Nicola Ramazzotto (Ed.): L’estetica pragmatista in dialogo. Tradizioni, confronti, prospettive

L’estetica pragmatista in dialogo. Tradizioni, confronti, prospettive Couverture du livre L’estetica pragmatista in dialogo. Tradizioni, confronti, prospettive
philosophica (284)
Nicola Ramazzotto (Ed.)
Edizioni ETS
2022
Paperback € 15,20
140

Reviewed by: Filomena Trotta

Il volume curato da Nicola Ramazzotto raccoglie alcune relazioni presentate per la prima volta alla conferenza internazionale Pragmatist Aesthetics in Dialogue presso l’Università di Pisa, con l’esplicito intento di dare un rinnovato slancio alla complessità dell’estetica pragmatista. Gli otto contributi che compongono tale dialogo danno vita a un intreccio teorico per nulla estraneo all’essenza stessa del pragmatismo, proponendo un percorso capace di indagare in senso retrospettivo, parallelo e prospettivo la continuità tra diversi metodi e stili filosofici.

Attraverso un’indagine di tipo sinechista, atta a lavorare sulle analogie nelle differenze piuttosto che su rigide contrapposizioni, il primo contributo della raccolta, scritto da Rosa Calcaterra, approfondisce la questione della continuità epistemica e ontologica nell’estetica di John Dewey in relazione al trascendentalismo di Kant e all’empirismo di William James, fino a considerare la proposta di Linguistic Turn di Richard Rorty. Fin da subito viene messo in evidenza come Dewey, nelle pagine del suo celebre testo Art as Experience, tenti di evincere le funzioni antropologiche e storiche dell’esperienza artistica, un criterio metodologico che ricorda molto il punto di vista pragmatico dell’antropologia nel pensiero kantiano, soprattutto nell’utilizzo della locuzione Kunst. Foucault sottolinea come questa parola, frequentemente impiegata nell’Antropologia di Kant, diventi simbolo dell’ambiguità epistemica e ontologica dell’esistenza umana: si tratta di un’espressione che si fa carico di tutto l’enigma che costituisce la condizione dell’esistere, della sua essenza patica e al tempo stesso artefice, dove nulla si dà alla coscienza se non attraverso la libertà di cui essa gode e allo stesso tempo di cui essa stessa è vittima, nel momento in cui non riconosce i limiti delle proprie possibilità di attingere in modo inequivocabile alla verità. La Kunst, in tal senso, non intacca il principio ontologico della libertà umana, ma piuttosto ne evidenzia la natura mutevole in quanto potenzialità e possibilità da implementare (p. 11). Se Kant, però, aveva postulato l’esistenza di un mondo noumenico entro il quale operasse la libertà in quanto carattere distintivo della ragione in virtù di una supposta autonomia delle strutture razionali della mente umana, per l’empirismo naturalistico di Dewey la libertà costituisce un fattore che pervade a tutti gli effetti la sfera biologica, sensibile e fisico-naturale. Il metodo empirico, seguendo la scia jamesiana, non solo permette di approfondire aspetti ontologici della realtà, ma consente allo stesso tempo di indagare le fitte relazioni tra realtà fisica e realtà psichica, tra sensibilità e ragione. Appare dunque eloquente la posizione deweyana in merito alla valenza antropologica della produzione artistica, nonché il profondo legame che lega l’ontologia all’antropologia, là dove l’ordine non viene imposto dall’esterno, bensì sviluppa se stesso, coinvolgendo un numero sempre maggiore di cambiamenti e risignificazioni (p. 14). Al di là dell’impostazione trascendentale della conoscenza tipica di Kant, è dall’empirismo di William James che prende vita il progetto deweyano di dare rilievo alla ricchezza ontologica ed epistemica dell’esistenza umana. L’impatto jamesiano è palese anche nella considerazione del nesso tra piano dell’agire e piano del significato, un legame che non era sconosciuto nemmeno a Pierce. In tal senso, l’opera d’arte non è solo una risultante immaginativa, ma ha anche la possibilità di agire nel mondo concentrando e ampliando l’esperienza immediata in quanto comprova della complessità del vissuto (p. 17). Un aspetto altrettanto rilevante che compone l’indagine sulla costituzione del concetto di esperienza in Dewey arriva dall’attenta disamina di Rorty in merito all’utilizzo, da parte del filosofo pragmatista, di un vocabolario e un’epistemologia fortemente contaminati dalla corrente idealista. È proprio partendo da questa constatazione che, secondo Rorty, si rende necessaria un’indagine comparativa tra esperienza e linguaggio, approdando alla possibilità di un Linguistic Turn in ambito pragmatico. Ma ciò che principalmente si evince da questo tentativo è l’imprescindibilità della ricostruzione di un concetto di esperienza che abbracci le diverse interpretazioni fornite da Pierce, James e Dewey nelle loro rispettive filosofie, al di là di qualsiasi paradigma fondazionalista. Infatti, sebbene le metodologie d’indagine dei tre filosofi siano evidentemente differenti, attraverso il loro intreccio è possibile agire su fruttuosi punti di consonanza, cercando così di svilupparne le tracce più rappresentative.

