell’architettura di Levinas: ha il carnefice un Volto? La risposta di Levinas esclude l’io dall’ordine di giustizia tramite la resistenza al male. Il rischio della sostituzione e del sacrificio – osserva Micali – è quello però di una “scrupolosità esacerbata, pericolosamente prossima a disturbi di tipo psicopatologico” (p. 130). In contrasto con la posizione di Levinas, Micali suggerisce di includere il soggetto nell’ordine di giustizia, e cioè dare la possibilità al soggetto di rispettarsi come terzo del proprio terzo, e di preservare se stesso dall’arbitrio dell’altro.

Come diretta conseguenza dell’analisi presentata, ritengo, tuttavia, che Micali avrebbe potuto proseguire rilevando un altro aspetto problematico della costruzione dell’identità individuale. Riepilogando, abbiamo detto che il Volto rappresenta un ordine di giustizia e si declina nei termini dell’annichilimento della volontà personale a favore di quella del Padre. Questa retorica dell’annichilimento diventa rischiosa durante il processo di costruzione identitaria: ovvero quello della pressione ad aderire a modelli determinati esclusivamente dal Volto, nonché dall’ordine sociale prestabilito. Potrebbe qui essere utile fare riferimento al concetto di “bisogno di riconoscimento” utilizzato da Micali nel capitolo precedente. Anche al giungere dell’autocoscienza e della soggettivazione, questo bisogno potrebbe non esaurirsi nell’identità riconosciuta per se stessi, ma potrebbe estendersi e approfondirsi: in larghezza e in profondità, il riconoscimento del bisogno diventa bisogno di essere riconosciuti nei propri modi di soggettivazione dalla società. Quando questo riconoscimento viene negato, quello sguardo a cui si riferisce Micali potrebbe non declinarsi nella spinta etica al rispetto della vita dell’altro, ma potenzialmente nella marginalizzazione.

La seconda criticità rilevata dall’autore, infine, è quella della riduzione della manifestazione di Dio esclusivamente ai termini della mia responsabilità dell’Altro. Come Micali osserva, ci sono altri modi di manifestazioni di Dio, per esempio l’atto della preghiera.

Parte III – Affezione e intersoggettività

L’ultima parte di questo libro si muove a partire proprio da queste due criticità: da una parte, la necessità di definire il rapporto tra se stessi e l’altro ex negativo, ovvero attraverso il caso disfunzionale della depressione; dall’altra, la manifestazione di Dio attraverso la preghiera.

Il settimo capitolo è tra i più interessanti e meglio argomentati. Micali riprende il problema posto nei capitoli precedenti e lo rilegge all’interno della dinamica fra il soggetto depresso e gli altri. Come nelle altre sezioni, l’autore parte dal presupposto che il rapporto tra due soggetti si basi su un’asimmetria originaria che tradisce una priorità dell’altro rispetto al sé. Lo aveva mostrato esplicitamente nel capitolo quinto quando aveva evidenziato che l’infante dà significato al proprio bisogno partendo dalle risposte dell’adulto. Lo aveva espresso poi eticamente attraverso l’incontro con l’altro che dà il senso ultimo alla propria umanità. Adesso, nel rapporto con il depresso, l’asimmetria diventa particolarmente chiara in rapporto a determinate condizioni affettive, come la vergogna.

Nel caso della vergogna, il processo di identificazione inizia dagli occhi di colui che mi osserva: “nella vergogna si acuisce il senso di ritrovarsi a essere quanto è riconosciuto dall’altro” (p. 138). Tuttavia, come ben riporta Micali attraverso Kierkegaard (1993), è necessario considerare che il sé è un rapporto: ciò significa che non vi è una lettura unidirezionale dell’altro sul sé. Di fronte alla lettura dell’altro sul mio comportamento e la mia identità, io ho la possibilità di rispondere e di modificare questo sguardo. Inoltre, non bisogna dimenticare che le considerazioni dell’altro sul mio comportamento nascono certamente dal mio comportamento stesso. Per concludere: questa asimmetria relazionale ha un fondamento comunque bidirezionale, in cui il soggetto ha la possibilità di modificare lo sguardo degli altri e di presentarsi agli altri nella sua esclusiva volontà di identificazione.

Partendo da queste premesse, Micali si pone l’obiettivo di fornire un’analisi fenomenologica della depressione, indagando il fenomeno attraverso le categorie husserliane di Innenleiblichkeit e Aussenleinblichkeit (Husserl 1973). Successivamente procede con l’analisi della mancanza di senso, tipica della depressione, e della mancanza di affettività, che si riassume con la sensazione di vuoto. Infine mette in relazione queste due caratteristiche della condizione depressiva con il rapporto con l’altro.

In un articolo del 2013 (Micali 2013), aveva già analizzato questo rapporto chiasmatico nei termini delle menzionate nozioni husserliane. Il termine Innenleiblichkeit è una categoria che accompagna il sentire delle funzioni propriocettive e affettive. Invece, Aussenleinblichkeit riguarda l’espressività del proprio corpo. Naturalmente, “il proprio sentire interno si manifesta in espressioni visibili all’altro ma non coincide mai con esse” (p. 140). Nel rapporto non patologico, i soggetti di un’interazione sono consapevoli dello scarto tra ciò che si vive e ciò che si manifesta. Per esempio, non si è mai assolutamente certi se e in che misura il disagio provato in una situazione sia visibile. Nel rapporto chiasmatico con un soggetto depresso, Micali sostiene che questa comprensione tra Innenleiblichkeit e Aussenleinblichkeit viene meno o “produce un corto-circuito” (p. 141). In altri termini, il depresso crede che la sua condizione interna disperata sia visibile a tutti. Tra i pazienti intervistati da Micali, c’è una certa persistenza nel dichiarare che non riescono a sostenere l’incontro con altre persone, perché queste ultime possono vedere chiaramente la loro condizione disperata. Micali suggerisce che l’indagine deve procedere mettendo in relazione il senso di vergogna con il rapporto chiasmatico tra Innenleiblichkeit e Aussenleinblichkeit.

