Nicolai Hartmann: Das Wertproblem in der Philosophie der Gegenwart, Meiner Verlag, 2024

Das Wertproblem in der Philosophie der Gegenwart. Aufsätze zu Wert und Sinn Book Cover Das Wertproblem in der Philosophie der Gegenwart. Aufsätze zu Wert und Sinn
Philosophische Bibliothek
Nicolai Hartmann
Felix Meiner Verlag
2024
Paperback
275
https://meiner.de/philosophische-bibliothek/h/hartmann/das-wertproblem-in-der-philosophie-der-gegenwart.html

Die Grundfragen der Werttheorie und Wertethik haben Nicolai Hartmann über sein ganzes akademisches Leben hinweg begleitet. Entsprechend sind im Laufe der Zeit neben seiner monumentalen Ethik verschiedene Aufsätze entstanden, in denen sich Hartmann mit einschlägigen Einzelphänomenen befasst, seinen eigenen Gesamtentwurf umreißt oder sogar aktualisiert. Hier formuliert er seine berühmte These von Werten als „Problem“, reflektiert das Verhältnis von Werten und kulturell vermittelten Wert- oder Sinnerfahrungen und beschreibt Wertphänomene im Bereich des Ästhetischen. Zentral ist auch die Frage nach der Beziehung von Werterfahrung und „sittlichen Forderungen“, die er zudem mit Blick auf historische Vorläuferfiguren und Gegenentwürfe einordnet. Insgesamt ergibt sich das Bild eines reichen wertphilosophischen Denkens, das ausgehend von heutigen Debatten schon deshalb attraktiv ist, weil es die Frage nach Werten nicht auf moralphilosophische Probleme reduziert und angesichts von Erfahrungen von Geschichtlichkeit und kultureller Vielfalt sprachfähig ist.
In seiner ausführlichen Einleitung ordnet der Herausgeber Moritz von Kalckreuth die verschiedenen Texte in den Kontext des Gesamtwerks Hartmanns, der philosophischen Debatten zu seinen Lebzeiten und der heutigen philosophischen Diskussion um Werte ein.

D.J. Hobbs: Towards a Phenomenology of Values: Investigations of Worth, Routledge, 2021

Towards a Phenomenology of Values: Investigations of Worth Book Cover Towards a Phenomenology of Values: Investigations of Worth
Routledge Research in Phenomenology
D.J. Hobbs
Routledge
2021
Hardback £96.00
240

Andrea Staiti: Etica Naturalistica e Fenomenologia

Etica naturalistica e fenomenologia Book Cover Etica naturalistica e fenomenologia
Percorsi
Andrea Staiti
Società editrice il Mulino
2020
Paperback
160

Reviewed by: Roberta De Monticelli (Director of the Research Centre PERSONA; San Raffaele University, Milan)

La teoria dei valori che ci manca

Dialogando con  Andrea Staiti (2020), Etica naturalistica e fenomenologia, Bologna: Il Mulino

 

  1. Tre osservazioni preliminari

La prima cosa da dire è che questo è un bellissimo libro[1]. La seconda, che era un libro necessario, e comincia a riempire una lacuna che i colpevoli ritardi dei fenomenologi, non solo italiani, e fra i più colpevoli quello di chi scrive, avevano lasciato spalancata come un grido di Munch.

Sì, perché non si tratta genericamente di filosofia morale, e neppure specificamente di etica normativa – le quali da almeno una ventina d’anni sono sotto la lente dei fenomenologi, anche se – a mio avviso – in modo ancora troppo esegetico o filologico, o non abbastanza fenomenologico.  Qui si tratta di metaetica, per l’essenziale, e in particolare di metaetica naturalistica, oggi di gran lunga la più gettonata anche fra i non specialisti (si vedano recenti dibattiti anche sul nostro www.phenomenologylab.eu).  E quindi, bene o male, di teoria dei valori: lasciata finora quasi senza interlocuzione proprio dalla fenomenologia, che quasi era nata per parlare di questo! Un vero scandalo, attenuato soltanto dalla presenza di pochi, troppo pochi e ancora troppo iniziali contributi, quasi tutti rigorosamente citati nel testo di Staiti.

Che esagerazione, penserete: la fenomenologia nata per parlare di questo! Ma sì, questa è la terza cosa da dire, prima di entrare in materia. Basta che pensiate ai valori epistemici: chiarezza, evidenza, rigore-scientificità, buona fondazione, verificabilità, conoscenza – e naturalmente avrete tutto ciò di cui anche la più tradizionale e poco immaginativa esposizione della fenomenologia – specie classica, specie poi husserliana – si preoccupa. Ma, tanto per andare più a fondo, e giustificare il mea culpa sui ritardi: penso che un’assiologia fenomenologica sia oggi il più urgente dei nostri bisogni intellettuali, un bisogno teorico ma anche culturale. Questa assiologia fenomenologica da farsi oggi salirà certamente sulle spalle dei suoi classici, ma altrettanto naturalmente dovrà pur discutere con i filosofi contemporanei – specie se condividono almeno implicitamente un impegno verso i valori epistemici, oltre che eventualmente trattarne al livello metateorico, e quindi dovrà tradurre il suo gergo in termini universalmente accessibili, come già sta facendo questo libro eccellente.

Quest’ultima considerazione era necessaria proprio per entrare in materia. Perché mette subito le carte in tavola: non si è mai tanto interessati ai libri quanto se ci si sta occupando proprio delle cose di cui parlano. Perciò questa mia discussione non sarà distaccata o neutrale: avrà sullo sfondo alcune delle tesi che mi stanno a cuore[2]. Non invasivamente spero, perché ora è delle tesi di Andrea Staiti che stiamo parlando. Ma per dare già un’idea di come voglio procedere, espliciterò subito l’essenziale della mia lettura. L’approccio di Andrea Staiti alla metaetica dà tutto quello che si poteva dare sfruttando il versante noetico dell’analisi fenomenologica – fuori dal gergo, il versante della riflessione sugli atti e i vissuti del soggetto, quelli che in terminologia più standard, e pur con una perdita di un dettaglio di informazione, si chiamerebbero stati intenzionali. Ma, come perdiamo contenuti rilevanti di analisi se riflettiamo sul vedere e il guardare senza tener conto delle caratteristiche proprie dei contenuti del visibile, così accade o può accadere se descriviamo i modi della cognizione assiologica – del valutare ad esempio – indipendentemente dai loro oggetti, o meglio dalla “materia” di questi oggetti, i valori: specifici oggetti di un’assiologia “materiale”, che la sua materia desume dal versante noematico dell’analisi, cioè dall’indagine sulla natura dei valori – ovviamente in quanto dati al loro specifico modo d’esperienza.

Procederò quindi affiancando questioni di assiologia materiale – o noematica, o a parte objecti – all’esposizione di alcuni fra i problemi e le soluzioni che Staiti propone, con una importante eccezione nel cap. III, a partire dalle risorse della fenomenologia noetica o a parte subjecti. Solo alla fine di questa disamina potremo capire se la prospettiva noematica è solo complementare rispetto a quella noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle fonti di evidenza, o riempimento intuitivo, dei principi di un’assiologia fenomenologica. Né nell’una né nell’altra ipotesi il valore della ricerca portata a termine in questo libro ne risulterà minimamente diminuito.

  1. Uno sguardo d’insieme

Cominciamo da uno sguardo sulla strategia generale del libro. Staiti sceglie di non disperdere la nostra attenzione nell’elenco sistematico delle posizioni possibili riguardo a alla questione fondamentale della metaetica, che riguarda l’esistenza e la natura delle proprietà assiologiche, e specificamente morali, posizioni che si dispongono intorno a quello che a partire da Moore (1903, 1964), ma in effetti già da Hume, appare un dilemma: se le proprietà assiologiche sono proprietà reali, che qualificano e modificano la realtà di questo mondo, sembrano perdere la normatività che pure le distingue, nel senso che dettagliano il mondo com’è, e non come dovrebbe essere; ma se vogliamo preservare questa distintiva normatività, dove le metteremo, per così dire, se non in un altro mondo, un mondo di modelli ideali, molto simile alle idee platoniche? In metaetica il “naturalismo” si origina qui, come rigetto più o meno argomentato del dualismo platonico che il secondo corno del dilemma comporta.

Staiti invece ci introduce subito in medias res, attraverso un’agile esposizione delle forme che prende il naturalismo metaetico, e del modo in cui la fenomenologia (come stile e metodo di pensiero filosofico che ha radice nei suoi classici)  si posiziona utilmente nel dibattito, proprio a partire dall’esigenza che in questo dibattito si fa sentire di rendere conto della fenomenologia del discorso morale (p. 21): cosa intendiamo dire quando diciamo che un’azione è sbagliata? Questa prima mossa permette di lasciare da parte, per così dire, quelle posizioni che risultano prima facie irrilevanti al senso e ai riferimenti, quindi alle condizioni di verità, del discorso morale, e fra questi ci sono già alcune delle più classiche e ricorrenti posizioni: quelle del cosiddetto non-cognitivismo, emotivismo ed espressivismo, che da Hume a Ayer a Blackburn e Gibbard  riducono le proprietà assiologiche a stati dei soggetti, in particolare stati emotivi, e i loro giudizi a espressioni di questi stati, e quelle dei fisicalisti che affrontano la questione delle proprietà assiologiche solo per denunciare l’illusorietà dei discorsi morali, riferiti a entità che non esistono – nell’ipotesi che esistano soltanto le entità riconosciute dalla fisica o a queste riducibili. La fenomenologia del discorso morale induce quindi anzitutto a specificare il senso in cui si può essere “naturalisti” in etica: sia accettando la distinzione fra naturalismo scientifico e naturalismo “liberalizzato” (De Caro 2013), che si riduce al requisito assai modesto di non ammettere entità che violino apertamente le leggi naturali (come gli interventi “divini”, in una forma piuttosto rude di teologia miracolistica o magica), sia accettando una parte dell’argomento mooriano secondo cui le proprietà assiologiche sono indefinibili nei termini di quelle naturali (Cuneo 2007, Crisp 2011).

Il cap. I ha così istruito la questione che occuperà, sotto prospettive complementari, gli altri tre capitoli: come render conto del rapporto fra proprietà naturali e proprietà assiologiche, in modo da rendere ragione, da una parte, all’esigenza del naturalismo (liberalizzato) che valutazioni e giudizi portino su fatti di questo mondo e non di un altro, e d’altra parte, al requisito di apriorità che la stessa “fenomenologia del discorso morale” ci presenta come inaggirabile? Perché se affermiamo che la tortura è inammissibile, noi riteniamo che la verità di questa tesi non dipenda certo dall’induzione empirica, che al contrario ci mostra la tortura praticata e impunita in molti luoghi della terra. Staiti intende mostrare che la fenomenologia (questa volta nel senso dello stile di pensiero e del metodo filosofico che portano questo nome) ha risorse per suggerire risposte illuminanti a questa questione, rispettivamente: dal punto di vista epistemologico (Cap. II), dove si mette a fuoco la nozione di intuizione morale in un utile confronto con Robert Audi; dal punto di vista ontologico (Cap. III), dove la relazione di sopravvenienza delle proprietà assiologiche su quelle naturali, tirata in direzioni diverse da naturalisti e anti-naturalisti per sottolineare rispettivamente la riducibilità e l’irriducibilità delle prime alle seconde, viene ad essere inclusa come caso particolare di Fundierung, o vincolo di (co)variazione fra parti dipendenti di un intero. Un bel risultato, perché la teoria husserliana degli interi e delle parti (III Ricerca Logica) è l’ossatura ontologico-formale di tutta la fenomenologia, e la misura della sua generalità e insieme della sua precisione analitica in quanto, potremmo dire (ma il termine non è di Staiti), teoria delle varietà apparenti, cioè di ogni possibile scenario concreto.   Infine, armato di questa doppia strumentazione epistemologica e ontologica, Staiti offre nel IV e ultimo capitolo una lettura squisitamente noetica del famoso Open Question Argument (OQA) di Moore, ovvero della ragione ultima per resistere alla naturalizzazione delle proprietà assiologiche. Riassumo informalmente: non è affatto l’idealità, cioè in definitiva il contenuto normativo della proprietà assiologica, a sfuggire alla sua definizione in termini di proprietà naturali, che lasciano sempre aperta la domanda decisiva (supponiamo che il bene sia il piacevole: ora questo caso di piacevolezza è anche cosa buona?). No: ma è, in definitiva, la sua vuotezza! E’ il fatto che ogni, come oggi diremmo, impegno assiologico (x è generoso, coraggioso, temperante) deve ancora ottenere un “riempimento intuitivo” adeguato, esemplare (“questa è quella che chiamiamo un’azione generosa!” – “questo è quello che chiamiamo un buon coltello!”) perché la proposizione assiologica in questione abbia anche solo la possibilità di essere vera. In altri termini, l’OQA misura semplicemente la differenza fra l’atto di comprensione “vuota” della qualità intesa, e l’atto (potremmo dire: l’incontro) che offre, in tutta la sua ricchezza descrittiva e tipizzabile, la cosa stessa come era intesa ancora non intuitivamente, non data in carne ed ossa, nella posizione assiologica.

