La teoria dei valori che ci manca
Dialogando con Andrea Staiti (2020), Etica naturalistica e fenomenologia, Bologna: Il Mulino
- Tre osservazioni preliminari
La prima cosa da dire è che questo è un bellissimo libro[1]. La seconda, che era un libro necessario, e comincia a riempire una lacuna che i colpevoli ritardi dei fenomenologi, non solo italiani, e fra i più colpevoli quello di chi scrive, avevano lasciato spalancata come un grido di Munch.
Sì, perché non si tratta genericamente di filosofia morale, e neppure specificamente di etica normativa – le quali da almeno una ventina d’anni sono sotto la lente dei fenomenologi, anche se – a mio avviso – in modo ancora troppo esegetico o filologico, o non abbastanza fenomenologico. Qui si tratta di metaetica, per l’essenziale, e in particolare di metaetica naturalistica, oggi di gran lunga la più gettonata anche fra i non specialisti (si vedano recenti dibattiti anche sul nostro www.phenomenologylab.eu). E quindi, bene o male, di teoria dei valori: lasciata finora quasi senza interlocuzione proprio dalla fenomenologia, che quasi era nata per parlare di questo! Un vero scandalo, attenuato soltanto dalla presenza di pochi, troppo pochi e ancora troppo iniziali contributi, quasi tutti rigorosamente citati nel testo di Staiti.
Che esagerazione, penserete: la fenomenologia nata per parlare di questo! Ma sì, questa è la terza cosa da dire, prima di entrare in materia. Basta che pensiate ai valori epistemici: chiarezza, evidenza, rigore-scientificità, buona fondazione, verificabilità, conoscenza – e naturalmente avrete tutto ciò di cui anche la più tradizionale e poco immaginativa esposizione della fenomenologia – specie classica, specie poi husserliana – si preoccupa. Ma, tanto per andare più a fondo, e giustificare il mea culpa sui ritardi: penso che un’assiologia fenomenologica sia oggi il più urgente dei nostri bisogni intellettuali, un bisogno teorico ma anche culturale. Questa assiologia fenomenologica da farsi oggi salirà certamente sulle spalle dei suoi classici, ma altrettanto naturalmente dovrà pur discutere con i filosofi contemporanei – specie se condividono almeno implicitamente un impegno verso i valori epistemici, oltre che eventualmente trattarne al livello metateorico, e quindi dovrà tradurre il suo gergo in termini universalmente accessibili, come già sta facendo questo libro eccellente.
Quest’ultima considerazione era necessaria proprio per entrare in materia. Perché mette subito le carte in tavola: non si è mai tanto interessati ai libri quanto se ci si sta occupando proprio delle cose di cui parlano. Perciò questa mia discussione non sarà distaccata o neutrale: avrà sullo sfondo alcune delle tesi che mi stanno a cuore[2]. Non invasivamente spero, perché ora è delle tesi di Andrea Staiti che stiamo parlando. Ma per dare già un’idea di come voglio procedere, espliciterò subito l’essenziale della mia lettura. L’approccio di Andrea Staiti alla metaetica dà tutto quello che si poteva dare sfruttando il versante noetico dell’analisi fenomenologica – fuori dal gergo, il versante della riflessione sugli atti e i vissuti del soggetto, quelli che in terminologia più standard, e pur con una perdita di un dettaglio di informazione, si chiamerebbero stati intenzionali. Ma, come perdiamo contenuti rilevanti di analisi se riflettiamo sul vedere e il guardare senza tener conto delle caratteristiche proprie dei contenuti del visibile, così accade o può accadere se descriviamo i modi della cognizione assiologica – del valutare ad esempio – indipendentemente dai loro oggetti, o meglio dalla “materia” di questi oggetti, i valori: specifici oggetti di un’assiologia “materiale”, che la sua materia desume dal versante noematico dell’analisi, cioè dall’indagine sulla natura dei valori – ovviamente in quanto dati al loro specifico modo d’esperienza.
Procederò quindi affiancando questioni di assiologia materiale – o noematica, o a parte objecti – all’esposizione di alcuni fra i problemi e le soluzioni che Staiti propone, con una importante eccezione nel cap. III, a partire dalle risorse della fenomenologia noetica o a parte subjecti. Solo alla fine di questa disamina potremo capire se la prospettiva noematica è solo complementare rispetto a quella noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle fonti di evidenza, o riempimento intuitivo, dei principi di un’assiologia fenomenologica. Né nell’una né nell’altra ipotesi il valore della ricerca portata a termine in questo libro ne risulterà minimamente diminuito.
- Uno sguardo d’insieme
Cominciamo da uno sguardo sulla strategia generale del libro. Staiti sceglie di non disperdere la nostra attenzione nell’elenco sistematico delle posizioni possibili riguardo a alla questione fondamentale della metaetica, che riguarda l’esistenza e la natura delle proprietà assiologiche, e specificamente morali, posizioni che si dispongono intorno a quello che a partire da Moore (1903, 1964), ma in effetti già da Hume, appare un dilemma: se le proprietà assiologiche sono proprietà reali, che qualificano e modificano la realtà di questo mondo, sembrano perdere la normatività che pure le distingue, nel senso che dettagliano il mondo com’è, e non come dovrebbe essere; ma se vogliamo preservare questa distintiva normatività, dove le metteremo, per così dire, se non in un altro mondo, un mondo di modelli ideali, molto simile alle idee platoniche? In metaetica il “naturalismo” si origina qui, come rigetto più o meno argomentato del dualismo platonico che il secondo corno del dilemma comporta.
Staiti invece ci introduce subito in medias res, attraverso un’agile esposizione delle forme che prende il naturalismo metaetico, e del modo in cui la fenomenologia (come stile e metodo di pensiero filosofico che ha radice nei suoi classici) si posiziona utilmente nel dibattito, proprio a partire dall’esigenza che in questo dibattito si fa sentire di rendere conto della fenomenologia del discorso morale (p. 21): cosa intendiamo dire quando diciamo che un’azione è sbagliata? Questa prima mossa permette di lasciare da parte, per così dire, quelle posizioni che risultano prima facie irrilevanti al senso e ai riferimenti, quindi alle condizioni di verità, del discorso morale, e fra questi ci sono già alcune delle più classiche e ricorrenti posizioni: quelle del cosiddetto non-cognitivismo, emotivismo ed espressivismo, che da Hume a Ayer a Blackburn e Gibbard riducono le proprietà assiologiche a stati dei soggetti, in particolare stati emotivi, e i loro giudizi a espressioni di questi stati, e quelle dei fisicalisti che affrontano la questione delle proprietà assiologiche solo per denunciare l’illusorietà dei discorsi morali, riferiti a entità che non esistono – nell’ipotesi che esistano soltanto le entità riconosciute dalla fisica o a queste riducibili. La fenomenologia del discorso morale induce quindi anzitutto a specificare il senso in cui si può essere “naturalisti” in etica: sia accettando la distinzione fra naturalismo scientifico e naturalismo “liberalizzato” (De Caro 2013), che si riduce al requisito assai modesto di non ammettere entità che violino apertamente le leggi naturali (come gli interventi “divini”, in una forma piuttosto rude di teologia miracolistica o magica), sia accettando una parte dell’argomento mooriano secondo cui le proprietà assiologiche sono indefinibili nei termini di quelle naturali (Cuneo 2007, Crisp 2011).
