Françoise Dastur: Déconstruction et phénoménologie. Derrida en débat avec Husserl et Heidegger

Innocenzo Sergio Genovesi

https://doi.org/10.19079/pr.2016.12.gen

Déconstruction et phénoménologie: Derrida en débat avec Husserl et Heidegger Book Cover Déconstruction et phénoménologie: Derrida en débat avec Husserl et Heidegger
Le Bel Aujourd'hui
Françoise Dastur
Hermann
2016
Broché 34,00 €
248

Reviewed by: Innocenzo Sergio Genovesi (Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn)

Derrida ha sempre presentato la sua filosofia come una scrittura a margine. Questo margine non corrisponde soltanto ai limiti della logica e della metafisica occidentale, che il filosofo francese cerca di destabilizzare dall’interno mettendo alla prova le strutture piú antiche e consolidate del pensiero. I “margini della filosofia” sui quali Derrida scrive sono i margini tangibili dei volumi dei classici filosofici: si tratta degli spazi bianchi non coperti dal testo stampato, della spaziatura tra le righe e le lettere, la quale apre nuove possibilità per una scrittura della disseminazione e per un pensiero della differenza rimasto ancora “inaudito”. Lo studioso di Derrida che si sia cimentato a sufficienza nella decifrazione di queste note a margine avrà senza ombra di dubbio compreso che la scrittura derridiana è sempre scrittura sopra e a partire da un testo. In questo modo, per Derrida la lettura di un autore va a coincidere fin da subito con un’operazione di scrittura. Cercare di enumerare tutti gli autori nei quali è possibile imbattersi all’interno della sterminata produzione derridiana sarebbe un’impresa filologica molto ambiziosa. Tuttavia, è noto che Derrida abbia nutrito una certa predilezione per alcuni autori le cui opere sono al centro degli scritti più conosciuti del filosofo francese: si pensi a Nietzsche, Levinas, Platone o Blanchot, solo a titolo d’esempio.

Nel suo libro Déconstruction et phénoménologie. Derrida en débat avec Husserl et Heidegger Françoise Dastur prende in considerazione due tra i filosofi che maggiormente hanno influito sul pensiero derridiano, se non addirittura le colonne portanti su cui si è sviluppato il pensiero della différance. Questi pensatori hanno segnato il debutto filosofico di Derrida come fenomenologo e hanno accompagnato il suo percorso fino alla fase di produzione più tarda, rimanendo rintracciabili in maniera più o meno esplicita anche nei suoi ultimi testi. Il lavoro della Dastur si prefigge di indagare il rapporto tra Derrida e questi due autori e di capire in che misura egli si sia allontanato dal loro pensiero nella sua operazione di riscrittura. L’investigazione è condotta con una raffinatezza analitica e una precisione filologica lodevoli. Grazie alla sua profonda conoscenza delle opere dei tre autori Françoise Dastur ci offre l’opportunità non solo di rintracciare con precisione nei testi dei filosofi tedeschi i luoghi di nascita delle future intuizioni derridiane, ma anche di comprendere se e quanto Derrida abbia ricostruito con fedeltà le idee dei suoi maestri nel momento in cui le ha presentate nei suoi testi. La decostruzione delle principali idee husserliane e heideggeriane è spesso dipinta come una specie di parricidio nel quale Derrida sovverte i sistemi filosofici dei suoi maestri servendosi dei mezzi teorici che questi stessi gli hanno dato. L’opera di Dastur ci mostra adesso che questo parricidio potrebbe in realtà non essere mai avvenuto e Husserl e Heidegger siano più vicini di quanto si creda al pensiero della différance.