  1. Analisi di temi per capitoli. A partire dalla conclusione, Capitolo IV

Cominciamo dalla fine, ma solo per dare la direzione della riflessione e poi affrontare nel merito una minuscola scelta degli argomenti di questo libro breve ma molto denso. Possiamo notare due cose: da un lato la sorprendente generalità della conclusione, che in definitiva sembra risultare valida per qualunque tipo di proposizione, ad esempio botanica o geometrica (pensate ai solidi platonici, e alla differenza fra saperne le definizioni e visualizzarli) o di teoria musicale o di tecnica alpinistica.  Ma questa generalità si ottiene al prezzo di dismettere come irrilevante l’angoscia quasi “munchiana” della Domanda Aperta di Moore, più formalmente quell’eccedenza dell’ideale sul reale – quel possibile sguardo su altri mondi che l’ideale, l’utopico, comportano;  insomma, quella loro possibile, caratteristica opposizione che i filosofi hanno sempre a loro modo concettualizzato, a partire dalla classica teoria di Platone del bene “al di là dell’essere”, epekeinas tes ousias. Quell’opposizione che ha in effetti del paradossale, perché è proprio l’esperienza di situazioni in cui non c’è giustizia, o in cui c’è positiva ingiustizia, che ci fa “vedere” cosa sia giustizia. C’è un sapore specifico dell’assiologico che si perde in questa conclusione.

  1. Sopravvenienza o fondazione. Capitolo III

Ma dall’altro lato possiamo apprezzare la coerenza e linearità dell’intero discorso, che riesce a sdrammatizzare l’opposizione fra due realismi, quello naturalistico e quello metafisico e dualistico dei non-naturalisti (Shafer Landau (2006), Enoch (2011), ma prima di loro Tommaso d’Aquino e il giusnaturalismo classico) “stemperandolo” prima nell’appello fenomenologico all’esperienza (Cap. II), che ci riporta a un confronto serrato proprio fra teorie della percezione (della natura dell’atto percettivo); e poi riassorbendo, per così dire, nella teoria degli atti perfino il problema della relazione fra proprietà reali o fattuali e proprietà assiologiche (Cap. III). Questo problema infatti, che i filosofi analitici nostri interlocutori risolvono in termini di sopravvenienza, viene affrontato da Staiti a partire dal “versante ‘soggettivo’ che ci è ormai familiare” (p. 100). In realtà, suggerisce Staiti, il mistero della sopravvenienza, o se preferite il dilemma della metaetica, si risolve a partire dalla teoria husserliana, tutta noetica, della fondazione degli atti non oggettivanti (emotivi e volitivi) sugli atti oggettivanti (percezioni e giudizi). E così anche la fondazione o non indipendenza, anzi proprio la fondazione unitaria o non indipendenza di ciascuna delle parti relativamente alle parti stesse e all’intero, questo potentissimo strumento analitico capace di descrivere con precisione estrema, come scrive Husserl, “ciò che tiene insieme tutte le cose […] i rapporti di fondazione”[3] (il dono dei vincoli, per così dire) – si riconduce a quel caso particolare che sarebbe la fondazione degli atti non oggettivanti sui quelli oggettivanti. Ma questo caso particolare, che governa la vita della coscienza, mi chiedo, è veramente più fondamentale delle fondazioni che scopriamo nelle cose stesse, nei fatti e nel loro rapporto coi valori? Non sarà anche qui, come dovunque in fenomenologia, la natura delle cose stesse a prescrivere il tipo di cognizione che le cose richiedono, e quindi a decidere anche della correttezza delle riflessioni noetiche? E perché mai, se no, aprire un capitolo nuovo e straordinario dell’ontologia formale fenomenologica, la teoria della varietà apparenti ovvero la mereologia (io la chiamo piuttosto olologia) husserliana? Intendiamoci, e Staiti lo sa bene, la teoria della ragione, cioè dei nessi motivazionali che legano gli atti, fa della fenomenologia della coscienza husserliana una teoria dell’esperienza sotto la “giurisdizione della ragione”, appunto, e non una semplice psicologia. Ma appunto: se questa teoria della ragione fosse sufficiente a descrivere con fedeltà lo specifico tipo di richieste poste ai soggetti dalla natura delle cose stesse (in quanto oggetti DATI nei modi in cui lo SONO, ovviamente), che bisogno ci sarebbe di una teoria della realtà oltre la teoria della ragione e prima di essa, di un’ontologia fenomenologica, formale e materiale o regionale? Quale sarebbe il senso di quel principio di priorità del dato sul costruito che è il motto stesso della fenomenologia, “alle cose stesse”?

Qui però la mia domanda è molto più specifica. L’assiologia non è una regione ontologica materiale a parte, e non potrebbe proprio! La circostanza che il valore né si riduce al fatto né sta in altri mondi che quello dei fatti, l’eccedenza e l’opposizione fra ideale e reale, stanno lì ad impedirlo: sono l’osso duro che resta inalterato e che nutre ancora il dilemma della sopravvenienza normativa (altrimenti ci potremmo comprare un qualunque neoplatonismo che riduce l’esse al bonum, o un qualunque spinozismo che riduce il bonum all’esse: gli errori “continentali” più frequenti).  L’osso duro che, io ne convengo pienamente, il fenomenologo proverà a sciogliere in termini “olologici” (io credo, e ho provato a mostrarlo altrove in diversi casi specifici[4], che i valori siano in definitiva qualità globali del secondo ordine, intuitivamente vincoli di variazioni di strutture (“essenze”) di concreta, strutture o essenze che sono a loro volta vincoli di variazione di contenuti dati). E tuttavia, la stessa assiologia formale – perché ad essa appartiene evidentemente la tesi sulla natura dei valori, che dovrebbe esserne la proposizione fondamentale – in tanto ha ragione di esistere, in quanto, appunto, formalizzazione di un’assiologia materiale. Ma la vera  questione è: cosa riusciamo a illuminare dell’esperienza dei valori, degli oggetti stessi o materie di questa esperienza, e soprattutto del pensiero che se ne nutre (dopotutto, il pensiero assiologico sta alla base delle strutture normative che sorreggono le civiltà umane) a partire soltanto dalle strutture formali della coscienza emotiva e volitiva? Forse non è un caso che la questione degli atti oggettivanti/non oggettivanti sia rimasta tanto più oscura di molte altre dottrine di Husserl, anche se Staiti offre un notevole contributo a dirimerla.

  1. Modi della presenza in carne ed ossa. Capitolo II

Questa considerazione, che come dicevamo riguarda il cap. III, mi permette di risalire al II con la domanda che ne è la prosecuzione. Siamo sicuri di poter rispondere adeguatamente alla teoria di Robert Audi della percezione morale, prima di aver presente l’intenzionalità specifica caratteristica degli atti di Wertnehmen, ovvero del sentire assiologico? E si può descrivere questa intenzionalità specifica senza indagare, da un lato, lo specifico oggetto intenzionale che questo sentire presenta, i beni e i mali, le cose stesse (oggetti fatti eventi situazioni etc. ) assiologicamente cariche; e dall’altro lato, però, la specifica posizionalità degli atti corrispondenti, la posizionalità assiologica? Questione tanto più cruciale in quanto il concetto di posizionalità gioca un ruolo decisivo nella conclusione di questo libro, cioè nella rilettura fenomenologica dell’intuizionismo di Moore, conclusione che io ho riassunto sopra (§2) in termini molto informali, precisamente perché non eravamo ancora entrati nel vivo della questione di cosa la posizionalità assiologica sia.

Mi spiego. Quello che colpisce nei testi di Audi è la completa assenza di contenuto, non-concettuale o concettuale, della qualità “morale” del percetto. Secondo Audi (2015) si può, letteralmente, “vedere l’ingiustizia” compiuta da qualcuno, nel senso che si vede l’oggetto o il fatto o l’evento con tutte le sue proprietà reali, fattuali:  in virtù delle quali il fatto costituisce un’ingiustizia, ad esempio un omicidio. Proprio come nel famoso esempio di Hume (1739)[5]: esaminate bene il fatto in questione, vi troverete la dinamica dell’azione, la forza e la direzione del movimento, i motivi e le passioni, ma non vi troverete alcuna proprietà o relazione corrispondente alla sua ingiustizia. Che differenza c’è allora fra Audi e Hume? Piuttosto dottrinale, direi: di dottrina che non modifica essenzialmente la visione, solo la reinterpreta. L’omicidio in questione un effetto me lo fa: un’impressione di unfittingness. Perché questo non è soltanto, come voleva Hume, uno stato soggettivo (eventualmente, intersoggettivo, una risposta socialmente appresa), privo di portata cognitiva sul mondo? Per la maggior complicazione della teoria della percezione di Audi, che prevede almeno tre componenti fra loro connesse: una componente “fenomenologica” (“l’effetto che fa”), una componente rappresentativa (la mappa mentale che corrisponde, ad esempio in termini di colori, forme, movimenti, all’evento fisico), e una componente causale (l’evento in questione che impatta sul sistema percettivo). A queste si aggiunge una ulteriore componente che è esperienziale o “fenomenologica” (quale, effetto-che-fa) ma non rappresentativa, ed ecco la nostra unfittingness. Ma questa aggiunta non basterebbe a rendere magicamente oggettiva e non soltanto soggettiva l’impressione, se non venisse in soccorso l’ausilio ontologico della sopravvenienza, per cui l’ingiustizia è “fondata” (grounded) o, in una versione precedente (Audi 1997) “ancorata” nelle proprietà reali dell’omicidio, e quindi infine inerisce al percetto – sia pure come uno stigma negativo, una bandiera non-verbale che dice “così non va”. Per rendersi conto dell’assenza di contenuto descrittivo, di “materia” della “percezione morale” di Audi, si può immaginare un caso di eutanasia che abbia le identiche qualità visibili di un accorto assassinio, e chiedersi come farebbe un’impressione assiologica tutta diversa ad “ancorarsi” in una scena percettiva identica. Eppure, del tutto a prescindere dal giudizio morale che l’osservatore finirà per darne, una qualità assiologica tutta diversa permea l’azione (diciamo ad esempio la pietà tragica che permea i gesti accorti dell’agente).  Generalizzando, si può parlare con Audi di “intuizione morale” quando l’impressione morale riguarda non questo fatto particolare ma, poniamo, l’omicidio in generale, che è sbagliato. Ma queste intuizioni appaiono altrettanto vuote di materia assiologica – altrettanto thin. Prive di componente assiologica descrittiva, ridotte alla componente formale normativa (giusto, sbagliato).

Ma a questa, in fondo assai mooriana, assenza di contenuto descrittivo delle proprietà assiologiche, Staiti ha qualcosa da obiettare, da fenomenologo? Posso sbagliarmi: ma mi pare di no. Qui la sua linea di difesa  “noetica” – che insiste su quale sia l’atto piuttosto che sulla sua materia – rischia, per aver troppo concesso a Robert Audi, di farci smarrire per via gli atti rilevanti: che non sono quelli della percezione sensoriale, ma sono quelli del sentire e degli approfondimenti riflessivi delle ricchissime qualità assiologiche delle cose (e delle relazioni fra qualità assiologiche), in tutto il loro spessore. La grazia di questo gesto, la gentilezza di questa persona, la crudeltà di questa azione, il nesso eidetico fra brutalità e violenza, ma non fra crudeltà e violenza. Se non la fraintendo, la strategia critica di Staiti è la seguente: 1. Contrapporre alla teoria della percezione di Audi quella fenomenologica (cioè una teoria non rappresentazionalista ma diretta, secondo cui percezione è presenza diretta dell’oggetto nel come, fallibile e sempre inadeguato o prospettico, del suo darsi); 2. Contrapporre alla teoria dell’intuizione morale di Audi quella fenomenologica dell’intuizione come riempimento di un’intenzione, fuor del gergo come verifica in modalità di presenza “in carne ed ossa” dell’oggetto di un giudizio (non necessariamente verbale o concettualmente articolato), cioè del positum di una posizione dossica.