Il secondo contributo, di Danilo Manca, tenta di far fronte a quella che possiamo definire una negligenza filosofica rispetto al mancato dialogo tra fenomenologia e pragmatismo nel corso del Novecento. Nel saggio di Manca vengono prese in esame, nello specifico, le posizioni di Husserl e Dewey, dapprima constatandone le analogie in virtù di una doppia implicazione tra esperienza estetica e vissuto quotidiano, per poi evidenziare le sfide che i due pensatori rispettivamente pongono alla filosofia rispetto a un concetto di esperienza artistica inscritta in una dimensione naturale. Per entrambi i pensatori, seppure partendo da presupposti alquanto differenti, il riferimento all’arte risulta imprescindibile per descrivere i caratteri emotivi e percettivi dell’esperienza umana, nonché per dare forma alla sfida che l’arte ha il compito di lanciare alla filosofia. Contro qualsiasi impostazione isolazionista, l’obiettivo di Dewey è di comprendere come il “quotidiano far cose” si riveli una “forma di fare genuinamente artistica”, come prova del fatto che l’essere umano abbia la capacità di dare coesione al senso, al bisogno, all’istinto e all’azione in quanto caratteristica della creatura vivente (p. 28). È inoltre evidente l’intreccio tra esperienza ed emozione in quanto fonte dell’arte: l’atto espressivo necessita la frequentazione di uno stato d’animo che orienti la percezione. In questo gioco di fare e subire che è l’esperienza, anche l’immaginazione occupa un ruolo imprescindibile in quanto adattamento tra nuovo e vecchio. Diversamente, Husserl considera la percezione e l’immaginazione come atti totalmente differenti: in tal senso, considerare la parte ignota di un oggetto rappresentato in un’immagine non porterebbe ad immaginarlo, bensì a co-intenzionarlo in quanto aspetto irriflessivamente saputo (p. 31). Tale dissonanza, però, trova il suo punto di risoluzione nella consapevolezza che tutto ciò che viene esperienziato può essere notevolmente arricchito dalla componente immaginativa. Rivolgendoci inoltre alla sfida posta alla filosofia di dover partire dall’esperienza estetica per comprendere davvero cosa sia l’esperienza, si scorge tra Dewey e Husserl un’ulteriore differenza che cela in sé, anche in questo caso, la possibilità di rendere questo incontro particolarmente proficuo: se per Dewey l’esperienza estetica va a costituirsi come sguardo privilegiato sul costante alternarsi di armonia e disordine che scandisce l’incontro tra organismo e ambiente del vissuto quotidiano, per Husserl esperire esteticamente comporta una rottura con il mondo ordinario, costituendosi come atto che porta a maturare su di esso uno sguardo da spettatore disinteressato. Sebbene si tratti di una differenza incontrovertibile, entrambi concordano sul fatto che il soggetto sia portato ad agire e vivere all’interno di un sostrato abituale che non consentirebbe di assumere una posizione adeguata rispetto al vissuto. È qui che per entrambi i pensatori si fa palese la necessità di un arricchimento estetico capace di aprire l’essere umano a un’effettiva capacità critica che conduce a un’integrazione tra dato di fatto e novità (p. 36). Il pregiudizio husserliano nei confronti del naturalismo, concepito come modo ordinario del vivere o in quanto conoscenza naturalistica del mondo, viene superato attraverso l’approccio filosofico di Merleau-Ponty che, lavorando su un terreno fenomenologico, si accorse della mancanza di Husserl nell’esplicitare che l’atteggiamento naturale presuppone metodicamente una preparazione fenomenologica (p. 40). L’indagine sulle potenzialità dell’esperienza estetica da un punto di vista pragmatico e fenomenologico approda alla consapevolezza che questo tipo di vissuto sia da intendersi come preparazione al rivolgimento filosofico in quanto esperienza attiva che porta alla luce aspetti della specie umana: in tal senso, la fenomenologia dovrebbe considerare, oltre al corpo vissuto e al corpo come oggetto, anche il corpo vivente studiato dalla biologia. Il corpo vivente preso in considerazione all’interno del dibattito estetico, inteso come intenzionalità incarnata e sede dell’esperienza, è il punto di contatto con l’alterità, con il mondo storico e sociale, nonché con la sua dimensione naturale. Risulta dunque fondamentale parlare di corpo, in quanto ciò consente di mettere al centro tutte le possibili interconnessioni del vivente.

Nel terzo capitolo si delinea il tentativo di Nicola Ramazzotto di dar vita a un dialogo tra pensiero angloamericano e pensiero continentale in merito al tema dell’esperienza estetica e della sua capacità di costituire nuovi orizzonti di significato. Tale incontro viene realizzato prendendo in esame le posizioni di Heidegger e Dewey, due pensatori apparentemente agli antipodi, che però nelle divergenze possono dar forma a un dialogo estetico quanto mai fruttuoso. Partendo dalla constatazione di una progressiva compartimentazione e musealizzazione dell’arte nel corso della modernità, entrambi i pensatori concordano sul fatto che ad oggi l’esperienza artistica non soddisfi più il nostro bisogno di significato (p. 47). Il mondo greco, al contrario, necessitava dell’arte per comprendere e rappresentare la natura e la storia. La realtà moderna e classica diventano dunque per Heidegger e Dewey due esemplificazioni del concetto di arte totalmente diverse: nel primo caso, infatti, si costituisce come mero piacere soggettivo, mentre nel secondo come vera e propria possibilità di significazione in relazione a una determinata realtà storica. Non si tratta di un ritorno al classicismo in senso nostalgico, ma si mira piuttosto a dimostrarne la portata in virtù di un’odierna possibile riconfigurazione del nostro rapporto con l’opera d’arte che tenga conto della sua intrinseca capacità di arricchimento onnicomprensivo, in contrasto con la concezione che sorregge la visione artistica nel mondo moderno (p. 48). Per quanto l’ermeneutica e il pragmatismo siano due correnti filosofiche essenzialmente distanti, vi si può scorgere un’inaspettata assonanza nel tentativo di rispondere alla crisi dell’esperienza estetica, riconoscendo la sua capacità di dare vita a nuovi orizzonti di senso. Significato e orizzonte diventano allora due parole chiave per approfondire il dialogo tra Dewey e Heidegger: per entrambi l’esperienza umana non è ricerca di una mera verità teoretica, ma di una verità che sia significativa, una situatività che può essere dispiegata solo in relazione a un determinato ambiente. Dunque, l’arte, in quanto azione significante, consiste proprio nel trasformare una situazione data in un qualcosa che abbia senso e valore (p. 50). Il significato non è mai l’unico possibile, ma è sempre il senso di una precisa situazione, dove per senso s’intende l’unità di significati nella formazione di una realtà condivisa (p. 51). Noi abitiamo, o meglio “in-abitiamo” il mondo grazie ai nostri habits che insieme danno forma all’ethos, propriamente il nostro in-abitare, e solamente un mondo abitato artisticamente può essere significativo. L’arte, afferma Heidegger, fa sì che le cose siano liberate dal loro semplice essere-cosa e possiede la capacità di creare significati in virtù della sua particolare modalità di prendersi cura delle cose. Ramazzotto evidenzia come sia per Dewey che per Heidegger l’abilità di un soggetto che crea sia artistica se mossa dall’amore, e come questo amare sia l’essenza autentica del potere, che non solo può far essere questa o quella cosa, ma può anche permettere alla cosa stessa di essere presente (p. 53). Il significato può dispiegarsi solo all’interno di un orizzonte, cioè la totalità dell’insieme di significati a partire da cui un evento può assumere senso. L’arte, dunque, non ha solo il compito di svelare la dimensione situazionale, orizzontale e spazio-temporale del vissuto umano, ma possiede anche un carattere operativo, stabilendo i differenti e sempre mutevoli orizzonti di verità e di senso per l’abitare umano – là dove per abitare s’intende l’assunzione di un atteggiamento di radicamento nel mondo e di ricezione in divenire del vissuto. Infatti, sia per Heidegger che per Dewey, l’arte è una peculiare modalità di apertura all’evento mettendo in discussione la totalità dei significati che lo animano in virtù di un dispiegamento di nuovi orizzonti di abitabilità (p. 57). Tuttavia, così come non è possibile riferirsi a un significato unico, in egual misura non è possibile parlare di un solo orizzonte, ma di una serie di orizzonti che si susseguono storicamente. Ne consegue che l’arte diventa mezzo privilegiato per una comunità storica per conoscere se stessa: la storicità, in tal senso, è da intendersi come inevitabile situatività che permette al vissuto di essere significativo nella composizione di una rete di credenze che permette all’essere umano di accadere in un mondo condiviso.