Il libro si divide in tre parti. La prima e l’ultima sono dedicate rispettivamente al dialogo con Husserl e Heidegger. La parte centrale si propone invece come un terreno comune di confronto tra i tre filosofi. Il principale motivo di interesse di Derrida per Husserl è rintracciato nella discussione delle tematiche riguardanti la finitudine, la ripetizione e la presenza. Françoise Dastur sostiene infatti che il dibattito tra Derrida e Husserl corrisponda al dibattito generale tra la filosofia della presenza e il pensiero della non presenza (p. 37). L’accusa ben nota che Derrida rivolge a Husserl è di essere incapace di pensare la possibilità della propria sparizione e della propria morte. In altre parole, di non saper concepire la differenza originaria che si cela dietro alla presenza in generale; differenza che Derrida ha messo in relazione con la diacronicità della ritenzione e della ripresentazione in La voce e il fenomeno. Sono proprio queste strutture della costituzione temporale husserliana che catturano l’attenzione dell’autrice. In un’attenta analisi di La voce e il fenomeno, la studiosa osserva che l’idea derridiana di ritenzione e ripresentazione si basa proprio su una concezione discontinua del tempo come diacronia. Questa concezione non è tuttavia condivisa da Husserl, che ha piuttosto pensato la temporalità come un processo di autodifferenziazione continuo. Dastur evidenzia questo fatto richiamandosi alle Lezioni del 1905, dove Husserl sviluppa una concezione del tempo basata sulla differenza tra l’adesso – l’istante immediato – e il presente vivente, che comprende anche il passato appena trascorso e il futuro prossimo. Questa teoria della temporalità era stata utilizzata da Derrida contro Husserl in La voce e il fenomeno per criticare la sua teoria dell’idealità dei significati e per affermare l’originarietá della différance. Dastur rimarca con impegno che anche per lo stesso Husserl il presente vivente rinvia a un’alterità che si insinua nell’identità a sé del soggetto (p. 88 sg.), senza però che egli adotti una concezione discontinua del tempo: Husserl parla infatti di una modificazione continua della stessa impressione originaria nella coscienza. Françoise Dastur ci mette così di fronte al fatto che per decostruire la fenomenolgia in quanto “metafisica della presenza” Derrida deve uscire da essa, o per lo meno porsi al suo margine, e servirsi di un pensiero dell’alterità che viene assimilato alla “metafisica dell’esteriorità” levinassiana: è proprio l’alterità, vale a dire l’esteriorità, che costituisce la struttura diacronica dell’esperienza che non può mai essere totalizzata (p. 90).

Venendo al rapporto tra Heidegger e Derrida, il punto di contatto e di scontro più significativo è riconosciuto nel concetto di differenza nelle sue più svariate accezioni. Derrida ha illustrato in numerosi testi il suo debito nei confronti di Heidegger nel momento in cui ha coniato i due termini chiave della sua filosofia: decostruzione e differenza. La parola decostruzione vuole infatti tradurre l’Ab-bau heideggeriano, mentre la différance si pone fin da subito come un ampliamento della differenza ontologica. Dastur richiama all’attenzione che è proprio per via di questo pensiero della differenza come distinzione dell’essente in rapporto all’essere che Heidegger ricade, agli occhi di Derrida, nella metafisica della presenza e rimane più un pensatore dell’essere che della differenza (p. 116). Come è noto, le discordanze in fatto di differenza non si limitano soltanto all’ontologia. Anche i casi della differenza tra uomo e animale e della differenza sessuale, a cui Derrida ha dedicato svariati saggi a partire dagli anni ’80, sono riportati con grande accuratezza e l’esposizione è impreziosita dalla testimonianza personale dell’autrice, che era presente al convegno Reading Heidegger tenutosi nel 1986 a Colchester, dove Derrida tenne un lungo intervento. La domanda fondamentale che porta all’allontanamento di Derrida rispetto a Heidegger può essere generalizzata in questo modo: se vi è un primato dell’essere (ontologia), o della comprensione dell’essere da parte del Dasein umano (umanismo) o della neturalità del Dasein (differenza sessuale), in che momento e come può instillarsi una differenza in questo elemento primordiale? Come è successo nel dialogo con Husserl, anche qui sorge un problema genetico che porta Derrida a rifiutare la priorità di un pensiero dell’essere. La conseguenze di questo gesto risiedono da una parte nella negazione di unadistinzione tra uomo e animale basata sulla comprensione dell’essere da parte del primo, dall’altro nella rinuncia all’estromissione della sessualità dalla struttura essenziale del Dasein.