Il cap. I ha così istruito la questione che occuperà, sotto prospettive complementari, gli altri tre capitoli: come render conto del rapporto fra proprietà naturali e proprietà assiologiche, in modo da rendere ragione, da una parte, all’esigenza del naturalismo (liberalizzato) che valutazioni e giudizi portino su fatti di questo mondo e non di un altro, e d’altra parte, al requisito di apriorità che la stessa “fenomenologia del discorso morale” ci presenta come inaggirabile? Perché se affermiamo che la tortura è inammissibile, noi riteniamo che la verità di questa tesi non dipenda certo dall’induzione empirica, che al contrario ci mostra la tortura praticata e impunita in molti luoghi della terra. Staiti intende mostrare che la fenomenologia (questa volta nel senso dello stile di pensiero e del metodo filosofico che portano questo nome) ha risorse per suggerire risposte illuminanti a questa questione, rispettivamente: dal punto di vista epistemologico (Cap. II), dove si mette a fuoco la nozione di intuizione morale in un utile confronto con Robert Audi; dal punto di vista ontologico (Cap. III), dove la relazione di sopravvenienza delle proprietà assiologiche su quelle naturali, tirata in direzioni diverse da naturalisti e anti-naturalisti per sottolineare rispettivamente la riducibilità e l’irriducibilità delle prime alle seconde, viene ad essere inclusa come caso particolare di Fundierung, o vincolo di (co)variazione fra parti dipendenti di un intero. Un bel risultato, perché la teoria husserliana degli interi e delle parti (III Ricerca Logica) è l’ossatura ontologico-formale di tutta la fenomenologia, e la misura della sua generalità e insieme della sua precisione analitica in quanto, potremmo dire (ma il termine non è di Staiti), teoria delle varietà apparenti, cioè di ogni possibile scenario concreto. Infine, armato di questa doppia strumentazione epistemologica e ontologica, Staiti offre nel IV e ultimo capitolo una lettura squisitamente noetica del famoso Open Question Argument (OQA) di Moore, ovvero della ragione ultima per resistere alla naturalizzazione delle proprietà assiologiche. Riassumo informalmente: non è affatto l’idealità, cioè in definitiva il contenuto normativo della proprietà assiologica, a sfuggire alla sua definizione in termini di proprietà naturali, che lasciano sempre aperta la domanda decisiva (supponiamo che il bene sia il piacevole: ora questo caso di piacevolezza è anche cosa buona?). No: ma è, in definitiva, la sua vuotezza! E’ il fatto che ogni, come oggi diremmo, impegno assiologico (x è generoso, coraggioso, temperante) deve ancora ottenere un “riempimento intuitivo” adeguato, esemplare (“questa è quella che chiamiamo un’azione generosa!” – “questo è quello che chiamiamo un buon coltello!”) perché la proposizione assiologica in questione abbia anche solo la possibilità di essere vera. In altri termini, l’OQA misura semplicemente la differenza fra l’atto di comprensione “vuota” della qualità intesa, e l’atto (potremmo dire: l’incontro) che offre, in tutta la sua ricchezza descrittiva e tipizzabile, la cosa stessa come era intesa ancora non intuitivamente, non data in carne ed ossa, nella posizione assiologica.
- Analisi di temi per capitoli. A partire dalla conclusione, Capitolo IV
Cominciamo dalla fine, ma solo per dare la direzione della riflessione e poi affrontare nel merito una minuscola scelta degli argomenti di questo libro breve ma molto denso. Possiamo notare due cose: da un lato la sorprendente generalità della conclusione, che in definitiva sembra risultare valida per qualunque tipo di proposizione, ad esempio botanica o geometrica (pensate ai solidi platonici, e alla differenza fra saperne le definizioni e visualizzarli) o di teoria musicale o di tecnica alpinistica. Ma questa generalità si ottiene al prezzo di dismettere come irrilevante l’angoscia quasi “munchiana” della Domanda Aperta di Moore, più formalmente quell’eccedenza dell’ideale sul reale – quel possibile sguardo su altri mondi che l’ideale, l’utopico, comportano; insomma, quella loro possibile, caratteristica opposizione che i filosofi hanno sempre a loro modo concettualizzato, a partire dalla classica teoria di Platone del bene “al di là dell’essere”, epekeinas tes ousias. Quell’opposizione che ha in effetti del paradossale, perché è proprio l’esperienza di situazioni in cui non c’è giustizia, o in cui c’è positiva ingiustizia, che ci fa “vedere” cosa sia giustizia. C’è un sapore specifico dell’assiologico che si perde in questa conclusione.
- Sopravvenienza o fondazione. Capitolo III
Ma dall’altro lato possiamo apprezzare la coerenza e linearità dell’intero discorso, che riesce a sdrammatizzare l’opposizione fra due realismi, quello naturalistico e quello metafisico e dualistico dei non-naturalisti (Shafer Landau (2006), Enoch (2011), ma prima di loro Tommaso d’Aquino e il giusnaturalismo classico) “stemperandolo” prima nell’appello fenomenologico all’esperienza (Cap. II), che ci riporta a un confronto serrato proprio fra teorie della percezione (della natura dell’atto percettivo); e poi riassorbendo, per così dire, nella teoria degli atti perfino il problema della relazione fra proprietà reali o fattuali e proprietà assiologiche (Cap. III). Questo problema infatti, che i filosofi analitici nostri interlocutori risolvono in termini di sopravvenienza, viene affrontato da Staiti a partire dal “versante ‘soggettivo’ che ci è ormai familiare” (p. 100). In realtà, suggerisce Staiti, il mistero della sopravvenienza, o se preferite il dilemma della metaetica, si risolve a partire dalla teoria husserliana, tutta noetica, della fondazione degli atti non oggettivanti (emotivi e volitivi) sugli atti oggettivanti (percezioni e giudizi). E così anche la fondazione o non indipendenza, anzi proprio la fondazione unitaria o non indipendenza di ciascuna delle parti relativamente alle parti stesse e all’intero, questo potentissimo strumento analitico capace di descrivere con precisione estrema, come scrive Husserl, “ciò che tiene insieme tutte le cose […] i rapporti di fondazione”[3] (il dono dei vincoli, per così dire) – si riconduce a quel caso particolare che sarebbe la fondazione degli atti non oggettivanti sui quelli oggettivanti. Ma questo caso particolare, che governa la vita della coscienza, mi chiedo, è veramente più fondamentale delle fondazioni che scopriamo nelle cose stesse, nei fatti e nel loro rapporto coi valori? Non sarà anche qui, come dovunque in fenomenologia, la natura delle cose stesse a prescrivere il tipo di cognizione che le cose richiedono, e quindi a decidere anche della correttezza delle riflessioni noetiche? E perché mai, se no, aprire un capitolo nuovo e straordinario dell’ontologia formale fenomenologica, la teoria della varietà apparenti ovvero la mereologia (io la chiamo piuttosto olologia) husserliana? Intendiamoci, e Staiti lo sa bene, la teoria della ragione, cioè dei nessi motivazionali che legano gli atti, fa della fenomenologia della coscienza husserliana una teoria dell’esperienza sotto la “giurisdizione della ragione”, appunto, e non una semplice psicologia. Ma appunto: se questa teoria della ragione fosse sufficiente a descrivere con fedeltà lo specifico tipo di richieste poste ai soggetti dalla natura delle cose stesse (in quanto oggetti DATI nei modi in cui lo SONO, ovviamente), che bisogno ci sarebbe di una teoria della realtà oltre la teoria della ragione e prima di essa, di un’ontologia fenomenologica, formale e materiale o regionale? Quale sarebbe il senso di quel principio di priorità del dato sul costruito che è il motto stesso della fenomenologia, “alle cose stesse”?