  1. La questione della posizionalità

Ed eccoci alla famosa posizionalità. Io credo che poche nozioni siano importanti come questa in fenomenologia, perché è precisamente in sua assenza che la nozione non fenomenologica di intenzionalità si riduce a quella di aboutness. Uno stato mentale è intenzionale se è riferito a un oggetto. Punto. Ma se i fenomenologi preferiscono parlare di atti piuttosto che di stati, è precisamente perché “tutta la vita è prendere posizione”[6] : ogni stato intenzionale è un atto personale in quanto include una posizione, attraverso la quale soltanto rispondiamo al mondo, e rispondiamo sempre più o meno correttamente e adeguatamente a seconda che le posizioni siano corrette o no. Che siano dossiche (o di esistenza), come nelle esperienze e nei giudizi di fatto; che siano assiologiche (o di valenza), come nelle esperienze e nei giudizi di valore; che siano pratiche (o di endorsement), come nelle decisioni e nelle azioni. Che poi le posizioni e le loro modificazioni siano corrette o scorrette (e questa possibilità le pone tutte sotto la “giurisdizione della ragione”) dipende precisamente dalle cose stesse, che in tutte le loro dimensioni (di realtà, di valore, di praticabilità) sono fonti infinite di informazione, forniscono cioè contenuti o “materie” di indefinita ricchezza e “spessore”, mai esaurientemente note, sempre di nuovo da indagare. Ma se invece dovessimo ammettere, come Staiti suggerisce (pp. 87-89), che gli atti emotivi e quelli volitivi non hanno posizionalità propria, ma la loro “qualifica posizionale” è tratta da altri atti (i famosi atti “oggettivanti”), come potremmo, da fenomenologi, argomentare contro lo scetticismo non solo logico, ma anche assiologico e pratico? (E non c’è dubbio che fin dall’inizio della sua vita filosofica lo stesso Husserl abbia soprattutto avuto a cuore la questione dello scetticismo in tutte le sue forme, del confronto continuo con se stesso in cui essa pone il filosofo, e del modo in cui rispondervi sempre di nuovo). Come potremmo, dicevo, anche soltanto porre la questione della validità delle valutazioni e delle decisioni? Come potremmo cioè mostrare, non certo se una data valutazione è valida o no, che non spetta al filosofo, ma dove occorre continuare a “guardare”, come approfondire la cognizione e proseguire l’esperienza della cosa stessa, per vedere se lo è, infine, o no? Come può esserci una indefinita possibilità di approfondimento e ricerca anche nei campi d’esperienza assiologica (e pratica), se non ci sono posizioni originalmente assiologiche e pratiche, o almeno se anche i valori corrispondenti non sono dati “in carne e ossa”?

Io credo che sia questa la questione cruciale, dove un umanismo fenomenologico si distingue da uno semplicemente kantiano, oltre che, certamente, da un “naturalismo”, sia pure liberalizzato e quindi pericolosamente tendente a un grado zero di informazione, ontologica ed epistemologica (dato che esclude soltanto, come la filosofia ha sempre fatto dai tempi di Socrate, entità e fonti di conoscenza “soprannaturali”).

La questione è relativamente indipendente da quella del rapporto di fondazione fra atti, sulla quale ritorneremo. Possiamo riformularla così: da fenomenologi, possiamo essere “realisti” in materia di giudizi di valore come lo siamo in materia di giudizi di fatto? Intendo qui per “realismo” la tesi che la veridicità di un’esperienza e la verità di una proposizione non dipendono da norme in ultima analisi poste o costruite, ma da vincoli dati : dati tuttavia inesauribilmente, e in qualche modo anche imprevedibilmente, passibili di essere “scoperti” attraverso sempre nuova esperienza (e ricerca), nonostante la loro apriorità, eideticità, essenzialità (come ci sono e sempre ci saranno scoperte matematiche). L’apriorità dei vincoli eidetici non si oppone alla loro reperibilità “sperimentale” (semplicemente, non è per induzione empirica che li troviamo, come del resto non troviamo così le leggi gestaltiche dei percetti): e su questo non credo ci sia disaccordo rispetto a Staiti. Dove potrebbe esserci, invece, è proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali. Ma siccome l’etica è una disciplina dell’assiologia, il disaccordo riguarderebbe in definitiva quest’ultima. La questione sarebbe allora: ma c’è veramente posto, in questa garbata conciliazione di etica naturalistica (liberalizzata) e fenomenologia, per una adeguata descrizione  dell’esperienza quotidiana che noi facciamo di tutti i beni e i mali di ogni tipo e rango in cui siamo immersi, per una tematizzazione dei modi specifici della cognizione assiologica? (Un insieme di direzioni di ricerca che riguarda praticamente tutte le professioni, da quelle che riguardano la salute, l’abitazione, il benessere, a quelle che si prendono cura del funzionamento economico e civile delle società, a quelle che riguardano la sua struttura normativa politica, fino  alle professioni artistiche e scientifiche, e per chi vi si interessa, a quelle in vari modi intente ai valori del divino).

Mi sono lasciata prendere la mano. Non c’è peggior errore che quello di accusare un libro di non parlare di quello di cui non voleva parlare. E quindi, torno indietro. Questa apertura sugli orizzonti dell’assiologia materiale però non la cancello, perché offre a tutti e non soltanto agli specialisti di qualche testo sacro lo sfondo sul quale si staglia la mia tesi che l’etica presuppone essenzialmente l’assiologia materiale, e questa tesi è invece, mi pare, pertinente alla discussione di questo libro.

Concludiamo allora sulla questione della posizionalità e degli atti oggettivanti, prima di tentare una conclusione, per parte mia, di questa lettura e di questa discussione delle tesi di Andrea Staiti. La questione che sopra ho definito cruciale riguarda la conoscenza morale, specificamente. E’ la questione se l’esperienza morale che ne è alla base sia passibile di essere, da un lato, concettualizzata sempre meglio (con sempre maggiore precisione e finezza) e dall’altro sempre ulteriormente approfondita, in modo che la verifica e la correzione delle nostre posizioni possa far crescere, qui come in ogni altro campo, la conoscenza. Se ora, per scrupolo secondario (perché è la cosa stessa che conta, non i testi) apriamo il testo husserliano che Staiti cita più frequentemente dopo le Ricerche logiche, cioè le Lezioni di etica e teoria dei valori del 1908-14[7], andiamo a vedere che cosa si dice sulla questione della conoscenza morale, ci troviamo, senza stupore, che il solo “primato” della ragione logica[8] è nella circostanza che i contenuti assiologici e quelli pratici devono pur accedere al pensiero proposizionale (e dunque al linguaggio) per poter essere sottoposti al vaglio critico e alla verifica cognitiva, vale a dire per poter acquisire condizioni di verità[9]. E quindi, non è un caso che Husserl parli di “predicati logici” e non di “proprietà naturali”, come Staiti stesso ci fa notare (p. 91): per quanto ne sappiamo, infatti, qualunque questione, sia essa fattuale, assiologica o pratica, riceve condizioni di verità solo quando è articolata in una proposizione, e in questo senso, che non ha nulla a che fare con la questione della sopravvenienza normativa, non c’è dubbio che c’è un primato della “ragione logica”, vale a dire delle “posizioni dossiche”, necessarie a formulare tesi assiologiche (“Non c’è giustizia senza libertà”), e anche a mettere in questione la verità di giudizi di valore particolari (“Non è vero che Gianni è generoso”). In effetti è altrettanto evidente che il primato passa alle posizioni assiologiche e alla ragione pratica se ci chiediamo a cosa serva la logica (a ragionare bene, cioè con inferenze valide e sane) o perché mai dovremmo preferire la conoscenza del vero all’errore o all’ignoranza, o preferire un bene epistemico come una tesi ben fondata a un male epistemico come un’asserzione confusa e arbitraria: tanto è vero che nelle più mature lezioni di Introduzione all’etica del 1920-24[10] Husserl preferisce parlare dell’”intreccio” fra ragione logica e pratica.

  1. Essenze e sopravvenienze

Una piccola ma acuta conseguenza questa dissociazione del problema dell’accesso delle “materie” di qualunque atto al pensiero proposizionale e alla questione della verità dalla questione della relazione fra fatti e valori, o fra proprietà “reali” e proprietà assiologiche c’è: e riguarda precisamente quest’ultima questione. Staiti cita un testo dall’ultimo volume della Husserliana[11]:

“Un oggetto è ‘ciò che è’ anzitutto indipendentemente dall’esser  bello, buono ecc. Il predicato di valore presuppone un oggetto, un oggetto completo. (….) Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”.

Ebbene: veramente possiamo intendere questa tesi nel senso di una distinzione fra le proprietà “subvenienti” (non assiologiche) e  “sopravvenienti” (assiologiche)? Si noti: le prime corrisponderebbero alle proprietà “naturali” della metaetica, salvo godere (a differenza di queste) di un criterio per essere individuate come subvenienti, vale a dire che se immaginiamo di sopprimerle (o di variarle oltre certi limiti), viene soppressa l’unità oggettuale delle cose, “prive di valore ma pur sempre unitarie e perduranti secondo la loro essenza propria” (p. 91).

In effetti questo “criterio” ci dice con precisione che cos’è l’essenza di una cosa, il vincolo di covarianza violando il quale la cosa perde la sua identità specifica, cessa di essere una cosa di quel tipo: negli esempi offerti, la Nona Sinfonia di Beethoven cessa di essere l’oggetto che è se facciamo astrazione da proprietà temporali quali la durata, o il Davide di Donatello se facciamo astrazione dalle sue proprietà spaziali. Ma dovremmo davvero credere che perveniamo all’unità oggettuale della cosa soltanto se passiamo “dall’atteggiamento valutativo che caratterizza la vita quotidiana a un atteggiamento puramente teoretico e naturalistico (….), cioè l’atteggiamento delle scienze naturali, in cui si fa astrazione proprio dai predicati assiologici delle cose” (p. 91)? Se Staiti applicasse veramente il suo ottimo criterio, la risposta sarebbe certamente: no! La Nona Sinfonia cesserebbe di essere una sinfonia ben prima di cessare d’essere un oggetto temporalmente esteso (tale sarebbe anche lo sferragliare di un tram), appena si violassero vincoli ben più stringenti, come sono addirittura una struttura armonica, con tutte le relazioni tonali presupposte, uno svolgimento tematico, relazioni timbriche eccetera. Cesserebbe poi di essere la Nona di Beethoven anche solo toccando quella struttura armonica etc. (Cioè, come direbbe Husserl, variando anche una soltanto delle singolarità eidetiche che la caratterizzano come l’essenza individuale che è, anche prima di qualunque sua esecuzione o token concreto). E lo stesso avverrebbe con i gialli di Van Gogh o le morbidezze plastiche di Donatello.

Già qui risulta arduo individuare proprietà subvenienti separabili dalle qualità che all’intero (poniamo, a un movimento, a un tema, a un dipinto) sono conferite dalle posizioni tonali reciproche  delle parti (o dai contrasti cromatici degli elementi). Ma attenzione: questo vuol dire che queste qualità sono semplicemente parte dell’essenza. Dell’essenza specifica di una sinfonia e dell’essenza individuale della nona sinfonia. Sono i contenuti della sua concreta unità oggettuale, ne fanno la cosa che è.   Ora, queste qualità sono proprietà assiologiche. Dunque non è vero che l’unità oggettuale si preserva astraendo dalle proprietà assiologiche. Non è vero sul piano ontologico[12]. E non è vero su quello fenomenologico, o noematico e noetico: proprio non potrei distinguere una sinfonia dallo sferragliare di un tram se non udissi e sentissi, col flusso di suoni, il senso musicale che la composizione gli presta.