Infine, è molto interessante l’ultimo argomento del capitolo, dove l’autore presenta il rapporto affettivo che il soggetto depresso ha con gli altri, declinato nella sensazione di vuoto e di aggressività. La relazione con l’altro è caratterizzata per lo più dalla sensazione di vuoto affettivo, paradigmaticamente raccontato da una delle pazienti di Micali come un reale vuoto spaziale che non permette al soggetto di raggiungere gli altri. Così come il soggetto si sente visto e caratterizzato esclusivamente per la sua condizione disperata, e quindi in un certo senso stereotipato per un unico aspetto (ovvero quello dell’inabilità a partecipare al farsi del senso presso gli altri e presso il mondo), allo stesso modo vede gli altri come altamente stereotipati (cfr. p. 153), ovvero come persone che si sentono bene nella propria pelle e sono ancorate al farsi del senso degli altri. Questo scatena la percezione di ingiustizia, di invidia e quindi di aggressività. Tuttavia, il depresso non può fare a meno di paragonarsi alle azioni degli altri, nel tentativo di confermare le attese sociali. Come riassume Micali, queste considerazioni diventano fondamentali in riferimento a quanto presentato nei capitoli precedenti: il soggetto depresso tende a stereotipare l’altro, che perde la sua identità e diventa un altro indifferenziato, che lo guarda e lo giudica. Al contempo, cerca salvezza nella gratificazione altrui, nella possibilità di legarsi alla vita altrui. Come conclude Micali, questo tentativo di legarsi è un modo di compensare il vuoto e nello stesso tempo è “espressione di una fuga dal proprio sé” (p. 155).

Infine, l’ultimo capitolo riguarda l’interlocuzione con Dio tramite la preghiera. L’obiettivo di Micali è quello di evidenziare il modo in cui il credente si rivolge a Dio attraverso alcuni passi dei Vangeli sinottici. Se la preghiera è un particolare tipo di interlocuzione, allora l’autore ha anche la possibilità di ripensare gli studi precedenti attraverso questo straordinario tipo di interlocuzione. Egli infatti si pone la seguente domanda: come si differenzia l’incontro del volto dell’altro dall’incontro di Dio nella preghiera?

L’incontro con Dio, in questo caso, avviene nella presenza dell’assenza: a differenza dell’incontro con l’altro, che invece si qualifica nello spazio dell’ intercorporeità. Nella presenza dell’altro, quest’ultimo inevitabilmente mi sorprende nella differenza tra le mie aspettative su di lui e la manifestazione di se stesso attraverso le sue espressioni linguistiche e gestuali. Rispetto alle altre forme di interlocuzione, completamente diverso è il sentirsi al cospetto di Dio, seppur nella sua assenza. Secondo l’autore, si entra in uno stato febbrile, di trepidazione, in cui i sensi si affinano nella consapevolezza del contatto con Dio tramite la preghiera.

In questo rapporto di trepidazione, si presenta un’intima connessione tra preghiera e fede. Nella preghiera esiste infatti una contraddizione tra la propria volontà e la volontà di Dio: da una parte, la richiesta di salvezza dai problemi mondani o del miracolo e, dall’altra parte l’accettazione dei piani di Dio per ognuno di noi. In questo spiraglio, si manifesta la fede: quest’ultima risulta essere il presuppposto ultimo per ottenere quanto richiesto. Attraverso la fede nell’essere ascoltati e nell’affidarsi alla volontà di Dio, Micali è in grado di enfatizzare la complessa relazione tra il credente e Dio.

Considerazioni finali

L’opera di Micali presenta un originale punto di vista sulla relazione della soggettività con l’alterità. Intrecciando fenomeni e argomenti diversi, questo libro permette al lettore di farsi strada nella complessità dei temi dell’identità individuale e dell’intersoggettività, potendo nondimeno ricavare gli elementi essenziali del soggettivo ed individuale rapporto con l’alterità. Nella ricerca fenomenologica, c’è attualmente un crescente interesse verso la genesi della soggettivazione, il rapporto con l’alterità, l’intersoggettività e l’identità collettiva: un interesse che si risolve spesso con l’indagine sul primato dell’alterità sulla soggettivazione. Per questa ragione, nei capitoli centrali del libro, sarebbe stato utile avere una panoramica comparativa tra il lavoro di Levinas e quello di altri autori su questi temi rilevanti. Ciononostante, il percorso investigativo, presentato da Micali attraverso punti di vista eterogenei, ha permesso di approfondire alcuni aspetti che altrimenti non avrebbero avuto spazio di analisi.

Se l’eterogeneità e la complessità elaborata dall’analisi sono il punto di forza di questo libro, la sua debolezza consiste nell’assenza di una più lunga e dettagliata prefazione che avrebbe aiutato il lettore a destreggiarsi nei cambi di argomento, di prospettiva e metodo. Nonostante questo limite, ritengo che il libro esponga un interessante e originale intervento per le attuali ricerche sulla genesi della soggettivazione e del rapporto con l’alterità.

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