Il quarto contributo, firmato da Elena Romagnoli, indaga il rapporto tra opera d’arte e pubblico, prendendo in considerazione le posizioni di Hans-Georg Gadamer e John Dewey, rispettivamente operanti nelle correnti dell’ermeneutica e del pragmatismo. L’idea di conciliare la lettura estetica dei due pensatori nasce in virtù del loro modo d’intendere l’opera d’arte come vero e proprio processo d’interazione. Sul versante deweyano, l’indagine prende avvio dal ripensamento dell’esperienza in senso anti-cartesiano con un particolare focus sul legame tra la creatura vivente e l’ambiente in cui questa dispiega il proprio esistere. L’ambiente diventa motivo, non causa, per cui la vita è: nessuna creatura vive solo sotto la propria pelle, piuttosto è solo quando essa riesce a prendere parte alle relazioni ordinate nel suo ambiente che si garantisce la stabilità che è essenziale per vivere. Da ciò ne consegue l’imprescindibilità di un ripensamento dell’esperienza stessa da un punto di vista antropologico (p. 67). Occorre tuttavia chiarire che un’esperienza estetica si differenzia significativamente da un’esperienza ordinaria, proprio per la sua capacità di racchiudere in sé un insieme di significati altrimenti dislocati e inafferrabili. Come viene lucidamente chiarito da Romagnoli, non si tratta di una separazione netta, quanto di un rapporto processuale di continuo perfezionamento e arricchimento reciproco, tale da procurare una vitalità intensificata. Su un altro versante, attraverso un approccio squisitamente heideggeriano, Gadamer intende mostrare il carattere mutevole e trasformativo dell’esperienza a partire dalla centralità dell’esperienza estetica. Un ruolo fondamentale in virtù di questo obiettivo è svolto dal tema del gioco, un concetto capace di mettere in discussione una lettura dualistica che vedrebbe l’opera d’arte come mero oggetto contrapposto a un soggetto. Da un punto di vista antropologico, il gioco diviene momento di comune sperimentazione a patto che venga preso sul serio e abbia una compiutezza (p. 71). In uno scritto successivo a Verità e metodo, ovvero il saggio L’attualità del bello. Arte come gioco, simbolo e festa, Gadamer descrive il gioco come funzione elementare della vita umana, come fenomeno di eccedenza di autorappresentazione del vivente riscontrabile nella natura e in tutti gli animali, come movimento senza fini che nell’essere umano però acquisisce razionalità e consapevolezza (p. 72). Anche lo spettatore è invitato a prendere posto in questo continuo movimento in virtù della determinazione stessa del gioco, il quale presuppone sempre un “giocare insieme”. Questo aspetto mette in luce il ripensamento dell’esperienza estetica in senso processuale in contrapposizione a una lettura che la renderebbe priva di potenzialità estrinsecative e interattive. Dewey, in tal senso, evidenzia come un’opera, per essere davvero artistica, debba anche essere estetica, ossia “concepita per una percezione ricettiva della fruizione” (p. 74). Tale esperienza andrebbe così a costituirsi come una forma stessa di creazione e partecipazione all’opera. Come per Dewey, dunque, anche per Gadamer risulta necessaria una riformulazione del rapporto tra creatore e pubblico in virtù di una rinnovata considerazione dell’esperienza estetica. Il carattere interattivo dell’arte ne mostra il suo aspetto collettivo essenziale, nonché il suo costituirsi come fenomeno collettivo, anti-elitario e trasformativo.