Qui però la mia domanda è molto più specifica. L’assiologia non è una regione ontologica materiale a parte, e non potrebbe proprio! La circostanza che il valore né si riduce al fatto né sta in altri mondi che quello dei fatti, l’eccedenza e l’opposizione fra ideale e reale, stanno lì ad impedirlo: sono l’osso duro che resta inalterato e che nutre ancora il dilemma della sopravvenienza normativa (altrimenti ci potremmo comprare un qualunque neoplatonismo che riduce l’esse al bonum, o un qualunque spinozismo che riduce il bonum all’esse: gli errori “continentali” più frequenti). L’osso duro che, io ne convengo pienamente, il fenomenologo proverà a sciogliere in termini “olologici” (io credo, e ho provato a mostrarlo altrove in diversi casi specifici[4], che i valori siano in definitiva qualità globali del secondo ordine, intuitivamente vincoli di variazioni di strutture (“essenze”) di concreta, strutture o essenze che sono a loro volta vincoli di variazione di contenuti dati). E tuttavia, la stessa assiologia formale – perché ad essa appartiene evidentemente la tesi sulla natura dei valori, che dovrebbe esserne la proposizione fondamentale – in tanto ha ragione di esistere, in quanto, appunto, formalizzazione di un’assiologia materiale. Ma la vera questione è: cosa riusciamo a illuminare dell’esperienza dei valori, degli oggetti stessi o materie di questa esperienza, e soprattutto del pensiero che se ne nutre (dopotutto, il pensiero assiologico sta alla base delle strutture normative che sorreggono le civiltà umane) a partire soltanto dalle strutture formali della coscienza emotiva e volitiva? Forse non è un caso che la questione degli atti oggettivanti/non oggettivanti sia rimasta tanto più oscura di molte altre dottrine di Husserl, anche se Staiti offre un notevole contributo a dirimerla.
- Modi della presenza in carne ed ossa. Capitolo II
Questa considerazione, che come dicevamo riguarda il cap. III, mi permette di risalire al II con la domanda che ne è la prosecuzione. Siamo sicuri di poter rispondere adeguatamente alla teoria di Robert Audi della percezione morale, prima di aver presente l’intenzionalità specifica caratteristica degli atti di Wertnehmen, ovvero del sentire assiologico? E si può descrivere questa intenzionalità specifica senza indagare, da un lato, lo specifico oggetto intenzionale che questo sentire presenta, i beni e i mali, le cose stesse (oggetti fatti eventi situazioni etc. ) assiologicamente cariche; e dall’altro lato, però, la specifica posizionalità degli atti corrispondenti, la posizionalità assiologica? Questione tanto più cruciale in quanto il concetto di posizionalità gioca un ruolo decisivo nella conclusione di questo libro, cioè nella rilettura fenomenologica dell’intuizionismo di Moore, conclusione che io ho riassunto sopra (§2) in termini molto informali, precisamente perché non eravamo ancora entrati nel vivo della questione di cosa la posizionalità assiologica sia.
Mi spiego. Quello che colpisce nei testi di Audi è la completa assenza di contenuto, non-concettuale o concettuale, della qualità “morale” del percetto. Secondo Audi (2015) si può, letteralmente, “vedere l’ingiustizia” compiuta da qualcuno, nel senso che si vede l’oggetto o il fatto o l’evento con tutte le sue proprietà reali, fattuali: in virtù delle quali il fatto costituisce un’ingiustizia, ad esempio un omicidio. Proprio come nel famoso esempio di Hume (1739)[5]: esaminate bene il fatto in questione, vi troverete la dinamica dell’azione, la forza e la direzione del movimento, i motivi e le passioni, ma non vi troverete alcuna proprietà o relazione corrispondente alla sua ingiustizia. Che differenza c’è allora fra Audi e Hume? Piuttosto dottrinale, direi: di dottrina che non modifica essenzialmente la visione, solo la reinterpreta. L’omicidio in questione un effetto me lo fa: un’impressione di unfittingness. Perché questo non è soltanto, come voleva Hume, uno stato soggettivo (eventualmente, intersoggettivo, una risposta socialmente appresa), privo di portata cognitiva sul mondo? Per la maggior complicazione della teoria della percezione di Audi, che prevede almeno tre componenti fra loro connesse: una componente “fenomenologica” (“l’effetto che fa”), una componente rappresentativa (la mappa mentale che corrisponde, ad esempio in termini di colori, forme, movimenti, all’evento fisico), e una componente causale (l’evento in questione che impatta sul sistema percettivo). A queste si aggiunge una ulteriore componente che è esperienziale o “fenomenologica” (quale, effetto-che-fa) ma non rappresentativa, ed ecco la nostra unfittingness. Ma questa aggiunta non basterebbe a rendere magicamente oggettiva e non soltanto soggettiva l’impressione, se non venisse in soccorso l’ausilio ontologico della sopravvenienza, per cui l’ingiustizia è “fondata” (grounded) o, in una versione precedente (Audi 1997) “ancorata” nelle proprietà reali dell’omicidio, e quindi infine inerisce al percetto – sia pure come uno stigma negativo, una bandiera non-verbale che dice “così non va”. Per rendersi conto dell’assenza di contenuto descrittivo, di “materia” della “percezione morale” di Audi, si può immaginare un caso di eutanasia che abbia le identiche qualità visibili di un accorto assassinio, e chiedersi come farebbe un’impressione assiologica tutta diversa ad “ancorarsi” in una scena percettiva identica. Eppure, del tutto a prescindere dal giudizio morale che l’osservatore finirà per darne, una qualità assiologica tutta diversa permea l’azione (diciamo ad esempio la pietà tragica che permea i gesti accorti dell’agente). Generalizzando, si può parlare con Audi di “intuizione morale” quando l’impressione morale riguarda non questo fatto particolare ma, poniamo, l’omicidio in generale, che è sbagliato. Ma queste intuizioni appaiono altrettanto vuote di materia assiologica – altrettanto thin. Prive di componente assiologica descrittiva, ridotte alla componente formale normativa (giusto, sbagliato).
Ma a questa, in fondo assai mooriana, assenza di contenuto descrittivo delle proprietà assiologiche, Staiti ha qualcosa da obiettare, da fenomenologo? Posso sbagliarmi: ma mi pare di no. Qui la sua linea di difesa “noetica” – che insiste su quale sia l’atto piuttosto che sulla sua materia – rischia, per aver troppo concesso a Robert Audi, di farci smarrire per via gli atti rilevanti: che non sono quelli della percezione sensoriale, ma sono quelli del sentire e degli approfondimenti riflessivi delle ricchissime qualità assiologiche delle cose (e delle relazioni fra qualità assiologiche), in tutto il loro spessore. La grazia di questo gesto, la gentilezza di questa persona, la crudeltà di questa azione, il nesso eidetico fra brutalità e violenza, ma non fra crudeltà e violenza. Se non la fraintendo, la strategia critica di Staiti è la seguente: 1. Contrapporre alla teoria della percezione di Audi quella fenomenologica (cioè una teoria non rappresentazionalista ma diretta, secondo cui percezione è presenza diretta dell’oggetto nel come, fallibile e sempre inadeguato o prospettico, del suo darsi); 2. Contrapporre alla teoria dell’intuizione morale di Audi quella fenomenologica dell’intuizione come riempimento di un’intenzione, fuor del gergo come verifica in modalità di presenza “in carne ed ossa” dell’oggetto di un giudizio (non necessariamente verbale o concettualmente articolato), cioè del positum di una posizione dossica.