D’altra parte, il testo dell’ultimo volume della Husserliana citato sopra lo conferma (come fanno innumerevoli altri): “Un oggetto ha la sua natura e ha valore soltanto attraverso questa natura”. “Attraverso” qui è proprio la preposizione adatta a evocare la fondazione unitaria. Staiti, lo abbiamo visto nell’analisi del Cap. III, legge la fondazione unitaria come una specificazione della sopravvenienza. Ma se non giochiamo con le parole, non può allora al contempo comprare il tipo di taglio fra fatti e valori che la relazione, forte o debole, di sopravvenienza presuppone: per due ragioni.

La prima ragione è che questa relazione presuppone che le proprietà assiologiche non hanno materia o contenuto indagabile all’infinito, ma sono soltanto normative: tutto il “descrittivo” fa parte delle “proprietà naturali”. Staiti “compra” questa tesi (p. 113)[13], che in effetti fa parte dell’eredità mooriana dell’intera metaetica, nonostante i tentativi di metterla in questione, quali furono quelli di Iris Murdoch e di pochi altri. Se non fraintendo il suo testo, riportato in nota, finisce per condividere con Bernard Williams proprio l’idea che un concetto thick può essere analizzato in due componenti: quella “descrittiva”, che in effetti si riduce a un sottoinsieme di proprietà reali o naturali (quelle in virtù delle quali un’azione è crudele) e quella normativa, che aggiunge appunto un semplice operatore deontico, un “non dovrebbe”, o se vogliamo, una valutazione. E con questa osservazione ci avviamo alla sezione conclusiva di questa lettura, cioè all’esposizione della mia domanda fondamentale: si può far luce sull’esperienza assiologica senza respingere con decisione questa tesi, e senza accogliere la thickness, la ricchezza di contenuto o materia descrivibile in proposizioni vere (o false), come costitutiva di tutte le qualità di valore? Si può in fenomenologia proporre una metaetica senza basarsi su un’assiologia materiale?

La seconda ragione per respingere il tipo di dicotomia fra fatti e valori che la relazione di sopravvenienza, forte o debole, presuppone, è che l’unità oggettuale di ciascun bene è data precisamente dal tipo di valore che definisce quel tipo di bene. La stessa fondazione unitaria è assiologica, appare nel fenomeno come l’unità ideale dei suoi contenuti,  fra i quali ci sono certamente qualità assiologiche “subvenienti”, ogni volta che la cosa appartiene alla classe dei beni. Dei quali, come ben sappiamo, è popolato il mondo della vita, il mondo dell’atteggiamento naturale. Dove ci sono beni utili, che sono la gran maggioranza degli artefatti: come potremmo mai descrivere l’unità oggettuale di una sedia prescindendo dalla sua funzione, che è quella cui risponde la sua forma, che ne fa una cosa in un senso assai preciso utile? Certo, una sedia è una sedia prima di essere bella o brutta: ma questo è perché l’unità oggettuale che la costituisce sedia è la sua funzione o utilità, dopodiché potrà essere più o meno bella senza che il suo valore costitutivo ne sia affetto. Questo è ciò che succede ogni volta che ci troviamo di fronte a un bene. Un bene non è affatto semplicemente un oggetto naturale, che contingentemente riceve o acquista un valore. L’unità cosale di un bene è costituita dal valore o dal campo di valori che nel bene, parzialmente e più o meno perfettamente, si realizza. Nel mondo della vita ci sono ogni sorta di beni d’uso, beni artistici, beni (semplicemente) estetici come i paesaggi, beni come le istituzioni, eccetera[14].

Per concludere davvero su questo disaccordo parziale, va detta un’ultima cosa: includere componenti assiologiche nelle essenze non vuol dire affatto rinunciare alla distinzione fatti/valori, che ha certamente una sua legittimità di principio (p.92) – e su questo concordo pienamente. Vuol dire che la sua “origine fenomenologica” (p. 92) non è quella individuata da Staiti, e che in ultima analisi rinvierebbe alla distinzione fra atti oggettivanti e non oggettivanti. La sua origine fenomenologica è, io credo, l’opposizione fra l’ideale e il reale, quella – in un certo senso – che ci richiama l’angoscia del grido di Munch: e non ha veramente più a che fare né col naturalismo scientifico né col dualismo, né forse con un loro liberale incontro a metà strada. Perché, lungi dall’espungere la normatività dallo IS, il fenomenologo vi ingloba ogni sorta di OUGHT. Mi sia permessa, per rapidità, un’autocitazione:

“Le essenze o idee, dicevamo,  sono sempre portatrici di un elemento normativo. Poiché essere dato è essere strutturato, ecco la profusione di essenze, invarianti “eidetiche” che contraddistingue il mondo della vita secondo i fenomenologi, e anche implicite direttive di tutto il nostro percepire, sentire e fare. La sua infinita ricchezza racchiude ovunque ordine, significato, struttura, norme. Questo pensiero attraversa l’opera di Husserl dalle Ricerche logiche alla Crisi delle scienze europee.”[15]

Così, un cane a tre zampe non è un buon esemplare della sua specie, e un coltello che non taglia neppure, come non è un buon guerriero un guerriero che non sia coraggioso, o un buon palo della banda uno che, come nella canzone di Jannacci, non ci vede un accidente. La salute ha la sua norma vitale, fondata in biologia, e uno Stato che non sia in grado di assicurare ai suoi cittadini almeno la pace civile ha perduto la sua ragion d’essere.

 E tuttavia, l’angoscia assiologica perdura: meno drammaticamente,  perdura l’opposizione fra il reale e l’ideale. Perché se in definitiva ogni cosa è un esemplare del suo eidos, o dell’unità ideale della sua specie (nel linguaggio delle Ricerche logiche), non ogni cosa ne è un buon esemplare. Quanti insegnanti abbiamo conosciuto che non sono proprio insegnanti ideali. E le repubbliche ideali abbiamo cominciato a studiarle da quando viviamo in quelle reali. Lo scarto fra essere e dover essere è tutto nella realtà com’è, che sia naturale o che sia artifattuale, istituzionale, sociale, personale – e la perfezione non è di questo mondo.

  1. Conclusioni sull’etica e l’assiologia

 Riprendo dunque la domanda che ho formulato all’inizio di questa analisi: la prospettiva noematica, o sulla natura dei valori, che ora forse risulta più chiaramente incentrata sull’assiologia materiale (che questa prospettiva richiede di sviluppare), è solo complementare rispetto alla prospettiva noetica caratteristica di questo libro, o è anche in qualche senso più fondamentale proprio da un punto di vista fenomenologico, ossia quanto alle sue fonti di evidenza, alle fonti della conoscenza (rigorosa) che il filosofo non rinuncia a cercare? Per le ragioni che nell’analisi ho cercato di evidenziare, propendo per la seconda. Ma ora debbo spiegare in che modo l’assunzione di questa prospettiva più fondamentale farebbe maggior luce anche sugli stessi problemi che Staiti affronta.

Il disaccordo, ipotizzavo nella sezione 6, potrebbe vertere proprio sulla metaetica, cioè in definitiva sulla risposta fenomenologica alla questione di che cosa sia l’etica, che naturalmente ha come sotto-questione quella sulla natura dei valori specificamente morali.

Cominciamo a levar di mezzo le questioni secondarie. Staiti cita fra le fonti storiche principali  della ricerca fenomenologica i volumi dell’edizione critica delle opere di Husserl espressamente dedicati all’Etica, che sono rimasti per molto tempo inediti e hanno cominciato ad essere pubblicati solo dalla metà degli anni Novanta (p. 36). E cita anche Max Scheler e il suo Formalismo, solo recentemente riscoperto e rivalutato[16]. C’è però una ragione di questo ritardo, che coinvolge un intero universo di ricerche di assiologia materiale di straordinaria portata e radicate precisamente in quell’angoscia munchiana per la pianta bifronte dell’arbitrarismo o antiumanesimo teoretico e pratico, logico ed etico, che sempre si riproduce nel confronto fra il filosofo e il sofista: un confronto che avviene ogni giorno nell’anima stessa del filosofo ed è tutt’altro che accademica. Ai tempi di Husserl e ancora per tre quarti di secolo dopo la sua morte vinse, nel mondo e nell’accademia “continentale”, il sofista. E furono praticamente dimenticati i nomi degli assiologi che dal ceppo fenomenologico fiorivano e fuggivano o morivano: Herbert Spiegelberg, Aurel Kolnai, Roman Ingarden, Dietrich von Hildebrand, Moritz Geiger e molti altri. Ora, non c’è dubbio che l’eredità di Scheler non si fa molto sentire in questo libro. Ma questo è infinitamente secondario, anzi il suo pregio è che semmai vi si facciano tanti altri nomi di interlocutori vivi oggi.

Andiamo al dunque, invece. Cosa sono i valori specificamente morali?  Io credo che abbia molto senso cercarli nel mondo, ma non certo indipendentemente dalla messa a fuoco, del tutto fenomenologica, dei portatori ultimi di questi valori, che sono in definitiva gli agenti personali, ossia le loro decisioni, azioni, comportamenti, e alla base motivazionale di questi, le loro esperienze. E’ così fastidiosa, in tutta la metaetica mooriana e post-mooriana, l’oscillazione perpetua e oscura  fra un discorso sulla natura dei valori e uno su quelli specificamente morali, che poi dà il nome alla disciplina, “metaetica”. Che cosa sono il bene e il male morali? La tradizione fenomenologica fornisce una risposta ovvia anche se illuminante: buone o cattive moralmente sono le azioni e i comportamenti, e dunque le situazioni e le realtà cui danno luogo, e dunque in ultima analisi le volontà esplicite o implicite che animano azioni e comportamenti. Ebbene, quando sono buone moralmente queste volontà? Evidentemente, quando realizzano in ogni data situazione, e in funzione delle date possibilità e capacità dell’agente, i valori relativamente superiori accessibili e non quelli relativamente inferiori, o addirittura i corrispettivi disvalori, ad esempio: a supporre che io sappia nuotare, diciamo che salvando la vita a un bambino ho preservato un bene (realizzato un valore) superiore a quello del mio comfort che avrei preservato evitando di buttarmi nell’acqua gelata. Ovviamente sia la vita del bambino sia il mio comfort sono beni o parti di beni, quindi hanno valori: ma non certo valori morali! La salute non è certamente un valore morale, ma è certamente immorale danneggiare quella altrui per i propri interessi, e così via. Una tesi fondamentale della metaetica fenomenologica dovrebbe dunque essere che il valore morale della volontà presuppone tutti i valori non morali delle cose del mondo (e, in effetti, le loro relazioni)[17], e in un senso preciso ne dipende. Se la tua vita non avesse alcun valore, che male sarebbe sopprimerla? Se nessuna cosa avesse valore, perché ci sarebbero norme sulla proprietà e che male sarebbe il furto?

Naturalmente, per quanto antikantiana sia questa tesi, c’è una cosa su cui Kant ha assolutamente ragione, ed è che la volontà non e buona o cattiva in ragione dei beni che realizza, ma dell’intenzione che la muove. Ma come può definirsi la bontà dell’intenzione se non in riferimento al valore cui mira? E perché il dovere mi obbliga, se non in quanto deriva dal valore? Dunque c’è un elemento fortemente cognitivo della bontà morale, perché le decisioni dipendono dalle valutazioni e quindi dall’adeguatezza del sentire: ma questa a sua volta dipende da quella disposizione libera, volontaria, che è la veglia del sentire, l’attenzione della mente e del cuore.  In ultima analisi, dunque, moralmente buona è la persona in quanto veglia, non solo in quanto decide e agisce. Di più: in quanto è disponibile alla verifica continua delle relazioni fra i puri contenuti assiologici, fra i valori, o piuttosto a rimettere in questione tutte le proprie certezze, a fare ogni volta nuove scoperte assiologiche.

Queste due tesi impattano su alcune tesi di fondo di questo bel libro che ho forse un po’ troppo appassionatamente voltato e rivoltato. Insieme esprimono il cognitivismo assiologico in generale, e il cognitivismo etico in particolare.