Continuando sulla scia di un dialogo che ha per sfondo una lettura pragmatista dell’estetica, il quinto contributo, di Stefano Marino, si focalizza sulla questione della popular music (nella forma di una sfida estetica rivolta dall’arte popolare all’estetica tradizionale) e si muove tra pragmatismo e teoria critica. Partendo dalla considerazione del modo di indagare tipico del pensiero occidentale, il quale si costituirebbe nella forma di un “All or Nothing”, viene enfatizzata la necessità di un superamento di tale tendenza dicotomica a favore di un approccio maggiormente comprensivo, tipico della corrente pragmatista. Nella sua opera Estetica Pragmatista Richard Shusterman evidenzia in modo eloquente la negligenza filosofica nei confronti dell’arte popolare, la quale, quand’anche considerata, viene abitualmente declassata a mero prodotto privo di valore (p. 82). L’arte popolare in realtà è un ambito molto vasto e in continua espansione, così come la popular music, la quale contiene in sé numerosi generi e sottogeneri, anche legati alle odierne sottoculture. Tra alcuni filosofi contemporanei impegnati nel dibattito sulla popular music – e, come si vuole sottolineare nel caso specifico, sulla musica pop-rock – spicca la disamina di Alva Noë, il quale, seguendo una tendenza piuttosto tipica delle odierne critiche filosofiche, evidenzia come alcune forme della musica pop-rock siano perlopiù trainate dalla figura stessa dell’artista fomentato dalle masse. In tal senso, ciò che viene adornianamente definito come il “materiale musicale” costituirebbe solo un mezzo finalizzato ad attrarre tutta l’attenzione sul personaggio. Non si tratterebbe dunque di musica, ma piuttosto di mero fanatismo e culto della personalità. È evidente come questo tipo di impostazione filosofica non sia disposta ad ammettere l’esistenza delle numerose sfumature presenti nel mondo della musica pop-rock, prediligendo al contrario un’ottica che mira a porre delle pretese totalizzanti valide per tutto il genere, in linea con la succitata logica “Tutto o nulla”. Viene evidenziato però come, in modo alquanto interessante, Noë si smentisca nell’ammettere che alcuni fenomeni nel campo della musica pop-rock come i Radiohead possano occupare una sorta di “spazio intermedio”, posizionandosi nella sfera del genere pop-rock e al contempo creando una musica che richiede attenzione e che affascina in quanto musica (p. 86). Ciò comporta che non ci sia alcuna ragione per ignorare altri tipi di eccezionalità, altri “oggetti di consumo d’avanguardia”, come ad esempio i Nirvana, chiave di volta all’interno di questa indagine, oltretutto citati più volte nell’analisi critica di Noë per supportare la sua posizione in merito allo scarso valore significativo della musica pop-rock. Come evidenziato dal famoso pianista contemporaneo Brad Mehldau, per quanto sia indubbio che molte persone siano attratte all’ascolto di questa band per via del culto della personalità, è altrettanto evidente che fermarsi a queste considerazioni limiterebbe la possibilità di accogliere qualcosa di più sottile, come la capacità e la forza di Kurt Cobain di esprimere la propria vulnerabilità, nonché la fragilità di una generazione politicamente destabilizzata, un’abilità oltretutto supportata da un grande talento compositivo (p. 89). Al di là di qualsiasi pretesa generalizzante, Shusterman mette in luce come gran parte della popular music del nostro tempo pretenda di essere creativa e originale, e come questa originalità si possa raggiungere anche attraverso quella che potremmo definire un’appropriazione creativa del vecchio (p. 91). Dunque, attraverso un approccio adorniano “eterodosso” alla popular music (ossia, al di là di una dicotomia troppo ferrea tra musica leggera e musica seria) e attraverso le stimolanti intuizioni di filosofi impegnati nella valorizzazione dell’arte popolare come Shusterman, emerge la possibilità di sviluppare analisi maggiormente concrete delle varie arti e delle differenti forme della loro appropriazione (p. 93). Tale capacità, come chiaramente evidenziato nel capitolo qui presentato, può emergere in maniera decisiva grazie a un punto di vista estetico che sia pluralista e pragmatista, capace di donare rilievo e slancio a generi musicali come il pop-rock che, seppure segnati dai caratteri di mercificazione e feticismo, possono costituirsi come esperienze estetiche dalla grande ricchezza significativa.

Nel sesto contributo, firmato da Anita Merlini, l’intento è quello di mettere in luce gli sviluppi teorici sugli studi visuali e sulla Bildwissenschaft attraverso un’ottica critica squisitamente pragmatista. Entrambi gli ambiti nascono ufficialmente nel 1994: i primi con la pubblicazione del volume Picture Theory di William J.T. Mitchell, nel quale viene annunciata una “svolta figurativa”; i secondi con la pubblicazione dell’opera Was ist ein Bild? di Gottfried Boehm, nella quale viene presentata una “svolta iconica” (p. 99). Al di là delle modalità con cui si vogliano descrivere tali svolte, questi campi di studio si contraddistinguono per la promozione di un approccio interdisciplinare, il quale però rischia di risultare particolarmente destrutturato, soprattutto in mancanza di un assetto epistemologico ben definito. Innanzitutto, bisogna specificare che entrambe le correnti mirano al raggiungimento di uno statuto che consideri l’immagine come fenomeno a se stante, libera dall’imperante logocentrismo su cui il sapere in generale e gli studi sulle immagini in particolare tradizionalmente si poggiano (p. 100). Le posizioni teoretiche di Mitchell in merito allo statuto delle metapicture, cioè immagini capaci di fornire un discorso retrostante alla pura rappresentazione che ci dice qualcosa dell’immagine stessa, vengono contrapposte all’impostazione pragmatista e fenomenologica di Wiesing, il quale, nel volume Sehen Lassen, contesta tale descrizione dell’immagine, che tenderebbe a concepirla come una sorta di soggetto capace di agire (p. 104). Secondo Wiesing, infatti, non sono le immagini di per sé a mostrare un determinato stato di fatto, ma siamo noi, in quanto soggetti umani atti all’interpretazione, ad attribuire all’immagine una capacità significativa. L’immagine si costituirebbe così come un intreccio segnico sviscerabile solo da un ente interpretante. Il nodo problematico delle premesse di queste due correnti si muoverebbe attorno a una mancata distinzione tra visibilità e ostensione: se il primo concetto può essere inteso come un dato di fatto potenzialmente osservabile, il secondo va a configurarsi come una vera e propria azione mossa dall’intenzione. Risulta evidente, dunque, come la visibilità dell’immagine non sia metodicamente legata alla sua ostensione: la capacità ostensiva dell’immagine non rappresenta una sua caratteristica visibile, quanto piuttosto una sua disposizione attuabile solo grazie alla presenza umana. Così, l’approccio dei Visual Studies e della Bildwissenschaft, che tende a soggettivizzare le immagini in virtù di un approccio all’immagine fortemente animista, rischierebbe di trasformarsi in una nuova ideologia dell’immagine, minando i fondamenti di qualsiasi comprensione filosoficamente coerente capace di fornire un impianto epistemologico e metodologico alla base di tali approcci. L’indagine qui riportata mira, dunque, a risvegliare la presa di coscienza rispetto a tali rischi, promuovendo una riconfigurazione degli studi sull’immagine in virtù della possibile istituzione di una vera e propria disciplina, un’esigenza che risulta quanto mai necessaria.