- La questione della posizionalità
Ed eccoci alla famosa posizionalità. Io credo che poche nozioni siano importanti come questa in fenomenologia, perché è precisamente in sua assenza che la nozione non fenomenologica di intenzionalità si riduce a quella di aboutness. Uno stato mentale è intenzionale se è riferito a un oggetto. Punto. Ma se i fenomenologi preferiscono parlare di atti piuttosto che di stati, è precisamente perché “tutta la vita è prendere posizione”[6] : ogni stato intenzionale è un atto personale in quanto include una posizione, attraverso la quale soltanto rispondiamo al mondo, e rispondiamo sempre più o meno correttamente e adeguatamente a seconda che le posizioni siano corrette o no. Che siano dossiche (o di esistenza), come nelle esperienze e nei giudizi di fatto; che siano assiologiche (o di valenza), come nelle esperienze e nei giudizi di valore; che siano pratiche (o di endorsement), come nelle decisioni e nelle azioni. Che poi le posizioni e le loro modificazioni siano corrette o scorrette (e questa possibilità le pone tutte sotto la “giurisdizione della ragione”) dipende precisamente dalle cose stesse, che in tutte le loro dimensioni (di realtà, di valore, di praticabilità) sono fonti infinite di informazione, forniscono cioè contenuti o “materie” di indefinita ricchezza e “spessore”, mai esaurientemente note, sempre di nuovo da indagare. Ma se invece dovessimo ammettere, come Staiti suggerisce (pp. 87-89), che gli atti emotivi e quelli volitivi non hanno posizionalità propria, ma la loro “qualifica posizionale” è tratta da altri atti (i famosi atti “oggettivanti”), come potremmo, da fenomenologi, argomentare contro lo scetticismo non solo logico, ma anche assiologico e pratico? (E non c’è dubbio che fin dall’inizio della sua vita filosofica lo stesso Husserl abbia soprattutto avuto a cuore la questione dello scetticismo in tutte le sue forme, del confronto continuo con se stesso in cui essa pone il filosofo, e del modo in cui rispondervi sempre di nuovo). Come potremmo, dicevo, anche soltanto porre la questione della validità delle valutazioni e delle decisioni? Come potremmo cioè mostrare, non certo se una data valutazione è valida o no, che non spetta al filosofo, ma dove occorre continuare a “guardare”, come approfondire la cognizione e proseguire l’esperienza della cosa stessa, per vedere se lo è, infine, o no? Come può esserci una indefinita possibilità di approfondimento e ricerca anche nei campi d’esperienza assiologica (e pratica), se non ci sono posizioni originalmente assiologiche e pratiche, o almeno se anche i valori corrispondenti non sono dati “in carne e ossa”?
Io credo che sia questa la questione cruciale, dove un umanismo fenomenologico si distingue da uno semplicemente kantiano, oltre che, certamente, da un “naturalismo”, sia pure liberalizzato e quindi pericolosamente tendente a un grado zero di informazione, ontologica ed epistemologica (dato che esclude soltanto, come la filosofia ha sempre fatto dai tempi di Socrate, entità e fonti di conoscenza “soprannaturali”).
La questione è relativamente indipendente da quella del rapporto di fondazione fra atti, sulla quale ritorneremo. Possiamo riformularla così: da fenomenologi, possiamo essere “realisti” in materia di giudizi di valore come lo siamo in materia di giudizi di fatto? Intendo qui per “realismo” la tesi che la veridicità di un’esperienza e la verità di una proposizione non dipendono da norme in ultima analisi poste o costruite, ma da vincoli dati : dati tuttavia inesauribilmente, e in qualche modo anche imprevedibilmente, passibili di essere “scoperti” attraverso sempre nuova esperienza (e ricerca), nonostante la loro apriorità, eideticità, essenzialità (come ci sono e sempre ci saranno scoperte matematiche). L’apriorità dei vincoli eidetici non si oppone alla loro reperibilità “sperimentale” (semplicemente, non è per induzione empirica che li troviamo, come del resto non troviamo così le leggi gestaltiche dei percetti): e su questo non credo ci sia disaccordo rispetto a Staiti. Dove potrebbe esserci, invece, è proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali. Ma siccome l’etica è una disciplina dell’assiologia, il disaccordo riguarderebbe in definitiva quest’ultima. La questione sarebbe allora: ma c’è veramente posto, in questa garbata conciliazione di etica naturalistica (liberalizzata) e fenomenologia, per una adeguata descrizione dell’esperienza quotidiana che noi facciamo di tutti i beni e i mali di ogni tipo e rango in cui siamo immersi, per una tematizzazione dei modi specifici della cognizione assiologica? (Un insieme di direzioni di ricerca che riguarda praticamente tutte le professioni, da quelle che riguardano la salute, l’abitazione, il benessere, a quelle che si prendono cura del funzionamento economico e civile delle società, a quelle che riguardano la sua struttura normativa politica, fino alle professioni artistiche e scientifiche, e per chi vi si interessa, a quelle in vari modi intente ai valori del divino).
Mi sono lasciata prendere la mano. Non c’è peggior errore che quello di accusare un libro di non parlare di quello di cui non voleva parlare. E quindi, torno indietro. Questa apertura sugli orizzonti dell’assiologia materiale però non la cancello, perché offre a tutti e non soltanto agli specialisti di qualche testo sacro lo sfondo sul quale si staglia la mia tesi che l’etica presuppone essenzialmente l’assiologia materiale, e questa tesi è invece, mi pare, pertinente alla discussione di questo libro.
Concludiamo allora sulla questione della posizionalità e degli atti oggettivanti, prima di tentare una conclusione, per parte mia, di questa lettura e di questa discussione delle tesi di Andrea Staiti. La questione che sopra ho definito cruciale riguarda la conoscenza morale, specificamente. E’ la questione se l’esperienza morale che ne è alla base sia passibile di essere, da un lato, concettualizzata sempre meglio (con sempre maggiore precisione e finezza) e dall’altro sempre ulteriormente approfondita, in modo che la verifica e la correzione delle nostre posizioni possa far crescere, qui come in ogni altro campo, la conoscenza. Se ora, per scrupolo secondario (perché è la cosa stessa che conta, non i testi) apriamo il testo husserliano che Staiti cita più frequentemente dopo le Ricerche logiche, cioè le Lezioni di etica e teoria dei valori del 1908-14[7], andiamo a vedere che cosa si dice sulla questione della conoscenza morale, ci troviamo, senza stupore, che il solo “primato” della ragione logica[8] è nella circostanza che i contenuti assiologici e quelli pratici devono pur accedere al pensiero proposizionale (e dunque al linguaggio) per poter essere sottoposti al vaglio critico e alla verifica cognitiva, vale a dire per poter acquisire condizioni di verità[9]. E quindi, non è un caso che Husserl parli di “predicati logici” e non di “proprietà naturali”, come Staiti stesso ci fa notare (p. 91): per quanto ne sappiamo, infatti, qualunque questione, sia essa fattuale, assiologica o pratica, riceve condizioni di verità solo quando è articolata in una proposizione, e in questo senso, che non ha nulla a che fare con la questione della sopravvenienza normativa, non c’è dubbio che c’è un primato della “ragione logica”, vale a dire delle “posizioni dossiche”, necessarie a formulare tesi assiologiche (“Non c’è giustizia senza libertà”), e anche a mettere in questione la verità di giudizi di valore particolari (“Non è vero che Gianni è generoso”). In effetti è altrettanto evidente che il primato passa alle posizioni assiologiche e alla ragione pratica se ci chiediamo a cosa serva la logica (a ragionare bene, cioè con inferenze valide e sane) o perché mai dovremmo preferire la conoscenza del vero all’errore o all’ignoranza, o preferire un bene epistemico come una tesi ben fondata a un male epistemico come un’asserzione confusa e arbitraria: tanto è vero che nelle più mature lezioni di Introduzione all’etica del 1920-24[10] Husserl preferisce parlare dell’”intreccio” fra ragione logica e pratica.
- Essenze e sopravvenienze
Una piccola ma acuta conseguenza questa dissociazione del problema dell’accesso delle “materie” di qualunque atto al pensiero proposizionale e alla questione della verità dalla questione della relazione fra fatti e valori, o fra proprietà “reali” e proprietà assiologiche c’è: e riguarda precisamente quest’ultima questione. Staiti cita un testo dall’ultimo volume della Husserliana[11]:
“Un oggetto è ‘ciò che è’ anzitutto indipendentemente dall’esser bello, buono ecc. Il predicato di valore presuppone un oggetto, un oggetto completo. (….) Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”.
Ebbene: veramente possiamo intendere questa tesi nel senso di una distinzione fra le proprietà “subvenienti” (non assiologiche) e “sopravvenienti” (assiologiche)? Si noti: le prime corrisponderebbero alle proprietà “naturali” della metaetica, salvo godere (a differenza di queste) di un criterio per essere individuate come subvenienti, vale a dire che se immaginiamo di sopprimerle (o di variarle oltre certi limiti), viene soppressa l’unità oggettuale delle cose, “prive di valore ma pur sempre unitarie e perduranti secondo la loro essenza propria” (p. 91).