Vediamo prima l’impatto di quest’ultima tesi, che esprime il cognitivismo etico così profondamente caratteristico del fenomenologo. Staiti all’inizio del libro risponde validamente all’obiezione secondo cui “la natura descrittiva della fenomenologia le impedirebbe di occuparsi di fenomeni etici, in quanto prescrittivi”. Questa obiezione, risponde Staiti, è quanto meno fuorviante: “Sono proprio i fenomeni prescrittivi dell’etica a dover essere anzitutto descritti per scoprirne la configurazione essenziale e le condizioni di validità” (pp. 36-37). Un primo punto con il quale non si può che concordare. Staiti prosegue: “Vi è però un nucleo di verità nel riferimento alla natura descrittiva, anziché normativa, della fenomenologia: la prospettiva fenomenologica non intende proporre un’etica normativa autonoma, distinta dalle tre canoniche alternative di eudemonismo utilitarismo e deontologia” (37). Ancora d’accordo: ma qui bisogna intendersi sulla portata della tesi. Quella che le conferisce Staiti è modesta, indulgente e affabile: si tratterà soltanto di un lavoro di chiarificazione, “che riporti le nozioni cardine delle tre tradizioni etiche alle loro fonti esperienziali e provi a rettificare eventuali pretese eccessive avanzate da ciascuna di esse”. La portata che conferirei io a questa tesi è invece più ambiziosa, e quindi molto meno indulgente e affabile: a ciascuna delle tradizioni rimprovererebbe un vero e proprio fatale errore, precisamente radicato nell’ignorare le tesi fondamentali di un’etica materiale dei valori. Alla tradizione eudemonistica imputerebbe la confusione di valori e fini, che porta ad agire con in vista non il maggior bene che posso portare al mondo ma lo stato personale (sia esso il mio piacere o la mia perfezione), eticamente irrilevante (non è vero che la propria felicità sia il fine, né d’altronde men che meno la ricompensa, dell’agire moralmente buono, anche se è vero, probabilmente, che ne è una fonte, o forse che solo il felice è veramente buono). Alla tradizione consequenzialista imputerebbe, come farebbe un kantiano, la confusione di beni e valori in quanto inficia l’incondizionatezza delle ragioni morali; a un kantiano imputerebbe la confusione di valori e beni, cioè l’ascrizione di ogni contenuto o materia delle motivazioni alle realizzazioni finite, relative, contingenti e contendibili dei valori nei beni, cioè l’inconcepibilità di determinanti del volere morale che siano insieme materiali (contenutistiche, thick) e apriori. Altro che pretese eccessive: errori fondamentali. Ma a questa minore affabilità fa riscontro un terzo punto, rispetto alla questione normativo/descrittivo, che a mio parere dovrebbe far parte delle tesi fenomenologiche di metaetica, ma che non so se possa dato l’impianto del libro, essere con questo compatibile: la giustificazione di ogni norma rinvia a una cognizione descrittiva, lungo le due direttive del dover essere e del dover fare: cioè lungo quella dei valori di perfezione eidetica, menzionati sopra, e lungo quella dei valori pratici o d’azione (in particolare quelli morali, come le virtù) quindi delle relazioni assiologiche pure di volta in volta in gioco. I valori infine non sono che una sottoclasse di eide, quella sottoclasse costituita dalle qualità con valenza positiva o negativa. La ricchezza delle loro materie ci rende tutti principianti nei vari domini delle assiologie materiali, ancora di più che in quelli delle ontologie materiali.

Infine, resta da verificare l’impatto che la tesi più generale del cognitivismo assiologico ha su tesi proprie di questo libro. E forse, allora, è la sua conclusione stessa a venire in questione. Un testo famoso di Peter Geach[18]  offre a Staiti la base per questa conclusione, sull’interpretazione fenomenologica dell’Open Question Argument di Moore. Per Geach, “buono” e “cattivo” sono sempre aggettivi “attributivi” e non “predicativi” – dove con “attributivi” si intende che “buono” non predica una proprietà ulteriore di una cosa di tipo X che possiede già le proprietà EFG , ma serve precisamente ad attribuire a questa cosa le proprietà che lo costituiscono: un coltello è buono se la sua lama è tagliente, il suo manico solido etc., e ogni volta vediamo dal sostantivo che cosa costituisca la “bontà” attribuita alla cosa: un buon cavallo, un buon romanzo, un buon filosofo, una persona buona. Dal punto di vista di Geach, dunque, il carattere “speciale”, “non naturale” che un mooriano attribuirebbe all’idea del buono, è del tutto illusorio, e dipende dall’aver considerato “predicativo” un aggettivo “attributivo”. Ora, non è difficile per un fenomenologo riconoscere in EFG le qualità che fanno di un coltello, un cavallo, un filosofo, un buon esemplare del suo tipo: ma questo non ci basta affatto per negare che un buon X sia in effetti un X ideale, o come anche diciamo un X “esemplare”. E naturalmente  questo non toglie alcuna normatività alla qualità di “buon” X. Riferito a un coltello, l’aggettivo seleziona tutte le qualità funzionali che il coltello deve possedere per essere utile, riferito a un cavallo le qualità vitali,  lo slancio, il vigore, la potenza che distinguono un purosangue da un ronzino; riferito a un romanzo la capacità di avvincere senza banalità e tutte le altre qualità estetiche che distinguono un’opera narrativa degna del nome da un report sconclusionato di fatti casuali, e così via. Perché dunque Geach non si accorge che la sua distinzione fra “attributivo” e “predicativo” non confuta affatto l’Argomento della Domanda Aperta, il quale mostra pur sempre che non posso analizzare proprietà normative in termini di proprietà non normative? A mio avviso, perché non si avvede dell’errore più fatale di Moore, che sta purtroppo avvinghiato alla sua più geniale scoperta: perché è vero che le proprietà assiologiche non sono analizzabili in termini di proprietà non assiologiche, ma è falso che non siano analizzabili in assoluto. Lo sono inesauribilmente, in termini di altre proprietà assiologiche. Ne abbiamo appena dato una serie di esempi.

Questo errore fatale è a mio avviso quello che ha dato adito a tutte le “soluzioni” del dilemma della metaetica che tagliano il “descrittivo” dal “normativo” nel modo sbagliato, cioè – come suggerì Bernard Williams, analizzando i concetti assiologici “thick”, dotati di un ricco contenuto (come vigoroso o aggraziato, banale o impudente eccetera) in due parti: da una parte materia e contenuto, cioè il descrittivo, l’insieme delle proprietà “naturali”; e dall’altra un operatore normativo generico, vuoto, universale – in ultima analisi espressivo di una prescrizione sociale, di un comando soggettivo, di una convenzione, di una pressione culturale.

Ecco: l’assiologia materiale, si potrebbe dire, è nata precisamente contro questo tipo di errore, che ha precedenti in molte forme classiche di nominalismo assiologico. There is a matter of values, not just a matter of facts! Perché le qualità assiologiche dei beni esperibili, come la comodità di una sedia, la potenza di un cavallo o la bontà morale di un uomo, tutte senza eccezione, sono thick e non thin, ricche di contenuto. Concetti assiologici “sottili”, come “buono” (ma anche “bello”) sono proxy per designare tutte le varietà di qualità assiologiche positive, o la valenza positiva che le accomuna: gli aggettivi di una lingua umana non bastano neppur lontanamente a designarle tutte, e l’esperienza assiologica più comune è quella di una sorta di ineffabilità, sempre superabile ma mai del tutto. Utilizzando la distinzione di Geach  possiamo dunque dire che l’aggettivo “buono” nel significato “attributivo” che qualifica un certo tipo di bene è una variabile che varia sulle qualità assiologiche materiali positive dei buoni esemplari di quel tipo di bene.

Credo che Staiti possa aver in mente qualcosa di non dissimile quando usa la distinzione di Geach per arrivare a un’”interpretazione fenomenologica dell’argomento della domanda aperta” di Moore. Per farlo, la sviluppa nel senso che “è buono” sta alla posizionalità assiologica come “esiste” sta alla posizionalità dossica. Ossia, “è buono”, esprime la posizione assiologica, la risposta alla valenza positiva della cosa intesa o incontrata. E fin qui saremmo più che d’accordo. Ma qui salta fuori quella che a me pare un’incongruenza. Staiti compra di Geach proprio la parte dell’argomento che contesta a Moore l’idealità, la non-riducibilità in termini di proprietà naturali, non normative, dell’idea di buono. Per questo abbiamo detto sopra, nella sezione 2 commentando questa conclusione, che secondo Staiti non è affatto per la sua idealità o la sua eccedenza normativa,  che l’esplicazione del valore in termini di proprietà naturali lascia aperta la domanda (“ma è davvero buono”?), ma per la sua vuotezza. Vale a dire, ci sarebbe un’intrinseca mancanza di contenuto del positum assiologico (forse perché correlato di un atto non oggettivante?), per la quale “quando sostituiamo “buono” con un qualunque altro aggettivo (“piacevole”, “salutare” … ecc.) la nostra domanda non si riferisce più a un positum, ma torna a riferirsi a un oggetto ordinario” (140). Ma perché, la poltrona che mi appare buona, quella che ho davanti consentendo con delizia, o che sogno per quando sarò tornato a casa, non è, in questa terminologia, un positum ?  E che cosa posso intendere con la mia posizione assiologica, se non che la poltrona è comoda?  Come potrei mai assentire con delizia o aspirare alla mia buona poltrona, se non “intendessi” questa sua invitante affordance, la sua comodità? E quand’è che la poltrona diventa “un oggetto ordinario”? Quando, abbandonandomici, ne verifico la comodità? Se spiego a qualcuno che è una buona poltrona perché è comoda, non c’è alcuna eccedenza mooriana: la domanda “ma è davvero buona?”, non ha senso. Altra cosa sarebbe se spiego a qualcuno che è buona perché è fatta di lana, materassi, molle. Allora avrebbe senso chiedere: ma è davvero buona? E’ comoda?

Ma tant’è : abbiamo già visto (sez. 7, con riferimento a Staiti p. 113) che per Staiti la vuotezza di un aggettivo thin come “buono” non può essere semplicemente quella di una variabile su predicati thick, su qualità assiologiche materiali, come comodo. Che il primo non può che esprimere la vuotezza oggettuale di una posizione assiologica e il secondo la proprietà di un oggetto (ordinario). Non riesco ad accedere all’evidenza fenomenologica per questa tesi: ma se non la fraintendo, è un netto rifiuto del cognitivismo assiologico. E infatti ecco la conclusione: la costante “apertura” delle domande mooriane

“non deriva dalla supposta non-naturalità del bene, bensì dalla “natura” peculiare degli oggetti di cui esso si predica: posita e non oggetti ordinari”. (141)

Una conclusione che, mentre leva a Moore la sua sola unghia, la tesi che la normatività non è naturalizzabile, leva anche il bene e il male dal mondo degli oggetti ordinari.

Non mi resta che ringraziare Andrea Staiti per questo – lo ribadisco – bellissimo libro. Forse, leggendo queste note, penserà che esse lo rimproverino di non aver scritto un altro libro. Invece io l’ho trovato appassionante proprio perché è questo. Per avermi dato materia per questo confronto serrato, e la gioia per ciò che ho imparato leggendolo: perché se non sono riuscita a rendergli ragione, ho forse, con il suo aiuto, capito meglio quanto resta da fare, quanto da chiarire, perché la vocazione assiologica della fenomenologia riesca infine a esplicarsi nel mondo della vita, ma soprattutto nel mondo dei vivi oggi – che ne ha molto bisogno.

 

RIFERIMENTI

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[1] Di cui, infatti,  non sono la prima ad occuparmi: segnalo almeno le recensioni di Susi Ferrarello, e Bianca Bellini (2020). Anche per questo la mia lettura, più che una recensione, è una discussione approfondita, che prende questo libro molto sul serio come contributo a un campo di studi di enorme importanza, e che solo oggi rivede finalmente una ripresa da parte fenomenologica: questo può in parte giustificare, anche se non forse scusare, l’inusuale lunghezza di questa analisi, e la sua passione.

[2] Le principali fra queste sono esposte sinteticamente nel cap. VI di Towards a Phenomenological Axiology. Discovering What Matters, Palgrave, 2021, forthcoming, e in italiano nel cap. V di Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori, Torino: Einaudi, 2015.

[3] Husserl (1900-1901), 1964, 22 p. 69 (trad. lievemente modificata).

[4] De Monticelli (2020, 2018, 2016).

[5] Hume (1739), 1978, p. 335.