Nel settimo capitolo, Alberto Siani focalizza la propria attenzione sul tema della valutazione del carattere di paesaggio, una nozione che fa la sua prima comparsa negli ultimi trent’anni in ambito anglosassone, diffondendosi rapidamente in altri contesti. La sua nascita è finalizzata alla tutela e alla gestione di un paesaggio sulla base delle sue caratteristiche, rispondendo a un’urgenza di tipo pratico e teorico. L’obiettivo qui proposto è quello di sottrarre il controllo dei criteri di valore del paesaggio al monopolio di pochi individui privilegiati, rendendo tale gestione libera dal paradigma modernista sotteso a operare tramite un dualismo di oggettività e soggettività. Il paesaggio sarebbe dunque inteso come un’entità oggettivamente data, in contrasto con l’esperienza profonda di chi lo abita. Ci si propone, dunque, di delineare una proposta di miglioramento ispirata alla corrente pragmatista che consideri il paesaggio come unità vivente e concretamente situata della nostra esperienza, in virtù di una riconsiderazione dei concetti di estetica e di esperienza (p. 120). L’oculocentrismo e l’essenzialismo che dominano gran parte della teoria e della pratica del paesaggio ostacolano l’obiettivo di transdisciplinarietà, che parrebbe almeno formalmente condiviso. L’ambito della valutazione paesaggistica, difatti, sembra essere guidato da metodi e prospettive di architetti e geografi, a discapito di altre discipline e altri ambiti altrettanto necessari in tale contesto. Il principale problema, secondo tale indagine, è sostanzialmente la vera e propria “scomparsa dell’estetico” e una ristretta concezione di esperienza (p. 118). Una prospettiva pragmatista, invece, favorirebbe la costituzione di un concetto di esperienza che riguarderebbe ogni singola interazione tra essere umano e ambiente, così come un concetto di estetica che agirebbe sulla qualità di tale interazione. Il paradigma dominante, che mira a considerare il paesaggio come un costrutto oggettivo parcellizzabile, dovrebbe al contrario considerare che il carattere di un paesaggio richiede la consapevolezza di un certo grado di arbitrarietà e instabilità, attraverso una prospettiva che dunque non dia nulla per scontato, ma sia anzi in grado di problematizzare (p. 121). In tal senso, la nozione di carattere dovrebbe render conto, per quanto possibile, di aspetti come la pluralità culturale, psicologica ed esperienziale di un determinato ambiente attraverso una rinegoziazione di esigenze, valori e punti di vista. La proposta qui presentata non mira certo alla fondazione di una prospettiva soggettivista e relativista dell’ambiente, quanto piuttosto all’apertura di uno spazio all’interno del quale sia possibile esplicitare una valutazione del carattere del paesaggio davvero includente, trasparente e partecipata, guidata da un approccio pragmatista dell’esperienza e dell’estetico.