Sebbene la trattazione di questo problema teorico mantenga la sua ragion d’essere anche al di là del rispetto filologico del testo heideggeriano, Dastur ci mostra che la relegazione di Heidegger nel territorio della metafisica della presenza che opera Derrida è probabilmente troppo drastica e non tiene sufficientemente in considerazione gli sviluppi della filosofia heideggeriana dopo la Kehre. Facendo riferimento al testo Identità e differenza, apparso in tedesco nel 1957, l’autrice suggerisce che Heidegger, utilizzando gli strumenti offerti dalla lingua tedesca, voglia compiere un’operazione simile alla sostituzione derridiana della lettera e con la a nella parola différance: ridefinendo la differenza come entbergend-bergender Austrag e come Unter-schied egli fornisce infatti una nozione dinamica e processuale della differenza, secondo la quale essa non trova più origine nella trascendenza del Dasein, ma si presenta in maniera più originaria come una doppia piega dell’essere e dell’essente che li rende inseparabili l’uno dall’altro (pp. 129-130). Questa differenza non è più la relazione tra due termini dati, ma è l’accadere simultaneo della loro separazione e messa in relazione. In altre parole, anche nel secondo Heidegger, proprio come in Derrida, una differenza giace alla base dell’essere e della sua presentazione. Questo fatto risulta chiaro anche dallo sviluppo parallelo dei concetti di Ereignis ed Enteignis, per cui l’evento come coappartenenza di uomo ed essere si configura non solo come un’appropriazione, ma anche come espropriazione e privazione. L’elemento che in ogni caso distingue i due filosofi è il loro rapporto con la presenza: Heidegger non ha mai formulato un differimento all’infinito della presenza e non ha intenzione di mettere in questione il primato della presenza, che è la forma del darsi dell’essere nell’essente. Per questo motivo Dastur definisce Derrida come «il pensatore dell’assenza della presenza, di una presenza indefinitamente differita» e Heidegger come quello della «presenza dell’assenza, dell’estraneità dell’essente che emerge dal niente ed è portato dal niente» (p. 132).

La sezione del libro dedicata al confronto comune tra Husserl, Heidegger e Derrida mette bene in luce le sfide che il Derrida fenomenologo ha dovuto affrontare e i punti di distacco del suo pensiero rispetto all’impostazione fenomenologica in generale. Le questioni più controverse riguardano, com’è naturale aspettarsi, i problemi dell’origine e della temporalità, che trasposti su un terreno di studio più concreto corrispondono ai problemi della teologia e della storicità. Dastur evidenzia in maniera molto chiara che la differenza fondamentale tra Derrida e i due pensatori tedeschi risiede nel dato di fatto che la decostruzione non è un’analisi, ossia una regressione che porta a un’origine indecomponibile (p. 86). Non si cerca quindi di arrivare a un’elemento primo della nostra esperienza del mondo, cosa che il tardo Husserl vuole fare riabilitando l’esperienza antipredicativa della doxa e Heidegger ritornando alle esperienze originarie a partire dalle quali sono state definite le prime determinazioni dell’essere. Dal punto di vista del discorso sulla deità, questa rinuncia all’origine e alla validità fondamentale di un principio dei principi ha portato ad assimilare il pensiero derridiano della traccia e della differenza a una teologia negativa, cosa che in Husserl e Heidegger non può trovare luogo: da una parte infatti nella fenomenologia trascendentale la forma irriducibile di tutta l’esperienza, vale a dire l’egoità, precede anche la deità; dall’altra anche l’ontologia heideggeriana mostra di pensare la divinità al di là della totalità dell’essente, ma non dell’essere. Analogamente, trasponendo questo procedimento sul campo della storicità, Dastur ci fa vedere come il rifiuto di un’origine trascendentale e di una concezione ermeneutica e totalizzante dell’essere portano Derrida a respingere sia la proposta husserliana di una “storia trascendentale”, intesa come storia di ciò che rimane identico e può essere indefinitamente ripetuto, sia l’idea heideggeriana di una storia dell’essere, ossia della comprensione e riappropriazione dell’essere da parte del Dasein e del suo ritorno ad esso. Rinunciando a ogni originarietà, Derrida concepisce piuttosto la storia come gioco e scrittura della disseminazione: «Se ogni segno è una marca e quindi una ri-marca nella misura in cui essa non è originaria, se non vi sono che delle marche derivate, allora non è possibile stabilire tra di loro una gerarchia, né pensare la storia nella forma di un flusso continuo di tempo» (p. 105).