[6] Husserl (1911), 2005, p. 97. Per una discussione di questa tesi e del concetto di posizionalità, che vi è strettamente connesso, v. De Monticelli (2018), pp. 158-163. Da questo punto di vista, a me pare che l’assenza di menzione, da parte di Staiti, del nesso fra Stellungnehmen e Saetze lo privi di un’importante risorsa analitica. La posizionalità di un Satz corrisponde in effetti alla “forza assertoria” con cui è intrattenuto, in un giudizio, il contenuto proposizionale. Il positum di cui parla Staiti (129-137) è certamente “l’unità del senso e del carattere tetico” di cui parla Husserl in Ideen I, § 133. Tuttavia mi sembra che Staiti non faccia uso della potente generalizzazione che Husserl fa del “carattere tetico” (che è poi la “forza assertoria” di Frege, ciò che Austin svilupperà nella pragmatica degli atti illocutori) nel senso di uno Stellungnehmen o  impegno caratteristico di ogni sfera di atti, dove dobbiamo tenere la sfera degli atti emotivi, a differenza che in Brentano, distinta da quella degli atti conativi). Voglio dire che è un punto rilevante in tema di posizionalità assiologica!

[7] Husserl (1908-14), 2002, cit. da Staiti a p. 90.

[8] Ma sacrosanto, nella sua modestia! Pensate ai deliri, che si avvieranno presto a diventare criminali, di Heidegger con il suo “tanto peggio per la logica” dell’operatore di negazione che si perde nel vortice di un nulla più originario….

[9] “La ragione logica ha però questa straordinaria prerogativa: essa formula l’istanza di giudizio, determina la legittimità e predica le leggi della correttezza in quanto leggi non soltanto per ciò che comprende il proprio campo, ma anche per ciò che concerne il campo di ogni altro genere di intenzione, e dunque per ogni altra sfera della ragione. La ragione valutativa e quella pratica sono, per così dire, mute e in un certo senso cieche. Il vedere in senso stretto e in senso lato, e dunque anche il vedere nel senso del “cogliere con evidenza” è un atto dossico”. (…) Si deve dunque tenere alta la fiaccola della ragione logica, poiché solo così quanto di forme e norme è rimasto nascosto nella sfera emotiva e della volontà, può manifestarsi ora in piena luce. Gli atti logici sono tuttavia soltanto la luce che rende visibile unicamente ciò che vi è già” Husserl (1908-14), 2002, pp. 85-86.

[10] Husserl (1920-24), 2009. Per la tesi dell’”intreccio” v, De Monticelli (2018bis), pp. 123-127.

[11] Husserl (2020), Hua XLIII/3, Staiti p. 99.

[12] Si veda, per la migliore ontologia fenomenologica dell’opera musicale, il classico Ingarden (1955), 1989.

[13] Nella nota 1 all’ultimo capitolo, parlando della distinzione introdotta da Bernard Williams fra concetti etici “sottili” (thin) e “spessi” (thick), Staiti afferma di considerarla filosoficamente fuorviante, perché “La differenza, ad esempio, fra il concetto di bene e il concetto di crudeltà non è una differenza di grado o di spessore, bensì una differenza che rispecchia quella tra proprietà di oggetti ordinari (la crudeltà) e proprietà di Sätze, cioè di oggetti meramente intesi (il bene”

[14] La distinzione fra beni e valori e la teoria dei beni come unità assiologiche concrete costituisce il capitolo iniziale e fondamentale del Formalismo (Scheler 2013). Recentemente, Emanuele Caminada ha attirato l’attenzione su quel caso di fondazione unitaria di tipo assiologico che Scheler esprime con il participio “durchdrungen” (GW II, 44), “permeato”: come l’utilità che “permea” la sedia, legando tutti gli aspetti essenziali alla sua funzione, pur nel variare possibile di materiali, fogge, dimensioni, stili…. Caminada (2016), «omnes ens est aestimativum»: On Scheler’s Formal Axiology and Metaphysics presentato alla conferenza Feeling, Valuing, and Judging: Phenomenological Investigations in Axiology, St. John’s University, New York City 19-21 May 2016. Ringrazio Emanuele Caminada anche per avermi segnalato Caminada ( forthcoming, 2021) “Things, goods, and values”.

[15] De Monticelli (2018), p. 77.

[16] Lo cita, mi sia permesso di sottolinearlo, meritoriamente nella bellissima traduzione italiana (ma con testo a fronte) di Roberta Guccinelli, che ha portato un po’ di luce su un capolavoro ignorato anche per l’illeggibilità di precedenti traduzioni: Scheler 2013.

[17] Mi permetto di rinviare per questo all’ultimo capitolo di R. De Monticelli (2015).

[18] Geach (1956).

Andrea Staiti: Etica Naturalistica e Fenomenologia

Etica naturalistica e fenomenologia Book Cover Etica naturalistica e fenomenologia
Percorsi
Andrea Staiti
Società editrice il Mulino
2020
Paperback € 16,00
160

Reviewed by: Susi Ferrarello (California State University)

Staiti’s book is a very engaging metaethical investigation of naturalism in ethics (7). Here, phenomenology serves a twofold purpose. As it is in the nature of phenomenology, in this book, too, phenomenology is used as a method and theory. On the one hand, phenomenology’s methodological approach can provide the right ‘atteggiamento’ (attitude, 30) for addressing problems proper to naturalism, such as nihilism and the relative limits of physicalism (20-25); on the other hand, phenomenological theory in axiology, specifically in relation to the notion of material a priori (38), offers ideas in support of a “liberal way” (29) of interpreting naturalism and handling some of the thorniest debates in metaethics. This is especially clear when Staiti discusses the problem of moral intuition and perception and the behavior of axiological properties in mereological foundations (8).

What does phenomenology have to gain from this interaction? Staiti’s answer is that metaethics can help phenomenology to position itself in the contemporary philosophical metaethical traditions (9). Since metaethical problems are very close to the issues tackled by the phenomenological tradition, the two can help each other in the most problematic areas.

The book is organized into four chapters. The first starts with a description of naturalism, in general, and ethical naturalism, in particular. Staiti describes two aspects of naturalism: ontological and methodological. Methodological naturalism is based on and limited by the natural sciences and the scientific community that gathers around them (16). In this form of naturalism, the philosophical discussion is based on the solid ground of what can be proven by science. In doing so, methodological naturalism does not leave much room to discuss what cannot yet be proven. This problem also occurs in ontological naturalism. Ontological naturalism, in fact, focuses on the description of concrete entities; what is labelled as spooky (17) exceeds this category. For this reason, Staiti seems to welcome De Caro’s proposal of a liberal naturalism (19-20), which connects philosophical rationality to empirical sciences in order to revise scientific positions that would oppose the experimental nature of science and philosophy (20).

In ethics, naturalism expresses itself in the forms of physicalism and realism. In ethical physicalism, what matters for the ethical discourse is what we can ‘tangibly’ see; hence, in the case of a nihilistic solution what matters is Nothing, or, in the case of psychologism and expressivism, what matters are feelings and emotions. A naturalistic approach to the good leads the investigator to take into consideration only what exists in reference to the world (22). This form of naturalism in ethics tends to reinforce a moral psychology that limits the investigation to what can be proven as true and good from the perspective of the Geisteswissenschaften (sciences of mind). The other declension of naturalism in ethics is realism, which considers axiological properties as real entities accessible to the philosophical investigation. Similarly to the liberal naturalism proposed above, Staiti points to a liberal form of naturalism in ethics that would avoid a nihilist solution to ethical problems. In fact, the liberal version of ethical naturalism supports “the existence of axiological properties as natural properties accessible in the same way as natural properties” (25). In order to access these properties, philosophy needs to adopt the right attitude which seems to be best provided by the phenomenological method (31).

As we know from Husserl’s essay Philosophy as a Rigorous Science (1910), phenomenology discusses naturalism in a new fashion. The essence of one’s experience of a natural phenomenon cannot be reduced to a mere aggregate of physical or psychical atoms (in the case of scientific or psychological naturalism). Having experience means to refer to something that constitutes the object of my experience in the world (34-35). The natural phenomenon can never be the summation of its parts, but instead is the intentional content of a given lived-experience that we can access and describe through the reflective analysis of the lived-experience itself. Similarly to liberal ethics, phenomenology shares the idea of being able to access the axiological properties of ethical experience as much as its perceptual properties (37) as the two are bound together by a mereological foundation in which the results of the natural givenness is not mere summation but the supervenience of the relationship between its elements. Speaking to this, Staiti gives the example of Husserl’s notion of material a priori as an a priori model for explaining how the material axiological aspects of the experience stand in relation to a specific region of reality and its logical properties. For example, pain is a disvalue, hence what we know as torture is wrong as it produces this specific disvalue consequence in this region of reality.

Continuing on this road, the second chapter of Staiti’s book shows how the phenomenological attitude can lend itself to the understanding of the mereological supervenience of axiological and logical properties. Focusing on moral intuition and perception, Staiti shows how the natural entity of the ontological and methodological approach used in naturalism is explained in phenomenology as the intentional fulfillment correlated to the intentional essence. Referencing Audi, Staiti explains in great clarity how in Husserl, differently from Audi, the perceptual awareness of the correspondence between reality and experience (49) tends to distinguish experience from one’s lived-experience as this latter involves a reflective quality proper to the intentional act that escapes the mere representationalist point of view. According to representationalism, in fact, the sensorial multitude on which the perceptive experience of something is based is lived but not experienced—hence it is for us a mental representation of the direct perceptive experience. For Husserl, instead, ”the intentional relationship establishes that an act of perceptual awareness refers to a perceived object and this relationship is a phenomenal [manifestativa] and not representational one” (52). The direct perceptual experience is a phenomenal manifestation, while one’s lived experience has a phenomenological reflective quality that is missing in the spontaneity of the natural attitude. The correctness of the description of the natural phenomenon in ethics, as the scientist experiences it in a natural spontaneous life, does not amount to the representations of that phenomenon but to the intuition of the axiological properties pertaining to that ethical phenomenon as they are perceived in that intentional act. “The simple perception—seeing a lemon—will evolve, most probably, in the predicative perception ‘seeing a yellow lemon’ because the lemon is yellow. If I were to always sell lemons, therefore continuously exposed to their brightness of that yellow, probably it would not be its yellow so immediately apparent, but another property, for example the opacity of its skin that reveals that the lemon has not been treated with chemicals” (56). Any perception of axiological properties is a thematization of the intentional relationship that connects the individual to a specific region of that lived experience.

In chapter three, Staiti explains how the concreteness of what is perceived can emerge as a content that is congruent to what is perceived and intuited in the lived-experience of the subject. In fact, Staiti remarks, “in phenomenology, intuition represents the apex of an experiential process, that is, the congruence between the sense as it is thought and the sense as it has been actually experienced” (63). How this congruence comes together in the intentional content is explained through the notion of supervenience or mereological foundation. In phenomenology, foundation (Fundierung) describes a mereological relationship of parts and whole (81) in which a complex experience and its object can be analyzed according to their mutual inferences. In the case of a naturalistic liberal ethics, we want to ask ourselves “what kind of objects are the objects qualified in an axiological manner? What’s their structure? What kind of experience is the one in which objects of this kind are intentionally meant? (81).

To describe how the concreteness of the intentional content is shaped in relation to axiological properties, Staiti uses emotional acts (Gemütsakte). These acts can be described as those acts with which we refer to objects whose axiological properties we can clearly perceive—Maria loves Giulio, for example. Giulio is the positive object of Maria’s emotional act. As with any other intentional act, emotional acts are also constituted of a form (Maria loves Giulio, i.e. subject + verb + object) and a matter (what is in the act of Maria loving Giulio). Any matter is generally qualified by a position-taking with which we can tell whether the subject refers to reality (Maria loves Giulio, her partner) or fantasy (Maria loves Giulio, her imaginary friend). The position taken in emotional acts – such as “I love,” “I respect,” “I value” – need to be completed by the emotion that qualifies that position-taking and the objectivating acts that make sense of their content-matter (87). Maria loves Giulio because she knows Giulio (epistemological, doxic, logic position) or at least she can bring his matter to the predicative form—Giulio. The position-taking proper to emotional acts needs a logical layer for the emotional content matter to be brought to the fore. If this layer is missing, what remains is a motivational necessity that moves Maria’s emotion of loving to connect with the object of her love but without being able to express it in words or being aware of it. Maria is attracted to this person. Axiological properties in general, like those that characterize emotional acts, need objectivating predicative acts to bring that motivating/-ed matter to the fore. The intentional essence of the emotional content needs to be meant in order to be epistemologically understood, yet their axiological quality can already be perceived in intuition (the essence of the beloved person as a positive value, for example). Axiological properties do not necessarily refer to the ‘real’ object (91); Giulio can be just Maria’s fantasy, or he might no longer be living, or he could be the character of her favorite play. Axiological properties relate to the content-object in the same way as logical properties do. Yet, while logical properties are necessary for the content to preserve its objectual unity (92), axiological properties do not seem to be essential to this unity; they come as a co-existent addition to that unity (Giulio, the person Maria has in mind, versus Giulio, the person Maria loves). In fact, even if I do not know whom I love, that person will continue to be, although my feelings in relation to that person and the values that I attribute to her will be perceived as disconnected moments that hinder the possibility of fully grasping the content of my intention. Parenthetically, I think that this magnitude of disruption is exactly what occurs in cases of borderline and bi-polar personalities where the inability to mean the axiological properties related to the intentional content of an emotional act has the power to disrupt the unity of the emotional content as much as logical properties do.