L’ottavo contributo, firmato da Giovanni Matteucci, conclude il fruttuoso dialogo sin qui esposto proponendo di indagare la svolta pragmatista degli ultimi cento anni nell’ambito dell’estetica filosofica. Tale teoria estetica, rispetto alle altre, implica la revisione di strutture fondanti della stessa filosofia moderna, in virtù di una radicale rivalutazione teoretica in ambito estetico. Si tratta, dunque, non solo di una sfida filosofica all’estetica, ma anche di una sfida estetica alla filosofia (p. 125). L’intento del contributo di Matteucci è proprio quello di mettere in luce il senso di tale sfida: riprendendo alcune delle tesi dell’estetica moderna, si procede ad evidenziarne i punti critici attraverso una disamina diversiva di impianto pragmatista. Quello che ne risulta non è un sistema chiuso volto all’istituzione di principi fissi e immutabili, ma uno spazio entro il quale sono ravvisabili i principali impianti tematici di una reale rivoluzione pragmatista in ambito estetico. Una delle tesi di stampo modernista qui presentata descrive la disciplina estetica come finalizzata alla considerazione e alla valutazione dell’arte e dei suoi prodotti, una pretesa che, in un’ottica pragmatista, risulta di per sé essenzialista – in quanto tendente ad attribuire all’arte un’essenza valida per tutti i suoi prodotti – e giustificazionista – perché non in grado di accogliere fenomeni estetici inaspettati, che si costituirebbero al di là di ciò che viene in modo unanime ritenuto esistente. In tal senso, è necessario mettere in discussione la pretesa di istituire un principio che riconosca un prodotto perfetto come standard dell’estetico: l’opera d’arte, come evidenzia Dewey, non è un prodotto oggettivo assumibile come dato, ma mira piuttosto a dare risalto alla modalità dell’esperienza rispetto all’oggetto fattuale, coinvolgendo in un movimento unitario organismo e ambiente. L’estetico avrebbe dunque un’accezione oggettuale, addirittura avverbiale: l’interazione si costituisce esteticamente quando l’esperienza prende forma attraverso le variegate modalità d’interazione tra organismo e ambiente, dove per organismo s’intende un essere vivente di cui si riconosce pienamente la sua immanenza corporea. Un’ulteriore tesi di stampo modernista tenderebbe a rilegare l’estetico al di là dell’ambito percettivo, sublimando il sensibile nello spirituale. Al contrario, il pragmatismo invita a prendere sul serio il senso etimologico del concetto di aisthesis, che dunque non dovrebbe preoccuparsi del prodotto, quanto piuttosto del modo in cui soggetto e ambiente interagiscono intessendo un particolare costrutto esperienziale. In tale contesto, Dewey mette in luce come l’esperienza estetica, e dunque l’opera d’arte nella sua attualità, sia percezione (p. 129). Tale approccio antropologico alla teoria della percezione mette in secondo piano ogni partizione tra differenti facoltà sensoriali, in virtù di un’unità percettiva sinestetica e cinestetica. Inoltre, contrariamente alla teoria secondo cui l’esperienza estetica si costituirebbe a partire da ciò che di determinabile cognitivamente va a presentificarsi, il pragmatismo promuove un’esperienza pre-discorsiva, ponendosi in quello spazio liminale in cui il soggetto, non ancora completamente individualizzabile, costituisce un’unità simbiotica con l’ambiente in virtù di un’interazione immediata, intuitiva e contestuale (p. 133). Ciò non equivale ad escludere totalmente ogni contenuto cognitivo: un simbolo, ad esempio, configura automaticamente una presenza che non rinvia, bensì manifesta. La pregnanza significativa dell’estetico, con le parole di Dewey, non risiederebbe in una presunta funzione semiotica, quanto piuttosto in una relativa aspettualità espressiva. Si può allora parlare di giudizio estetico, ma solo come processo mutevole e mai esatto, mai concluso. Risulta interessante anche la posizione del pragmatismo in merito alla presunta mancanza di significato dell’esperienza estetica teorizzata dalle correnti moderniste: per quanto l’estetico in senso pragmatista escluda le dimensioni del significato in senso denotativo, ciò non implica che sia privo di una carica semantica. Tale carica espressiva, significativa ancor prima che significante (perché si vuole dare rilievo alla significatività immanente al campo, piuttosto che alla denotazione di senso), recupera l’effettiva qualità dell’esperienza nel suo invito a prender parte, nella sua dimensione relazionale (p. 135). La percezione, in tal senso, è da intendersi come prassi immanentemente dotata di orientamento, rilevanza e ricettività performativa, ben diversa dalla passività del riconoscimento fattuale (p. 136). Il pragmatismo non s’impegna a prendere in esame gli aspetti canonici di espressione, forma e contenuto: la nozione di esperienza messa qui in risalto rende giustizia alla pienezza dell’arte, collegando artista e pubblico in un processo di mutuo scambio. L’arte, nella sua creazione e nella sua fruizione, non si costituisce in un binomio soggetto/oggetto, nel senso che non c’è qualcuno che chiama e qualcuno che risponde, cioè non ci sono ruoli predefiniti senza possibilità di mobilità: c’è la partecipazione di un movimento magmatico creato da questa stessa partecipazione che, partecipando, crea lo stesso appello, crea la stessa chiamata.

Don Ihde: Husserl’s Missing Technologies

Husserl's Missing Technologies Couverture du livre Husserl's Missing Technologies
Perspectives in Continental Philosophy
Don Ihde
Fordham University Press
2016
Paperback $24.00
192

Reviewed by: Aleksandra K. Traykova (Durham University)

Don Ihde has produced a total of six books in the past decade, but although the last one (Acoustic Technics: Postphenomenology and the Philosophy of Technology) appeared only two years ago, his readers were becoming impatient. Acoustic Technics was brilliant, however, its narrow focus on embodied sound left us longing for more of the American philosopher’s insights into science and technology more broadly construed. After finally getting my hands on a copy of Ihde’s latest book, I can confidently say that it was well worth the wait. Husserl’s Missing Technologies is fascinating! Winner of the Golden Eurydice Award for outstanding contributions to the field of biophilosophy, Ihde draws on more than four decades of research expertise in the contested areas of phenomenology and the philosophy of science. In accordance with his usual style, in this work Ihde addresses an astonishing plethora of issues, historical examples and philosophical ideas. The following review will discuss some of these elements.

Тhe book is comprised of seven chapters, each more layered and enthralling than the previous one. Following a lengthy introduction, which problematizes the technological gap in Husserl’s writings and thus justifies Husserl’s Missing Technologies as a project, Ihde swiftly moves straight into a discussion of technology use, scientific objects, the historical development of technoscience, and the timeline of science interpretations in philosophy. This abundance of topics might lead a less experienced writer to create a blurry, perhaps somewhat incoherent framework, but Ihde skillfully escapes this trap, instead setting the ground for a very structured and nuanced piece of writing. As a result, each chapter is sufficiently clear-cut and ambitious in its own right that it could easily be turned into a stand-alone project. Yet in spite of that, the transitions between separate chapters are executed brilliantly and without so much as a hint of discontinuity. For instance, in the first half of the book Ihde’s analysis and historical overview are left to unravel quietly while also clearly foreshadowing the claims about the role of postphenomenological, multi-instrumental technoscience that are made towards the end of the book; by the time the reader reaches the final chapters, the connections have already started to become increasingly obvious, and a complex but coherent argumentative structure gradually begins to emerge.

The title of the book sets the tone for Chapter 1 ‘Where are Husserl’s technologies?’. It opens with a statement that is fairly uncontroversial amongst Husserl scholars: namely, that Husserl’s references to technologies are sparse and usually mentioned only ‘in passing, without serious or in-depth philosophical analysis’ (13). Though this statement applies equally to ordinary-use technologies and to instruments or special technologies used in science, Chapter 1 focuses on the latter. After a short historical interlude which offers examples of the tendency for technology usage-spans to become increasingly shorter, Ihde introduces his readers to the style of science-technology analysis called postphenomenology and identifies its American pragmatist influences (e.g. John Dewey), adding that philosophies should also have usage-spans akin to those of technologies.