Déconstruction et phénoménologie. Derrida en débat avec Husserl et Heidegger è un’opera illuminante che ci offre la possibilità di ripensare il rapporto di Derrida con i suoi maestri e delinea una specie di map of misreading, o meglio una mappa della disseminazione che il filosofo della différance ha operato sul testo di Husserl e Heidegger. Se infatti la filosofia derridiana non può darsi che come scrittura della disseminazione, bisogna tener conto che ogni sua lettura e ogni sua scrittura a margine sono in una certa misura un misreading e un miswriting. Françoise Dastur evidenzia senza possibilità di fraintendimento quali sono a suo avviso i punti in cui Derrida si è tenuto fedele al testo e quali quelli dove un certo détournement è avvenuto, restituendoci le idee dei filosofi tedeschi al di qua della loro ricostruzione e decostruzione derridiana. Così facendo, l’autrice ci mostra come certe contrapposizioni teoriche siano state spesso esagerate o forzate e suggerisce che Husserl e Heidegger siano più vicini al pensiero della differenza di quanto si possa pensare. Ciò nonostante, anche i punti di distacco sono presentati con precisione inequivocabile, evitando di ricondurre i tre autori a un unico pensiero della differenza e salvaguardando l’originalità di ognuno.

Questa restituzione del pensiero di Husserl e Heidegger è sicuramente il punto di pregio più apprezzabile dell’opera, che in generale si presenta come uno studio rigoroso e accurato. Ciò che avrebbe potuto essere sottolineato con maggiore chiarezza e vigore è il passo in avanti che Derrida ha compiuto rispetto ai suoi predecessori attraverso la decostruzione e il pensiero dell’evento e che lo ha reso, come ha scritto giustamente Dastur, un pensatore dell’«assenza della presenza». Derrida riconosce con grande onestà intellettuale e con una certa ironia (che ha spesso portato al fraintendimento dei suoi testi) la paradossalità fondamentale di qualunque fenomenlogia genetica dell’origine e di ogni pensiero ermeneutico della riappropriazione e della riconduzione dell’altro al medesimo. Per questo motivo Derrida si distacca dalla concezione heideggeriana dell’Ereignis come coappartenenza di uomo ed essere e rappresenta l’événement come una venuta impossibile dell’Altro che non riusciamo a comprendere. È proprio questo messianismo senza messianismo o messianismo deserto di cui Derrida parla in Marx and Sons e in altri testi della sua produzione più tarda che rappresenta il motivo di allontanamento più pronunciato rispetto ai suoi maestri. Su questo punto cercare una comunicazione e un’apertura verso i suoi predecessori si rivela un compito difficilmente sostenibile, perché è proprio attraverso l’idea di una differenza e di un evento indecostruibili che Derrida vuole inaugurare un pensiero della (quasi-) origine e del (quasi-) trascendentale che rinunci definitivamente a una fondazione nell’egoità o nel Dasein.

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