To come back to Staiti’s argument, the asymmetry between axiological and logical acts does not involve that axiological acts are not intentional. The necessity connecting the essential integrity of an object (constituted by the logical properties that make that object what it is) to its axiological properties is a motivational necessity. According to this motivational necessity, the object of my experience comes to acquire a value after I have grasped its nature (101); this understanding motivates me to feel and act in a certain way toward it. Axiological and logical properties refer to each other in a complementary way. This complementarity structures the way in which I see the object of my experience and determines the meanings and values that I am going to assign to that object. “The more easily I will understand the supervenient axiological properties of my object, the more familiar I am with the logical properties of the same object” (101). If I am not wrong in my understanding of Staiti’s argument, I think that his argument would flawlessly work in the example of the lemon vendor he mentioned above. The lemon seller will know more the value of what she is selling the more she knows about the product. Yet, once again, I think that this argument would be less effective when applied to emotions. Logical properties do not seem to be more essential than axiological ones in emotional acts. In fact, it might happen that the more I know someone the less I feel I can value her because her personality is puzzling to me or the less I feel that I know her because she keeps showing side of herself that are contradictory.

Yet, here Staiti raises an important point: there is a parallelism between axiology and logic, which he explains as a parallelism between the good and truth, that makes liberal naturalism in ethics possible. Using Husserl’s reference to this same parallelism, which in Husserliana XVIII and XXXVII focused, though, on ethics, axiology, and logic–respectively the good, value, and true—Staiti builds an interesting strategy for describing the concreteness of the good in ethics as a natural phenomenon. He writes that “the good is the axiological equivalent to the notion of existence in the logical-theoretical sphere” (115). Staiti proposes the parallelism between axiology and ethics as a stratagem for solving the problem of realism in ethics. While I believe that this stratagem is quite effective, I also think that a passage is missing here: the object of axiology, in fact, is a value and not the positive value—the good as Staiti seems to affirm. I think that the parallelism he proposes is not between axiology and logic but between ethics and logic which modifies, of course, the terms and results of Staiti’s argument. Moreover, he indicates that the logical equivalent of the good is the notion of existence, and not the expected notion of truth. Although unexpected, I agree with Staiti’s explanation of Husserl’s argument. The truth is in continuity with the notion of existence, that is a property of Sätze (115) propositions. What exists is what is posited (gesetzt), that is, the objectual correlate of what has been posited in a categorical act (114).

In the last chapter, Staiti applies this parallelism as a convincing stratagem for tackling G. E. Moore’s Open Question Argument (1903). Moore’s Open Question Argument relates to the impossibility of defining good (1903, 50). If ethics cannot find a convincing definition of good, no analytic proposition around the good holds, accordingly all the propositions used to describe the good must be all synthetic ones. “Interrogating whether something is good, equates to ask oneself if pleasure is pleasant” (1903, 64). “Moore shows that the notion of good is irreplaceable when it appears together with complex proposition, otherwise their meaning would change” (122).

Yet, if we look at this problem from a phenomenological perspective and ask ourselves “what does the question ‘x is good’ truly ask?” we will see how what we want to know is the concretum of goodness as it belongs to that specific intentional act correlated to that specific ontological region. The question addresses the kind of properties and objects with which the notion of good is in a mereological foundation. Since the good correlates with its logical properties in an essential way and since the logical properties are what is posed, then the good is the mereological foundation of those parallel properties. We know how to answer the Open Question in relation to the good without leaving x as an incognitum. The good is that Satz (proposition) which receives a cognitive fulfillment qualified by axiological properties related to a specific ontological region existing in one’s experience of a given space and moment in time. Differently from Geach’s argument toward Moore (1956, 33), Staiti is not saying that the good is an attribute of being because there is a mereological relationship between logic and axiology, the posited and the good. While an attribute can be removed or changed without altering the essence of the object, in this mereological relationship the good and the posited are interwoven with each other via a motivational necessity; changing any of these terms will change the nature of the phenomenon itself.

I think that Staiti succeeds in his goal of showing the mutual enrichment deriving from applying phenomenology in metaethics. The argument presented in this concluding chapter is a tangible proof of it.

References

De Caro, M. 2016. “Natura e Naturalismi.” Hermeneutica, 16: 9-24.

Geach, P. 1956. “Good and Evil.” Analysis, 17: 33–42.

Husserl, E. 1988. Vorlesungen ueber Ethik und Wertlehre. Dordrecht: Kluwer. (Hua, XXVIII).

Husserl, E. 2004. Einleitung in die Ethik. Dordrecht: Kluwer. (Hua, XXXVII).

Husserl, E. 1965. “Philosophy as Rigorous Science,” trans. in Q. Lauer (Ed.), Phenomenology and the Crisis of Philosophy. New York: Harper.

Moore, G. E. 1903. Principia Ethica. Cambridge: Cambridge University Press.

 

Dietrich von Hildebrand: Morality and Situation Ethics

Morality and Situation Ethics Book Cover Morality and Situation Ethics
Dietrich von Hildebrand. With a new foreword by John Finnis
Hildebrand Project
2019
Paperback $ 16.99
220

Reviewed by: Norman Lillegard (The University of Tennessee at Martin)

This is an inquiry into a specifically Christian ethics, one that at first sight looks multiply parochial. It is an extended argument for quite traditional Roman Catholic positions on moral matters.  Moreover, it instances a more or less Augustinian approach to ethics and may thus represent a (large) minority position even within the Roman Catholic community, which has been dominated philosophically by Aquinas. And, its original polemical targets were particularly prominent a half century ago, and arguably reflected a zeitgeist that has withered on its own.  Nonetheless it still has some bearings on persisting issues germane to any Christian ethic, protestant or Catholic, as well as on some more or less secular ethical views, and applications to current culture are readily available.

The principal aim is to lay out some of those features of a Christian ethic that distinguish it from “situation ethics.” Hildebrand insists that Christian ethics requires moral commands or general moral principles that are non-negotiable, that must be observed in every case without any modification in the light of possible consequences, or in light of the peculiarities of a situation, or of the person in the situation, or some combination of these.  The prominence of “absolutism” or anti-consequentialism in specifically traditional Roman Catholic teaching is brought out in John Finnis’ introduction to this edition, where citations from papal encyclicals, most notably Veritatis Splendor, with its stress on intrinsically evil acts, figure prominently.  Moreover, this edition includes as an appendix an address by Pope Pius XII on “moral law and the new morality” dating from 1952. The notions of law and of intrinsic wrongness thus figure prominently throughout, but there is no attempt to argue for the superiority of a distinctly deontological ethics over more teleological approaches to ethics and natural law.  In fact there is no sharp distinction drawn in these terms; nonetheless the principal concern is with the idea that certain actions (or less commonly omissions) are always and everywhere impermissible. Although clearly wedded to Roman Catholic traditions and emphases, the analysis is deployed against a trend, againstthe creeping influence of situation ethics both in the culture at large and also among some Roman Catholic scholars and Catholic institutions.

That trend may have been particularly noticeable in the latter half of the last century, and it appeared to some as a capitulation to a more general spirit or trend, particularly prominent in the late 50’s and ‘60s, which opposed what was perceived to be a kind of legalism, a morally rigid stress on the letter of the law (the rule, the command, the principle), in favor of the idea that one should simply love or do what love, or some similarly strong pro attitude, required.    One important source of situation ethics was the wildly popular Situation Ethics: The New Morality (1956) by the protestant theologian Joseph Fletcher.  Many of that book’s readers, both devotees and critics, shared the sense that it summed up the antinomian sensibilities of the 60’s counterculture. Nonetheless it is not difficult to find applications of Hildebrand’s critique to the less optimistic and more ironical culture of today.

The notion of “situation ethics” is vague and some versions arguably contain inconsistent elements. Versions of relativism, non-cognitivism, and emotivism reside uneasily, not always with explicit acknowledgement, with act and rule utilitarianism in Fletcher’s work, to take one example. But clearly utilitarianism is cognitivist and rules out cultural or individual relativism.

However, Hildebrand is less interested in a direct analysis and critique of some version of situation ethics, than in an analysis of what it rules out, and why. There are I think no strawmen in his argument.  He attempts to show how some of the motivations of the situation ethicist deserve careful attention and respect.  In fact, he holds that by doing justice to some of the “valuable contributions” (p. 9) of situation ethics a clearer elaboration of Christian ethics becomes possible. Here the details are of general interest; Catholics, protestants, secularists, whether philosophers, theologians, or even novelists (sic!) may find in his detailed discussion of pharisaism,  self-righteous zealotry, self-righteous mediocrity, the self-righteous timorous person,  and the tragic sinner, significant distinctions and contrasts that are often mischaracterized or overlooked.

Situation ethics is sometimes motivated by an aversion to pharisaism, which may be construed as a thoughtless application of rules or principles to every morally fraught situation. But Hildebrand argues that the most essential ingredient in pharisaism is not a spiritless devotion to the letter of the law, but rather pride, the urge to judge others, the complete rejection of charity or mercy, and the use of moral principles as a means to self-glorification. The Pharisee is thus opposed to the spirit of the law, the spirit of repentance and self-abasement. The true pharisee (obviously an ideal type in Hildebrand’s taxonomy) is thus opposed to God as God, as infinitely above his creatures.   It is, arguably, those features of pharisaism, rather than reliance on rules or principles per se, that accounts for the negative connotations of “pharisee” which the situation ethicist responds to.

The pharisaism of “the pharisee” can be usefully contrasted with the mitigated pharisaism of the self-righteous zealot or the self-righteous mediocre individual. The self-righteous zealot does not oppose the spirit of the law, but she is primarily concerned with the violations of other persons.  She is a moralizer who focuses on moral wrong, the violation of a law, principle or code, rather than on the complexities of the situations within which all people choose, and regularly fail, when measured only by that law.  The law is a blunt instrument in her undiscerning hands, and its being so serves her purpose, since use of the law as a tool in sensitive self-evaluation would disable her focus on the violations of others.  Hildebrand mentions the main character in Mauriac’s Woman of the Pharisees as an instance of this type.  She tends to mix social improprieties with moral failings; moral rules are just further specifications of “what is commonly done.”  Thus she may even be suspicious of saints, since they seem to stand outside common norms. To the extent that the situation ethicist detects and rejects this banality and bluntness, he must get positive credit.

The self-righteous mediocre person, on the other hand, lacks the perverse focus on morality instanced by the self-righteous zealot. His principle concern is that he be morally secure, and his attempts to abide by the letter of the law enable the desired sense of security.  Once secure, he can get along with the ordinary business of life, business, politics, family etc. in a favorable state of mind. He is not overly focused on others or heedless of his own failings, but his attempts at external conformity suffice for him. He does not attempt to edit away any of the demands of the letter of law, but he does not heed its penitential function.  The important thing is to be correct, and he is, like the zealot or the true pharisee, intolerant of the failures of others with respect to the letter, and also tends, like the zealot, to mix moral with merely social correctness.

Both of these types of self-righteousness can be contrasted with what we find in a morally timorous man.  He uses conformity to the letter of the law to avoid risk taking. His primary concern is with safety. He does not have the pride of the Pharisee, or the hardness of the zealot or the mediocre man in judging others.  But the letter of the law shields him against any deep and sometimes risky investment in morally difficult circumstances.  Typical proponents of situation ethics are particularly likely to contrast this feature of the timorous man with the kind of risk taking and deep responsibility of the truly moral man who on their view must dare to act for the best without guidance or guarantee.