In effetti questo “criterio” ci dice con precisione che cos’è l’essenza di una cosa, il vincolo di covarianza violando il quale la cosa perde la sua identità specifica, cessa di essere una cosa di quel tipo: negli esempi offerti, la Nona Sinfonia di Beethoven cessa di essere l’oggetto che è se facciamo astrazione da proprietà temporali quali la durata, o il Davide di Donatello se facciamo astrazione dalle sue proprietà spaziali. Ma dovremmo davvero credere che perveniamo all’unità oggettuale della cosa soltanto se passiamo “dall’atteggiamento valutativo che caratterizza la vita quotidiana a un atteggiamento puramente teoretico e naturalistico (….), cioè l’atteggiamento delle scienze naturali, in cui si fa astrazione proprio dai predicati assiologici delle cose” (p. 91)? Se Staiti applicasse veramente il suo ottimo criterio, la risposta sarebbe certamente: no! La Nona Sinfonia cesserebbe di essere una sinfonia ben prima di cessare d’essere un oggetto temporalmente esteso (tale sarebbe anche lo sferragliare di un tram), appena si violassero vincoli ben più stringenti, come sono addirittura una struttura armonica, con tutte le relazioni tonali presupposte, uno svolgimento tematico, relazioni timbriche eccetera. Cesserebbe poi di essere la Nona di Beethoven anche solo toccando quella struttura armonica etc. (Cioè, come direbbe Husserl, variando anche una soltanto delle singolarità eidetiche che la caratterizzano come l’essenza individuale che è, anche prima di qualunque sua esecuzione o token concreto). E lo stesso avverrebbe con i gialli di Van Gogh o le morbidezze plastiche di Donatello.
Già qui risulta arduo individuare proprietà subvenienti separabili dalle qualità che all’intero (poniamo, a un movimento, a un tema, a un dipinto) sono conferite dalle posizioni tonali reciproche delle parti (o dai contrasti cromatici degli elementi). Ma attenzione: questo vuol dire che queste qualità sono semplicemente parte dell’essenza. Dell’essenza specifica di una sinfonia e dell’essenza individuale della nona sinfonia. Sono i contenuti della sua concreta unità oggettuale, ne fanno la cosa che è. Ora, queste qualità sono proprietà assiologiche. Dunque non è vero che l’unità oggettuale si preserva astraendo dalle proprietà assiologiche. Non è vero sul piano ontologico[12]. E non è vero su quello fenomenologico, o noematico e noetico: proprio non potrei distinguere una sinfonia dallo sferragliare di un tram se non udissi e sentissi, col flusso di suoni, il senso musicale che la composizione gli presta.
D’altra parte, il testo dell’ultimo volume della Husserliana citato sopra lo conferma (come fanno innumerevoli altri): “Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”. “Attraverso” qui è proprio la preposizione adatta a evocare la fondazione unitaria. Staiti, lo abbiamo visto nell’analisi del Cap. III, legge la fondazione unitaria come una specificazione della sopravvenienza. Ma se non giochiamo con le parole, non può allora al contempo comprare il tipo di taglio fra fatti e valori che la relazione, forte o debole, di sopravvenienza presuppone: per due ragioni.
La prima ragione è che questa relazione presuppone che le proprietà assiologiche non hanno materia o contenuto indagabile all’infinito, ma sono soltanto normative: tutto il “descrittivo” fa parte delle “proprietà naturali”. Staiti “compra” questa tesi (p. 113)[13], che in effetti fa parte dell’eredità mooriana dell’intera metaetica, nonostante i tentativi di metterla in questione, quali furono quelli di Iris Murdoch e di pochi altri. Se non fraintendo il suo testo, riportato in nota, finisce per condividere con Bernard Williams proprio l’idea che un concetto thick può essere analizzato in due componenti: quella “descrittiva”, che in effetti si riduce a un sottoinsieme di proprietà reali o naturali (quelle in virtù delle quali un’azione è crudele) e quella normativa, che aggiunge appunto un semplice operatore deontico, un “non dovrebbe”, o se vogliamo, una valutazione. E con questa osservazione ci avviamo alla sezione conclusiva di questa lettura, cioè all’esposizione della mia domanda fondamentale: si può far luce sull’esperienza assiologica senza respingere con decisione questa tesi, e senza accogliere la thickness, la ricchezza di contenuto o materia descrivibile in proposizioni vere (o false), come costitutiva di tutte le qualità di valore? Si può in fenomenologia proporre una metaetica senza basarsi su un’assiologia materiale?
La seconda ragione per respingere il tipo di dicotomia fra fatti e valori che la relazione di sopravvenienza, forte o debole, presuppone, è che l’unità oggettuale di ciascun bene è data precisamente dal tipo di valore che definisce quel tipo di bene. La stessa fondazione unitaria è assiologica, appare nel fenomeno come l’unità ideale dei suoi contenuti, fra i quali ci sono certamente qualità assiologiche “subvenienti”, ogni volta che la cosa appartiene alla classe dei beni. Dei quali, come ben sappiamo, è popolato il mondo della vita, il mondo dell’atteggiamento naturale. Dove ci sono beni utili, che sono la gran maggioranza degli artefatti: come potremmo mai descrivere l’unità oggettuale di una sedia prescindendo dalla sua funzione, che è quella cui risponde la sua forma, che ne fa una cosa in un senso assai preciso utile? Certo, una sedia è una sedia prima di essere bella o brutta: ma questo è perché l’unità oggettuale che la costituisce sedia è la sua funzione o utilità, dopodiché potrà essere più o meno bella senza che il suo valore costitutivo ne sia affetto. Questo è ciò che succede ogni volta che ci troviamo di fronte a un bene. Un bene non è affatto semplicemente un oggetto naturale, che contingentemente riceve o acquista un valore. L’unità cosale di un bene è costituita dal valore o dal campo di valori che nel bene, parzialmente e più o meno perfettamente, si realizza. Nel mondo della vita ci sono ogni sorta di beni d’uso, beni artistici, beni (semplicemente) estetici come i paesaggi, beni come le istituzioni, eccetera[14].
Per concludere davvero su questo disaccordo parziale, va detta un’ultima cosa: includere componenti assiologiche nelle essenze non vuol dire affatto rinunciare alla distinzione fatti/valori, che ha certamente una sua legittimità di principio (p.92) – e su questo concordo pienamente. Vuol dire che la sua “origine fenomenologica” (p. 92) non è quella individuata da Staiti, e che in ultima analisi rinvierebbe alla distinzione fra atti oggettivanti e non oggettivanti. La sua origine fenomenologica è, io credo, l’opposizione fra l’ideale e il reale, quella – in un certo senso – che ci richiama l’angoscia del grido di Munch: e non ha veramente più a che fare né col naturalismo scientifico né col dualismo, né forse con un loro liberale incontro a metà strada. Perché, lungi dall’espungere la normatività dallo IS, il fenomenologo vi ingloba ogni sorta di OUGHT. Mi sia permessa, per rapidità, un’autocitazione:
“Le essenze o idee, dicevamo, sono sempre portatrici di un elemento normativo. Poiché essere dato è essere strutturato, ecco la profusione di essenze, invarianti “eidetiche” che contraddistingue il mondo della vita secondo i fenomenologi, e anche implicite direttive di tutto il nostro percepire, sentire e fare. La sua infinita ricchezza racchiude ovunque ordine, significato, struttura, norme. Questo pensiero attraversa l’opera di Husserl dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee.”[15]
Così, un cane a tre zampe non è un buon esemplare della sua specie, e un coltello che non taglia neppure, come non è un buon guerriero un guerriero che non sia coraggioso, o un buon palo della banda uno che, come nella canzone di Jannacci, non ci vede un accidente. La salute ha la sua norma vitale, fondata in biologia, e uno Stato che non sia in grado di assicurare ai suoi cittadini almeno la pace civile ha perduto la sua ragion d’essere.