The book is an enjoyable read for anyone whose professional interests revolve around phenomenology and these early sections make for an excellent topic of discussion amongst introductory philosophy classes of a more general kind. Ihde questions an uncritical assumption we hold (which we would never make about scientists of the past) that all philosophers in history are our intellectual contemporaries. Science clearly has a history of ‘disappearing scientific objects’: ‘Democritus’s hard, indivisible atoms, Aristotle’s crystalline spheres, phlogiston, aether, the four humours, and most recently event horizons—all are gone except as interesting but quaint historical objects’ (17). It is not that these features of obsolescence or abandonment cannot be observed in philosophy, rather that the most notable examples have tended to appear in response to developments in technoscience; as suggested by the brief science-technology studies (STS) and the science interpretation timeline offered by Ihde in the next section.

Ihde notes that it took an astonishingly long time for anything properly resembling a ‘philosophy of technology’ to come into existence. The mid-twentieth century brought about two different sets of science interpretations ; a ‘conceptual’ and a ‘practical’ one to which scientists (or philosophers of science with notable antipositivist inclinations) and social scientists, respectively, were contributing. It took until the 1980’s for a distinct philosophy of technology to disentangle itself with authors such as Albert Borgmann, Langdon Winner, Andrew Feenberg, and Hubert Dreyfus leading the way. By this time positivism had met its demise, and the ‘acultural, ahistorical, unified, and triumphal’ understanding of science had become replaced by an outlook far more sensitive to the fallibility of science and its social and historical dimensions (22).

Ihde dives into a fascinating exploration of paradigm shifts for a reason. He does a wonderful job of accounting for the way in which ‘the rise of multiple reconsiderations of science, coupled to an increased interest in technologies […] shift the understanding of both science and technology toward more historical, cultural, and material dimensions’ (21). However, he does so in order to identify the reason for the sudden theoretical interest in instruments and technologies expressed in major works like Robert Ackermann’s Data, Instruments, and Theory (1985) or Ian Hacking’s Representing and Intervening (1983). It is only after Ihde has completed this task that he moves on to the next section which invites readers to re-visit Husserl ‘retrospectively’ and approach his writings (and the predominant science interpretations amongst his contemporaries) from a point of view located at the very end of the timeline he presented earlier (17-22)

The analysis sets out by making three important observations about Husserl’s philosophy of science: Firstly, that it remains largely on the mathematizing side in spite of occasional preoccupations regarding the separation of science and lifeworld. Secondly, that Husserl worried that rationality might be slipping away from science. Thirdly, that the praxis-lifeworld relations Husserl theorizes about in selected bits of The Origin of Geometry are apparently set up in a way which allows for sciences to be born from concrete practices – e.g. geometry arose out of the Ancient Egyptian practice of remeasuring and setting up field boundaries anew after the annual floods. The analysis then gains a comparative aspect as Ihde begins to reflect on the difference between Heidegger’s hammer, Merleau-Ponty’s extended embodiment of canes, and Husserl’s microscope-things and telescope-things. Ihde identifies a kind of ‘vestigial Cartesianism’ (31) in Husserl’s attitude toward objects, since, according to Husserl tools and technologies need to be seen and conceptually recognized as objects in their ‘objectness’ (i.e. as ‘things’) before they can be meaningfully deployed in praxis (25). Values and potential uses are seen by Husserl as things that are added on, rather than intrinsically present.

This discussion seamlessly transitions into an inspection of the relativity or correlation with the nearby-far-off-world which is enabled by instruments, and the ways that correlation fits within the wider unity of experiences. For example, when observing the moon through a telescope Ihde notes that before the ‘first revolution in sciences with technologies […] the experience through the telescope is not primarily of the telescope’ (31; his emphasis). He then explains how in cases of mediated perception the instruments which mediate the perception tend to undergo a withdrawal and become experientially transparent; something which Husserl does not describe in his writings.

However, the technologies of postmodern science no longer deliver experiences isomorphic or analogue to those of ordinary human bodily perception; they have ventured beyond optical imaging and into, e.g. instruments mapping the electromagnetic spectrum. Contemporary technologies can therefore be said to bring into being Husserl’s ‘open infinity of universal world truths’ by revealing the existence of neutron stars, black holes, gas clouds, and multiple galaxies of many and varied shapes (32-34). Ihde is right in claiming that Husserlian phenomenology was not equipped to deal with the worlds beyond the limits set by analogue-isomorphic technologies. One of the big questions of Chapter 1, then, is whether philosophies ought to be prepared for the kinds of theoretical and instrumental shifts characteristic of the sciences if they want to be successful in dealing with a new world? For Ihde the answer is a solid ‘yes’.

Chapter 2, ‘Husserl’s Galileo Needed a Telescope!’, discusses Husserl’s philosophy of science ‘in the light of contemporary analyses of science in practice’ (35). It starts out with the caveat that, for Husserl, the paradigmatic examples of science were: firstly, the ahistorical kinds of disciplines which lend themselves to mathematization, formalized expressions, and idealization and secondly, the kinds of disciplines which involve minimal amounts of embodiment practices and, with the exception of physics, minimal amounts of instrument use. These are, of course, the sciences that Husserl himself was most familiar with in terms of praxis (geometry, physics and astronomy) but they also fit within the broader process of mathematization initiated by other early twentieth century philosophers of science like Ernst Mach, Jules Poincaré and Pierre Duhem.

The next section of Chapter 2 describes the movement from mathematization (abstract and formalistic) to logical positivism or empiricism (with a pronounced focus on perception and observation). It then outlines a further move to anti-positivism (a lot more sensitive to historical context and well aware of the discontinuity present in science) which sets the ground for the next section where Ihde situates Husserl within this rich and slightly confusing intellectual landscape. Ihde notes that, for Husserl ‘science is not ahistorical, noncontextual, but rather is thoroughly historical, contextual, and cultural’, even though in science we can observe an ‘upward, slippery incline of approximations into an ideal world, which distances the investigator from the bodily-materiality of the lifeworld’ (44). The connection to the lifeworld is supposedly maintained, as long as an awareness of the whole process and its origins persists.