The situation ethicist contrasts the “tragic sinner” with all of the types mentioned so far; although the tragic sinner does not deny the relevance or importance of principles or laws, she does not advert to them to establish moral superiority, or retreat to them to avoid risk and conflict.  In fact she holds them in such high regard that a violation causes her great pain.  But we can imagine a situation in which she can only achieve a great life good (for example the fulfillment of a great love) by violating a moral requirement. Her capacity for love, her earnestness in the face of her situation and the impossibility of achieving a life of deep fulfillment and even nobility without the violation makes her a “tragic” figure. It is easy to sympathize with the claim that she is morally superior to the self-righteous or the timid, and to infer that “rule worship” would constitute a personal failure in her situation.

It is even possible to have a kind of moral admiration for those who feel no pressure from rules or moral laws, and thus are anything but tragic, but who act spontaneously from motives of kindness, generosity, or fellow feeling.  Tom Jones in Fielding’s novel may rightly get more admiration than the grim and judgmental legalists who surround him at church.

Finally, the situation ethicist may go so far as to accord some positive value to sin itself. There is a kind of sinning that expresses spiritual energy, a concerted rejection of self-righteousness, and may lead to various goods.  On the one hand it may lead to a deeper recognition of unworthiness, of the sort unknown to the “correct” but self-righteous person.  Or it may seem to function as a felix culpa, understood as calling forth of greater “soul benefits” than would otherwise have been possible. It is in relation to these ideas about the tragic sinner and the “happy fault” that Hildebrand’s discussion of situation ethics intersects with his account of “sin mysticism.” The two are logically distinct, but Hildebrand notes their confluence in the thinking of many, due to a shared detestadon of pharisaism in all its modalities and of spiritual sloth or merely conventional observance of moral principles, which figure prominently in both.

The foregoing summary does not, of course, do more than touch upon a few of the features of the detailed moral phenomenology explored by Hildebrand in his effort to credit the “valuable contributions” of situation ethics. It is easier to say briefly how situation ethics nonetheless fails to escape justified criticism from the absolutist.  The principal criticism is simple; none of the praiseworthy elements in human moral struggle highlighted by the situation ethicist depend for their existence on the exclusion from full ethical life and deliberation of fundamental laws, principles, divine commands or any other deontological elements. This point is quite clear; none of the positive traits of the tragic sinner (to take the case most favorable to the situation ethicist’s position), her passion and multiform depth of character, would necessarily be absent from a person who flatly refuses to contravene a moral rule. Arguably such a person exhibits even greater depth of character. The ability to sacrifice a kind of self-fulfillment in obedience to moral law can bespeak a remarkable personal development and energy that logically requires the hardness of the rule.  Variations in this basic critique are spread throughout the first nine chapters; though the basic critique here is worth emphasizing, and varies somewhat in sundry applications, this book ends up being somewhat repetitious .

There are other criticisms of situation ethics worth mentioning here. Consider Hildebrand’s attack on the relativism of situation ethics. Situation ethics is relativistic since it denies that there are any “values” that govern more than one case at a time. It thus endorses the most extreme form of relativism, individual relativism. A consistent statement of this view is very difficult to formulate, as the writings of Montaigne attest. It implies the claims that ideas of moral progress and moral advice are empty, and that there can be no moral exemplars or moral education (142). These claims arguably entail some version of non-cognitivism, but the situation ethicist does not endorse non-cognitivism.  He may insist that one can know some such general principle as “always follow conscience” but this principle is empty, or in Hildebrand’s terms, merely “formal.”

The individual relativism of situation ethics also requires a denial of common experiences of the differences between cruelty and kindness, generosity and selfish hoarding and the like, which Hildebrand regards as pre-theoretical “givens” (cf. Charles Taylor’s notion of “thick description”). In fact, Hildebrand argues that despite the situation ethicist’s emphasis on the contingent multiplicity of ethically charged “situations” he in fact fails to appreciate the full complexity of ethical life. He may miss the way judgement on evil is ideally, at least in the Christian vision, combined with an appreciation for the complexities of human lives and the universality of moral weakness. The Christian is well situated to assert, with St. Augustine, that “man’s heart [is] an abyss” (quoted on  118). The dominical admonitions to refrain from judging (in the sense of assuming a Godlike ability to see everything that is in a person) respect that abyss, and are combined with the sense that there, but for the grace of God, go I. Thus situation ethics may itself be subject to a kind of simple mindedness, when it is not simply confused.  These are not parochial criticisms.

Hildebrand also employs a tu quoque that has some force against the situation ethicist. A fundamental motive of situation ethics appears to be the desire to avoid judgementalism.  But the situation ethicist often seems eager to dismiss as legalists, slaves to convention, hypocrites, cowards, or insensitive to context those who take seriously rules or principles (understood as more than rules of thumb) or who believe that there are real distinctions among virtues and vices. Thus, he exhibits thoroughly judgmental attitudes towards much of humanity, perhaps especially those who take moral matters seriously.

In ch. 10 Hildebrand sets out what he considers to be three “basic errors” of situation ethics, at least in its more extreme forms.

First, the situation ethicist ignores or tends to discount the force of the moral “ought,” which he may view as a mistaken importation of juridical notions into ethics. He tends to contrast the person acting under obligation with the person (much to be preferred on his view) who spontaneously does what is right or good. This contrast, between duty and sentiment or inclination, so prominent in arguments between Kantians and “sentimentalists,” is irrelevant on Hildebrand’s view. He contends that each and every “moral value response” including those in which a person acts with passion and enthusiasm, is experienced as “something that should be;” each “contains an element of obedience” (128).

Hildebrand’s language here is (as is often the case in this book) vague or slippery. Is loving ones enemies “obedience” to a command or law, or not? At first sight Hildebrand seems to discount any contrast between the deontic and the axiological, as we might now put it. We might expect the result to be anti-supererogationism, a view characteristic of the protestant reformers.  Compare that to the contrast, found in Aquinas, between acting from principle or under a law, and acting for the good. Aquinas distinguished precepts, which are universal in their scope (like laws), from counsels, which are addressed to the few who have the capacity and inclination to pursue the life of perfection. For Thomas, the open-texture character of the counsels makes the morality of love superior to mere obedience to or conformity with divine law or commands. But Thomas does not draw a clear borderline between duty and supererogation. It is, for example, not clear whether “love thy enemy” is a precept or a supererogatory counsel. It is similarly unclear whether acts of charity (such as almsgiving) are duties or lie beyond duty, and so on for other cases. In view of the evident difficulty here we can appreciate Hildebrand’s apparent conflation of precepts and counsels and his treatment of the love commands (Mk 12: 29-31) as foundational for the entire “moral” (unexplained) domain. But there is a further related difficulty in this neighborhood.

The first edition of this book preceded the groundbreaking essay “Modern Moral Philosophy” (1958) by Gertrude Anscombe, who argued that the idea of a “moral ought” was a leftover from a time when divine law and divine commands were essential to ethics (metaethics).  She argued that since the belief in the divine has largely disappeared, the notion of a “moral” ought, which elicits so much philosophical puzzlement, should be abandoned. The notion of the moral, with its lingering hint of something demanded (and thus perhaps of “obedience”) is now meaningless. That being the case she advocates a return to a more or less Aristotelian virtue ethics for the purposes of contemporary debates on ethics. Hildebrand makes unexamined uses of “moral” quite central to his discussion; such expressions as “moral demand,” “moral value response,” “morally relevant values,” positively clutter this book. It is of course true that he has not abandoned theism. It does not follow that he is entitled to a continued use of these expressions, since he refuses to make a clear distinction between obedience to divine commands or divine law and any other “moral” (unexplained) responses (cf. the discussion on p. 132 of “general morally relevant” values vis a vis “general principles and laws” and “positive commandments of God.”) Some such distinction is back of Anscombe’s critique.  Otherwise put, he does not account for “moral obligation” by grounding it in a command issued by God or a standing obligation in natural law, but neither does he account for it some other way. Given his very heavy reliance on unexamined uses of “moral,” Hildebrand’s failure, in later (post 1958) editions, to respond in at least some minimal way to Anscombe’s critique will be considered a serious defect by many, including those who dissent from Anscombe’s view.

Secondly, situation ethics is criticized for eliminating the general (general principles or rules) from ethics.  The situation ethicist’s motivation for doing so resides in his belief, which is surely widely shared, that it is obvious that there are situations which not only permit, but require (“morally”), violation of such rules as “promises are to be kept” or “one must not swear falsely.” Hildebrand considers the case of swearing falsely to a tyrant, perhaps in order to save a life. Rather than insist (as Kant might have) that even in such a situation one must not swear falsely,  Hildebrand suggests that in some such situation the “oath” might lack “the intrinsic presuppositions” (131) for authenticity (and thus would not be a real oath) so that “swearing” falsely might be permissible or even required. Nowhere, however, does he say exactly what those presuppositions might be. This looks like mere evasion, and not just to a situation ethicist.

It of course does not follow that there can be no account of those “presuppositions.”  Nicholas Wolterstorff argues (in Justice: rights and wrongs, 2008) that commands, standing orders or laws obligate if and only if they are issued by agents who have standing and its associated potestas. A sergeant’s order obligates only where he has standing in relation to those he commands. He has no such standing in relation to those not in his platoon, so his production of the locutionary act of uttering an imperative sentence does not constitute the illocutionary act of issuing a command, when directed upon, say, the army’s commander-in-chief (or the writer of this review). There are very plausible arguments for the claim that tyrants lack standing to issue some commands, extract oaths, et al, so those commands are not real commands, those oaths not real oaths (Hildebrand: not “authentic”).  Hildebrand’s failure to respond to a quite compelling objection with little more than flat assertion will look serious to those seeking some philosophical illumination of the fundamental concepts in play here (obligation, command, duty, etc.).  Wolterstorff shows just one way to respond.

Hildebrand looks to be on firmer ground when he criticizes the situation ethicist’s use of “conscience” to do all the moral work.  The ability of conscience to warrant the very opposite of what morality requires is too well known (cf. Huck Finn’s misguided conscience, and “the Corsican Matteo Falconi” mentioned on p. 136). Conscience, Hildebrand rightly insists, only gets content by a struggle with precepts of some kind or other. But as already suggested, he does not give us an account of divine commands or natural law that shows how to sort the good precepts from the bad. Rather he alludes to features of a Christian life and Christian formation (the “imitation of Christ”, 142).  Practically that might suffice.  Philosophically it does not.

Thirdly, Hildebrand argues that the situation ethicist has a wrong conception of the relation of natural law to revealed law; he seems to assume that the latter invalidates the former. Hildebrand denies that natural law precepts can ever be invalidated.  But there are special cases where a revealed call supersedes natural law. St. Francis disobeyed his father.  His doing so was in response to a “call” which superseded, but did not invalidate, principles requiring filial obedience.  The specifically Christian sources of Hildebrand’s ethics become particularly evident here.  Once again someone who seeks philosophical illumination rather than Christian edification may feel shortchanged; are such natural law precepts as “parents are to be obeyed” binding always and everywhere, or not? If not, what considerations favor disobedience? Or are there cases of non-compliance that don’t amount to disobedience? Utilitarian or consequentalist reasonings would not be countenanced by Hildebrand. What then? Individual directives from the Holy Spirit? Is there some scale of higher and lower “moral values” that can in principle be accessed by any morally responsive person, or would specifically Christian formation be necessary to discern any exceptions or overriding factors?

In this book Hildebrand does not, so far as I can see, do what many Christian philosophers have tried to do, namely show in what ways an ethics devoid of theological reference must be defective, for example through failure to square with some widely shared ethical intuitions or beliefs. Hildebrand remarks that separation of morality from God causes it to lose the “breath of the eternal” (147). This idea from Kierkegaard challenges heart and mind when surrounded with the profound rhetoric and dialectic of his authorship. In Hildebrand it has only a faint appeal if any.

Thus the lingering parochialism of this work. Nevertheless, the detailed dissection of the moral simulacra that motivate some people to adopt situation ethics, or even attempt to abandon moral concerns altogether, will no doubt prove useful to many readers, and add to the substantial burden under which situation ethics already labors.

Czesław Porębski: Lectures on Polish Value Theory, Brill, 2019

Lectures on Polish Value Theory Book Cover Lectures on Polish Value Theory
Studien zur Österreichischen Philosophie, Volume: 47
Czesław Porębski
Brill | Rodopi
2019
Paperback €116.00
xii, 137