E tuttavia, l’angoscia assiologica perdura: meno drammaticamente, perdura l’opposizione fra il reale e l’ideale. Perché se in definitiva ogni cosa è un esemplare del suo eidos, o dell’unità ideale della sua specie (nel linguaggio delle Ricerche logiche), non ogni cosa ne è un buon esemplare. Quanti insegnanti abbiamo conosciuto che non sono proprio insegnanti ideali. E le repubbliche ideali abbiamo cominciato a studiarle da quando viviamo in quelle reali. Lo scarto fra essere e dover essere è tutto nella realtà com’è, che sia naturale o che sia artifattuale, istituzionale, sociale, personale – e la perfezione non è di questo mondo.
- Conclusioni sull’etica e l’assiologia
Riprendo dunque la domanda che ho formulato all’inizio di questa analisi: la prospettiva noematica, o sulla natura dei valori, che ora forse risulta più chiaramente incentrata sull’assiologia materiale (che questa prospettiva richiede di sviluppare), è solo complementare rispetto alla prospettiva noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle sue fonti di evidenza, alle fonti della conoscenza (rigorosa) che il filosofo non rinuncia a cercare? Per le ragioni che nell’analisi ho cercato di evidenziare, propendo per la seconda. Ma ora debbo spiegare in che modo l’assunzione di questa prospettiva più fondamentale farebbe maggior luce anche sugli stessi problemi che Staiti affronta.
Il disaccordo, ipotizzavo nella sezione 6, potrebbe vertere proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali.
Cominciamo a levar di mezzo le questioni secondarie. Staiti cita fra le fonti storiche principali della ricerca fenomenologica i volumi dell’edizione critica delle opere di Husserl espressamente dedicati all’Etica, che sono rimasti per molto tempo inediti e hanno cominciato ad essere pubblicati solo dalla metà degli anni Novanta (p. 36). E cita anche Max Scheler e il suo Formalismo, solo recentemente riscoperto e rivalutato[16]. C’è però una ragione di questo ritardo, che coinvolge un intero universo di ricerche di assiologia materiale di straordinaria portata e radicate precisamente in quell’angoscia munchiana per la pianta bifronte dell’arbitrarismo o antiumanesimo teoretico e pratico, logico ed etico, che sempre si riproduce nel confronto fra il filosofo e il sofista: un confronto che avviene ogni giorno nell’anima stessa del filosofo ed è tutt’altro che accademica. Ai tempi di Husserl e ancora per tre quarti di secolo dopo la sua morte vinse, nel mondo e nell’accademia “continentale”, il sofista. E furono praticamente dimenticati i nomi degli assiologi che dal ceppo fenomenologico fiorivano e fuggivano o morivano: Herbert Spiegelberg, Aurel Kolnai, Roman Ingarden, Dietrich von Hildebrand, Moritz Geiger e molti altri. Ora, non c’è dubbio che l’eredità di Scheler non si fa molto sentire in questo libro. Ma questo è infinitamente secondario, anzi il suo pregio è che semmai vi si facciano tanti altri nomi di interlocutori vivi oggi.
Andiamo al dunque, invece. Cosa sono i valori specificamente morali? Io credo che abbia molto senso cercarli nel mondo, ma non certo indipendentemente dalla messa a fuoco, del tutto fenomenologica, dei portatori ultimi di questi valori, che sono in definitiva gli agenti personali, ossia le loro decisioni, azioni, comportamenti, e alla base motivazionale di questi, le loro esperienze. E’ così fastidiosa, in tutta la metaetica mooriana e post-mooriana, l’oscillazione perpetua e oscura fra un discorso sulla natura dei valori e uno su quelli specificamente morali, che poi dà il nome alla disciplina, “metaetica”. Che cosa sono il bene e il male morali? La tradizione fenomenologica fornisce una risposta ovvia anche se illuminante: buone o cattive moralmente sono le azioni e i comportamenti, e dunque le situazioni e le realtà cui danno luogo, e dunque in ultima analisi le volontà esplicite o implicite che animano azioni e comportamenti. Ebbene, quando sono buone moralmente queste volontà? Evidentemente, quando realizzano in ogni data situazione, e in funzione delle date possibilità e capacità dell’agente, i valori relativamente superiori accessibili e non quelli relativamente inferiori, o addirittura i corrispettivi disvalori, ad esempio: a supporre che io sappia nuotare, diciamo che salvando la vita a un bambino ho preservato un bene (realizzato un valore) superiore a quello del mio comfort che avrei preservato evitando di buttarmi nell’acqua gelata. Ovviamente sia la vita del bambino sia il mio comfort sono beni o parti di beni, quindi hanno valori: ma non certo valori morali! La salute non è certamente un valore morale, ma è certamente immorale danneggiare quella altrui per i propri interessi, e così via. Una tesi fondamentale della metaetica fenomenologica dovrebbe dunque essere che il valore morale della volontà presuppone tutti i valori non morali delle cose del mondo (e, in effetti, le loro relazioni)[17], e in un senso preciso ne dipende. Se la tua vita non avesse alcun valore, che male sarebbe sopprimerla? Se nessuna cosa avesse valore, perché ci sarebbero norme sulla proprietà e che male sarebbe il furto?
Naturalmente, per quanto antikantiana sia questa tesi, c’è una cosa su cui Kant ha assolutamente ragione, ed è che la volontà non e buona o cattiva in ragione dei beni che realizza, ma dell’intenzione che la muove. Ma come può definirsi la bontà dell’intenzione se non in riferimento al valore cui mira? E perché il dovere mi obbliga, se non in quanto deriva dal valore? Dunque c’è un elemento fortemente cognitivo della bontà morale, perché le decisioni dipendono dalle valutazioni e quindi dall’adeguatezza del sentire: ma questa a sua volta dipende da quella disposizione libera, volontaria, che è la veglia del sentire, l’attenzione della mente e del cuore. In ultima analisi, dunque, moralmente buona è la persona in quanto veglia, non solo in quanto decide e agisce. Di più: in quanto è disponibile alla verifica continua delle relazioni fra i puri contenuti assiologici, fra i valori, o piuttosto a rimettere in questione tutte le proprie certezze, a fare ogni volta nuove scoperte assiologiche.
Queste due tesi impattano su alcune tesi di fondo di questo bel libro che ho forse un po’ troppo appassionatamente voltato e rivoltato. Insieme esprimono il cognitivismo assiologico in generale, e il cognitivismo etico in particolare.