 But what did Husserl get wrong? The next three sections reveal that Husserl’s portrayal of Galileo’s philosophy of science may have been too reductionistic. While the astronomer was indeed confident that the language of mathematics played a crucial role in interpreting and understanding, he would have been unable to produce ground-breaking science with his bare senses unaided and unamplified by the telescope. As none of these contingencies received special mention from Husserl, Ihde notes that Husserl’s ‘preselected and reduced’ Galileo seems abstract and almost ahistorical, his ‘perceptions and practices with and through the telescope’ absent from Husserl’s histories:

…his Galileo is not the lens grinder, the user of telescopes, the fiddler with inclined planes, the dropper of weights from the Pisa Tower, but the observer who concentrates on, on one side, the already idealized “objects” of geometry and, on the other, the plenary ordinary objects that are before the eyes but indirectly analyzed into their geometrical components. (52)

The final three sections show that a different analysis would have been possible if Husserl had further developed his insights about the importance of written documents as fixed, material, embodied linguistic meaning-structures and instruments as offering a sort of transformational mediation between science and the lifeworld. However, Husserl is forgetful of Galileo’s telescopic praxis.

Just as promised in Chapters 1 and 2, Ihde does return to the reading-writing technologies in Chapter 3 (‘Embodiment and Reading-Writing Technologies’), in order to explore the issues Husserl sees there on a deeper level. The framework of the discussion is dictated by the transition from classical phenomenology to postphenomenology. Husserl’s own writing technologies – different types of pens, eyeglasses, magnifying glass, mimeographs and many others – are examined in truly remarkable detail (and featured on a timeline of writing, reading and optical technologies in Table 1, p. 64) and can be contrasted with his opinions on tools and scientific technologies.

A couple of reccurring motives appear to be that of executive consciousness governing a passive and somewhat ‘machine-like’ body, and that of typicality (of actions or practices, of standard measures, of shapes and trajectories). Ihde challenges these ideas in different ways, including by pointing at counterexamples from contemporary art (e.g. Matisse’s ‘virtuoso practice’ which clearly demonstrated atypical trajectory, especially in his late works). The final section of the chapter is dedicated to reflections on the predominant contemporary embodiment practices; whether or not they can be considered reductive, and whether and how they transform our experiences of space-time.

Chapter 4 – ‘Whole Earth Measurements Revisited’ – goes back to one of the notions first introduced towards the end of Chapter 1: that science needs instruments in order to discover new phenomena or to constitute new problems on which to focus. Structured around Ihde’s 1996 original paper of the same title, the chapter asks whether Husserl’s phenomenology, with its missing technologies, would be capable of detecting a ‘Greenhouse Effect’? It then argues in favour of a negative response; as whole earth measurements are far too complex to be accommodated by the perspectives of classical phenomenology, calling instead for two concepts Ihde refers to as firstly, the earth-as-planet perspective and secondly, an ‘understanding of measurement practice from a thorough technoscience, or instrumentally embodied science’ (80; emphasis not mine). Without those concepts and the aid of imaging technologies, we would be unable to visualize greenhouse gases, which are subperceptual. Ihde is clear that ‘instrumental mediation for Husserl yields a perceptual-correlate’, therefore in a Husserlian framework they would have to be inferred in Cartesian ways rather than perceived (81). Ihde identifies this problem as a Cartesian ‘conceptual duality between concretely perceived plena and abstractly idealized pure shapes’ (Ibid), noting that greenhouse gases are, of course, not pure shapes at all, but that if we want to account for them as material entities, we would need the assistance of postphenomenological, multi-instrumental, embodied technoscience (81-83).

Chapter 5, titled ‘Dewey and Husserl: Consciousness Revisited’, rereads Husserl and John Dewey on consciousness against the backdrop of the increased late twentieth century interest in consciousness, neurology and psychology (especially in a cognitivist context). In doing so Ihde defends phenomenology from accusations that it is subjectivist or an antiscience. From brain scans to animal studies observations of tool or technology use among corvids and primates, the realms of ‘calculating consciousness and technological innovation’ appear to be inextricably linked (92). So, Ihde turns to Dewey’s pragmatism and Husserl’s phenomenology to see exactly how the role played by consciousness differs in each of these experientially based philosophies (hint: they differ in the explanatory models they apply to epistemologies of experience, with Husserl’s essentially representing an adaptation from that of Descartes, and Dewey’s having clear Darwinian influences).

We get to take a deeper look at pragmatism and how it connects to phenomenology in Chapter 6, ‘Adding Pragmatism to Phenomenology’. Here Ihde continues addressing further critiques of phenomenology, e.g. that it relies on introspective methods and that it remains static. According to Ihde, the pragmatist    rejection of essentialism/foundationalism,  representationist/correspondence  notions of truth and transcendental/empirical distinctions is a philosophical style which postphenomenology can reclaim, i.e. replicate, ‘with and through phenomenology’ (109). But is phenomenology capable of returning the favour and enriching pragmatism in a similar manner? Ihde points at several phenomenological techniques (or tools) that could do just that: variational theory, multistability, embodiment, and critical hermeneutics. He then goes on to show how a pragmatic phenomenology or a postphenomenology can be expected to deal with technologies – especially newer and more radical imaging technologies such as the ones that postmodern radio and radar astronomy relies on – in ways that traditional forms of representation cannot.

Finally, in Chapter 7 (appropriately titled ‘From Phenomenology to Postphenomenology’) Ihde briefly outlines the evolution of phenomenology as a term referring to a style of philosophy, as well as the history of the term’s use in his own work, in order to identify the exact moment when postphenomenology began to mature and establish its own trajectory. The book ends by recapping the same ideas that made for such a spectacular and thought-provoking introduction: that philosophy, just like science, ought to keep transforming itself over time, and that as our lifeworld changes, so must our reflections on it.