Vediamo prima l’impatto di quest’ultima tesi, che esprime il cognitivismo etico così profondamente caratteristico del fenomenologo. Staiti all’inizio del libro risponde validamente all’obiezione secondo cui “la natura descrittiva della fenomenologia le impedirebbe di occuparsi di fenomeni etici, in quanto prescrittivi”. Questa obiezione, risponde Staiti, è quanto meno fuorviante: “Sono proprio i fenomeni prescrittivi dell’etica a dover essere anzitutto descritti per scoprirne la configurazione essenziale e le condizioni di validità” (pp. 36-37). Un primo punto con il quale non si può che concordare. Staiti prosegue: “Vi è però un nucleo di verità nel riferimento alla natura descrittiva, anziché normativa, della fenomenologia: la prospettiva fenomenologica non intende proporre un’etica normativa autonoma, distinta dalle tre canoniche alternative di eudemonismo utilitarismo e deontologia” (37). Ancora d’accordo: ma qui bisogna intendersi sulla portata della tesi. Quella che le conferisce Staiti è modesta, indulgente e affabile: si tratterà soltanto di un lavoro di chiarificazione, “che riporti le nozioni cardine delle tre tradizioni etiche alle loro fonti esperienziali e provi a rettificare eventuali pretese eccessive avanzate da ciascuna di esse”. La portata che conferirei io a questa tesi è invece più ambiziosa, e quindi molto meno indulgente e affabile: a ciascuna delle tradizioni rimprovererebbe un vero e proprio fatale errore, precisamente radicato nell’ignorare le tesi fondamentali di un’etica materiale dei valori. Alla tradizione eudemonistica imputerebbe la confusione di valori e fini, che porta ad agire con in vista non il maggior bene che posso portare al mondo ma lo stato personale (sia esso il mio piacere o la mia perfezione), eticamente irrilevante (non è vero che la propria felicità sia il fine, né d’altronde men che meno la ricompensa, dell’agire moralmente buono, anche se è vero, probabilmente, che ne è una fonte, o forse che solo il felice è veramente buono). Alla tradizione consequenzialista imputerebbe, come farebbe un kantiano, la confusione di beni e valori in quanto inficia l’incondizionatezza delle ragioni morali; a un kantiano imputerebbe la confusione di valori e beni, cioè l’ascrizione di ogni contenuto o materia delle motivazioni alle realizzazioni finite, relative, contingenti e contendibili dei valori nei beni, cioè l’inconcepibilità di determinanti del volere morale che siano insieme materiali (contenutistiche, thick) e apriori. Altro che pretese eccessive: errori fondamentali. Ma a questa minore affabilità fa riscontro un terzo punto, rispetto alla questione normativo/descrittivo, che a mio parere dovrebbe far parte delle tesi fenomenologiche di metaetica, ma che non so se possa dato l’impianto del libro, essere con questo compatibile: la giustificazione di ogni norma rinvia a una cognizione descrittiva, lungo le due direttive del dover essere e del dover fare: cioè lungo quella dei valori di perfezione eidetica, menzionati sopra, e lungo quella dei valori pratici o d’azione (in particolare quelli morali, come le virtù) quindi delle relazioni assiologiche pure di volta in volta in gioco. I valori infine non sono che una sottoclasse di eide, quella sottoclasse costituita dalle qualità con valenza positiva o negativa. La ricchezza delle loro materie ci rende tutti principianti nei vari domini delle assiologie materiali, ancora di più che in quelli delle ontologie materiali.
Infine, resta da verificare l’impatto che la tesi più generale del cognitivismo assiologico ha su tesi proprie di questo libro. E forse, allora, è la sua conclusione stessa a venire in questione. Un testo famoso di Peter Geach[18] offre a Staiti la base per questa conclusione, sull’interpretazione fenomenologica dell’Open Question Argument di Moore. Per Geach, “buono” e “cattivo” sono sempre aggettivi “attributivi” e non “predicativi” – dove con “attributivi” si intende che “buono” non predica una proprietà ulteriore di una cosa di tipo X che possiede già le proprietà EFG , ma serve precisamente ad attribuire a questa cosa le proprietà che lo costituiscono: un coltello è buono se la sua lama è tagliente, il suo manico solido etc., e ogni volta vediamo dal sostantivo che cosa costituisca la “bontà” attribuita alla cosa: un buon cavallo, un buon romanzo, un buon filosofo, una persona buona. Dal punto di vista di Geach, dunque, il carattere “speciale”, “non naturale” che un mooriano attribuirebbe all’idea del buono, è del tutto illusorio, e dipende dall’aver considerato “predicativo” un aggettivo “attributivo”. Ora, non è difficile per un fenomenologo riconoscere in EFG le qualità che fanno di un coltello, un cavallo, un filosofo, un buon esemplare del suo tipo: ma questo non ci basta affatto per negare che un buon X sia in effetti un X ideale, o come anche diciamo un X “esemplare”. E naturalmente questo non toglie alcuna normatività alla qualità di “buon” X. Riferito a un coltello, l’aggettivo seleziona tutte le qualità funzionali che il coltello deve possedere per essere utile, riferito a un cavallo le qualità vitali, lo slancio, il vigore, la potenza che distinguono un purosangue da un ronzino; riferito a un romanzo la capacità di avvincere senza banalità e tutte le altre qualità estetiche che distinguono un’opera narrativa degna del nome da un report sconclusionato di fatti casuali, e così via. Perché dunque Geach non si accorge che la sua distinzione fra “attributivo” e “predicativo” non confuta affatto l’Argomento della Domanda Aperta, il quale mostra pur sempre che non posso analizzare proprietà normative in termini di proprietà non normative? A mio avviso, perché non si avvede dell’errore più fatale di Moore, che sta purtroppo avvinghiato alla sua più geniale scoperta: perché è vero che le proprietà assiologiche non sono analizzabili in termini di proprietà non assiologiche, ma è falso che non siano analizzabili in assoluto. Lo sono inesauribilmente, in termini di altre proprietà assiologiche. Ne abbiamo appena dato una serie di esempi.
Questo errore fatale è a mio avviso quello che ha dato adito a tutte le “soluzioni” del dilemma della metaetica che tagliano il “descrittivo” dal “normativo” nel modo sbagliato, cioè – come suggerì Bernard Williams, analizzando i concetti assiologici “thick”, dotati di un ricco contenuto (come vigoroso o aggraziato, banale o impudente eccetera) in due parti: da una parte materia e contenuto, cioè il descrittivo, l’insieme delle proprietà “naturali”; e dall’altra un operatore normativo generico, vuoto, universale – in ultima analisi espressivo di una prescrizione sociale, di un comando soggettivo, di una convenzione, di una pressione culturale.
Ecco: l’assiologia materiale, si potrebbe dire, è nata precisamente contro questo tipo di errore, che ha precedenti in molte forme classiche di nominalismo assiologico. There is a matter of values, not just a matter of facts! Perché le qualità assiologiche dei beni esperibili, come la comodità di una sedia, la potenza di un cavallo o la bontà morale di un uomo, tutte senza eccezione, sono thick e non thin, ricche di contenuto. Concetti assiologici “sottili”, come “buono” (ma anche “bello”) sono proxy per designare tutte le varietà di qualità assiologiche positive, o la valenza positiva che le accomuna: gli aggettivi di una lingua umana non bastano neppur lontanamente a designarle tutte, e l’esperienza assiologica più comune è quella di una sorta di ineffabilità, sempre superabile ma mai del tutto. Utilizzando la distinzione di Geach possiamo dunque dire che l’aggettivo “buono” nel significato “attributivo” che qualifica un certo tipo di bene è una variabile che varia sulle qualità assiologiche materiali positive dei buoni esemplari di quel tipo di bene.
Credo che Staiti possa aver in mente qualcosa di non dissimile quando usa la distinzione di Geach per arrivare a un’”interpretazione fenomenologica dell’argomento della domanda aperta” di Moore. Per farlo, la sviluppa nel senso che “è buono” sta alla posizionalità assiologica come “esiste” sta alla posizionalità dossica. Ossia, “è buono”, esprime la posizione assiologica, la risposta alla valenza positiva della cosa intesa o incontrata. E fin qui saremmo più che d’accordo. Ma qui salta fuori quella che a me pare un’incongruenza. Staiti compra di Geach proprio la parte dell’argomento che contesta a Moore l’idealità, la non-riducibilità in termini di proprietà naturali, non normative, dell’idea di buono. Per questo abbiamo detto sopra, nella sezione 2 commentando questa conclusione, che secondo Staiti non è affatto per la sua idealità o la sua eccedenza normativa, che l’esplicazione del valore in termini di proprietà naturali lascia aperta la domanda (“ma è davvero buono”?), ma per la sua vuotezza. Vale a dire, ci sarebbe un’intrinseca mancanza di contenuto del positum assiologico (forse perché correlato di un atto non oggettivante?), per la quale “quando sostituiamo “buono” con un qualunque altro aggettivo (“piacevole”, “salutare” … ecc.) la nostra domanda non si riferisce più a un positum, ma torna a riferirsi a un oggetto ordinario” (140). Ma perché, la poltrona che mi appare buona, quella che ho davanti consentendo con delizia, o che sogno per quando sarò tornato a casa, non è, in questa terminologia, un positum ? E che cosa posso intendere con la mia posizione assiologica, se non che la poltrona è comoda? Come potrei mai assentire con delizia o aspirare alla mia buona poltrona, se non “intendessi” questa sua invitante affordance, la sua comodità? E quand’è che la poltrona diventa “un oggetto ordinario”? Quando, abbandonandomici, ne verifico la comodità? Se spiego a qualcuno che è una buona poltrona perché è comoda, non c’è alcuna eccedenza mooriana: la domanda “ma è davvero buona?”, non ha senso. Altra cosa sarebbe se spiego a qualcuno che è buona perché è fatta di lana, materassi, molle. Allora avrebbe senso chiedere: ma è davvero buona? E’ comoda?
Ma tant’è : abbiamo già visto (sez. 7, con riferimento a Staiti p. 113) che per Staiti la vuotezza di un aggettivo thin come “buono” non può essere semplicemente quella di una variabile su predicati thick, su qualità assiologiche materiali, come comodo. Che il primo non può che esprimere la vuotezza oggettuale di una posizione assiologica e il secondo la proprietà di un oggetto (ordinario). Non riesco ad accedere all’evidenza fenomenologica per questa tesi: ma se non la fraintendo, è un netto rifiuto del cognitivismo assiologico. E infatti ecco la conclusione: la costante “apertura” delle domande mooriane
“non deriva dalla supposta non-naturalità del bene, bensì dalla “natura” peculiare degli oggetti di cui esso si predica: posita e non oggetti ordinari”. (141)
Una conclusione che, mentre leva a Moore la sua sola unghia, la tesi che la normatività non è naturalizzabile, leva anche il bene e il male dal mondo degli oggetti ordinari.
Non mi resta che ringraziare Andrea Staiti per questo – lo ribadisco – bellissimo libro. Forse, leggendo queste note, penserà che esse lo rimproverino di non aver scritto un altro libro. Invece io l’ho trovato appassionante proprio perché è questo. Per avermi dato materia per questo confronto serrato, e la gioia per ciò che ho imparato leggendolo: perché se non sono riuscita a rendergli ragione, ho forse, con il suo aiuto, capito meglio quanto resta da fare, quanto da chiarire, perché la vocazione assiologica della fenomenologia riesca infine a esplicarsi nel mondo della vita, ma soprattutto nel mondo dei vivi oggi – che ne ha molto bisogno.
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[1] Di cui, infatti, non sono la prima ad occuparmi: segnalo almeno le recensioni di Susi Ferrarello, e Bianca Bellini (2020). Anche per questo la mia lettura, più che una recensione, è una discussione approfondita, che prende questo libro molto sul serio come contributo a un campo di studi di enorme importanza, e che solo oggi rivede finalmente una ripresa da parte fenomenologica: questo può in parte giustificare, anche se non forse scusare, l’inusuale lunghezza di questa analisi, e la sua passione.
[2] Le principali fra queste sono esposte sinteticamente nel cap. VI di Towards a Phenomenological Axiology. Discovering What Matters, Palgrave, 2021, forthcoming, e in italiano nel cap. V di Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori, Torino: Einaudi, 2015.
[3] Husserl (1900-1901), 1964, 22 p. 69 (trad. lievemente modificata).
[4] De Monticelli (2020, 2018, 2016).
[5] Hume (1739), 1978, p. 335.
[6] Husserl (1911), 2005, p. 97. Per una discussione di questa tesi e del concetto di posizionalità, che vi è strettamente connesso, v. De Monticelli (2018), pp. 158-163. Da questo punto di vista, a me pare che l’assenza di menzione, da parte di Staiti, del nesso fra Stellungnehmen e Saetze lo privi di un’importante risorsa analitica. La posizionalità di un Satz corrisponde in effetti alla “forza assertoria” con cui è intrattenuto, in un giudizio, il contenuto proposizionale. Il positum di cui parla Staiti (129-137) è certamente “l’unità del senso e del carattere tetico” di cui parla Husserl in Ideen I, § 133. Tuttavia mi sembra che Staiti non faccia uso della potente generalizzazione che Husserl fa del “carattere tetico” (che è poi la “forza assertoria” di Frege, ciò che Austin svilupperà nella pragmatica degli atti illocutori) nel senso di uno Stellungnehmen o impegno caratteristico di ogni sfera di atti, dove dobbiamo tenere la sfera degli atti emotivi, a differenza che in Brentano, distinta da quella degli atti conativi). Voglio dire che è un punto rilevante in tema di posizionalità assiologica!
[7] Husserl (1908-14), 2002, cit. da Staiti a p. 90.
[8] Ma sacrosanto, nella sua modestia! Pensate ai deliri, che si avvieranno presto a diventare criminali, di Heidegger con il suo “tanto peggio per la logica” dell’operatore di negazione che si perde nel vortice di un nulla più originario….
[9] “La ragione logica ha però questa straordinaria prerogativa: essa formula l’istanza di giudizio, determina la legittimità e predica le leggi della correttezza in quanto leggi non soltanto per ciò che comprende il proprio campo, ma anche per ciò che concerne il campo di ogni altro genere di intenzione, e dunque per ogni altra sfera della ragione. La ragione valutativa e quella pratica sono, per così dire, mute e in un certo senso cieche. Il vedere in senso stretto e in senso lato, e dunque anche il vedere nel senso del “cogliere con evidenza” è un atto dossico”. (…) Si deve dunque tenere alta la fiaccola della ragione logica, poiché solo così quanto di forme e norme è rimasto nascosto nella sfera emotiva e della volontà, può manifestarsi ora in piena luce. Gli atti logici sono tuttavia soltanto la luce che rende visibile unicamente ciò che vi è già” Husserl (1908-14), 2002, pp. 85-86.
[10] Husserl (1920-24), 2009. Per la tesi dell’”intreccio” v, De Monticelli (2018bis), pp. 123-127.
[11] Husserl (2020), Hua XLIII/3, Staiti p. 99.
[12] Si veda, per la migliore ontologia fenomenologica dell’opera musicale, il classico Ingarden (1955), 1989.
[13] Nella nota 1 all’ultimo capitolo, parlando della distinzione introdotta da Bernard Williams fra concetti etici “sottili” (thin) e “spessi” (thick), Staiti afferma di considerarla filosoficamente fuorviante, perché “La differenza, ad esempio, fra il concetto di bene e il concetto di crudeltà non è una differenza di grado o di spessore, bensì una differenza che rispecchia quella tra proprietà di oggetti ordinari (la crudeltà) e proprietà di Sätze, cioè di oggetti meramente intesi (il bene”
[14] La distinzione fra beni e valori e la teoria dei beni come unità assiologiche concrete costituisce il capitolo iniziale e fondamentale del Formalismo (Scheler 2013). Recentemente, Emanuele Caminada ha attirato l’attenzione su quel caso di fondazione unitaria di tipo assiologico che Scheler esprime con il participio “durchdrungen” (GW II, 44), “permeato”: come l’utilità che “permea” la sedia, legando tutti gli aspetti essenziali alla sua funzione, pur nel variare possibile di materiali, fogge, dimensioni, stili…. Caminada (2016), «omnes ens est aestimativum»: On Scheler’s Formal Axiology and Metaphysics presentato alla conferenza Feeling, Valuing, and Judging: Phenomenological Investigations in Axiology, St. John’s University, New York City 19-21 May 2016. Ringrazio Emanuele Caminada anche per avermi segnalato Caminada ( forthcoming, 2021) “Things, goods, and values”.
[15] De Monticelli (2018), p. 77.
[16] Lo cita, mi sia permesso di sottolinearlo, meritoriamente nella bellissima traduzione italiana (ma con testo a fronte) di Roberta Guccinelli, che ha portato un po’ di luce su un capolavoro ignorato anche per l’illeggibilità di precedenti traduzioni: Scheler 2013.
[17] Mi permetto di rinviare per questo all’ultimo capitolo di R. De Monticelli (2015).
[18] Geach (1956).